Rohan Lalinda, 37 anni, tredici anni fa sbarcò sulle coste siciliane dopo un lungo viaggio che lo portò dallo Sri Lanka all’Egitto in aereo, e poi in Italia con un barcone carico di migranti. Sognava l’Europa, Rohan, una vita agiata e un lavoro per poter aiutare la sua famiglia. Sognava la vita normale che sognano tutti i migranti che salgono, pieni di speranza, sui barconi. Arrivato sulle coste siciliane, però, ha dovuto fare i conti con la triste realtà, quella che è diventata pane quotidiano per le cronache di tutti i giornali italiani.
Una volta messo piede sul territorio italiano, infatti, ad ‘attenderlo’ vi era un contrattempo di nome Cpt (Centro di permanenza temporanea), dove chiudono gli immigrati appena sbarcati. Quell’acronimo sarà,però, la cifra del suo destino. Rohan Lalinda nel 2001 aveva solo 24, e la sua vita cambiò per sempre.
Appena sbarcato a Catania era spaventato ed emozionato, ma soprattutto, per la legge italiana, era clandestino. Venne rinchiuso nel Cpt di Trapani in attesa di essere rimpatriato, perché senza documenti e lavoro non avrebbe avuto chance di restare. Nello Sri Lanka, però, non ci è più tornato se non in vacanza.
Oggi Rohan ha 37 anni, vive in Italia e di uno di quei centri in cui è stato rinchiuso è diventato direttore. Rohan Lalinda Kuruppu Arachchige è il nuovo direttore del Centro di identificazione ed espulsione di Bari, la versione aggiornata dei vecchi Cpt. A novembre è stato nominato al vertice del centro gestito dalla cooperativa “Connecting People” e opera nella struttura del quartiere San Paolo di Bari, in cui sono detenuti 80 tra tunisini, algerini, albanesi, georgiani e marocchini.
Con la sua squadra di dipendenti deve far fronte alle difficoltà e alle sofferenze di migranti rinchiusi nel Cie perché irregolari. “Clandestini come ero io”. Era, perché oggi Rohan è passato dall’altro lato della barricata. “Capisco le loro esigenze e cerco di fare tutto quello che mi è possibile per andare loro incontro, faccio del mio meglio. Sono entrato in Italia clandestinamente tredici anni fa e sono entrato nel Cpt di Trapani. In quel periodo ho avuto la possibilità di fare la richiesta di asilo politico, così mi hanno fatto uscire con un permesso di tre mesi rinnovabili. Dopo un anno e mezzo mi ha chiamato la Commissione che analizza le richieste di asilo e, non essendoci in quel periodo la guerra nello Sri Lanka, la mia domanda venne respinta. Ma sono stato fortunato perché dopo il diniego ho avuto la possibilità di avere un contratto di lavoro nel centro in cui sono stato ospite a Trapani”.
Così comincia la vita italiana del giovane asiatico che, dopo sette anni di lavoro in Sicilia, è stato inviato a Bari. In uno dei centri più difficili. “Le rivolte sono pane quotidiano e ogni giorno per qualsiasi piccolo motivo ci sono proteste perché, giustamente, sono in libertà limitata qui dentro. Il vero problema, al di là delle condizioni di vita, è stare dietro le sbarre. “Le attività sono limitate, sono pochissime ed è difficile anche fare qualcos’altro. Io come direttore posso fare molto poco perché con la legge che esiste dobbiamo sempre chiedere il permesso. Dentro possono giocare a carte, a dama, a scacchi. Forse il carcere è meglio di qua. Nel cortile un campo da basket e uno da calcio ma, per giocare, si fanno i turni”.
“I rimpatri effettivi – conclude Rohan in un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica – sono appena il 20%, gli altri dopo un po’ di tempo escono”. Centro di identificazione sicuramente sì, di espulsione qualche volta: un dato che la dice lunga, stando anche ad una ricerca portata avanti dall’università, sulla reale utilità di queste carceri amministrative.
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