Arte indonesiana, istruzioni per l’uso

 

Roma ha ospitato, dal 26 settembre al 4 ottobre, la XV Edizione di “ASIATICA – Incontro con il cinema asiatico”, nelle tre differenti sedi del museo MACRO, e dei teatri Ambra e Palladium alla Garbatella. Questo anno il festival del cinema, diretto da Italo Spinelli, ha avuto il suo focus sull’Indonesia, con la proiezione di sei film, cinque cortometraggi e tre documentari indonesiani, e la presenza del noto imprenditore Erick Thohir in veste di produttore cine-televisivo, del quale è stato proiettato il fil “Soekarno”, dedicato al primo presidente della Repubblica d’Indonesia, alla presenza del regista Hanung Bramantyo, e di altri registi famosi come Nia Dinata e Yosep Anggi Noen, o il produttore John Badalu. Importante anche la visione del lungometraggio “Opera Jawa” del regista Garin Nugroho, uno tra i lavori più famosi in Indonesia. L’intenzione è che “questo festival non solo possa dare un’idea dello sviluppo della cinematografia indonesiana nel tempo, ma sia anche uno scorcio della vita e delle dinamiche sociali di un’Indonesia pluralista”, secondo le parole di Mr. H. E.Budiarman Bahar, Ambasciatore dell’Indonesia presso la Santa Sede, a cui si deve la riuscita di tale evento.

Grazie sempre all’Ambasciata Indonesiana presso la Santa Sede, ASIATICA ha avuto come corollario culturale la performance di danza del gruppo Rumah Budaya Nusantara Puspo Budoyo, che ha aperto il festival al museo MACRO il 26 settembre, e si è poi esibito al teatro Palladium il 27 in una lunga sessione comprendente sette danze e diverse canzoni arrangiate con gli strumenti tradizionali indonesiani: Gamelan, Angklung e Kolintang. E, per completare, una Mostra di Arte Contemporanea Indonesiana intitolata “SHOUT”, dal 26 settembre al 12 novembre al MACRO, con l’aiuto della galleria Melbourne Intercultural Fine Arts (MIFA), e dei suoi curatori Bryan Collie, Santy Saptari e Mara Janessa Sison. La Mostra ha portato a Roma dieci degli undici artisti presentati, ed ha riscosso un grande interesse nel giorno della sua inaugurazione. Dalle chiacchiere scambiate con gli artisti è emersa una visione piuttosto critica della realtà sociale indonesiana, con problematiche mirate allo status della donna e del concetto di bellezza.

Aditya Novali
Aditya Novali

Aditya Novali (Jakarta, 1978) ha presentato con “New God” parte del suo progetto chiamata “Devotion”. Dodici croci, ognuna delle quali dedicate ad un famoso artista moderno e contemporaneo, come Dalì, Frida Khalo, Jeff Koons ed altri, intesi come “i nuovi apostoli” adorati e venerati nel’Arte contemporanea, interrogandosi su quale sia il valore di un’opera d’arte nel presente.

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Andita Purnama
Andita Purnama

Andita Purnama (Yogyakarta, 1981) ha rappresentato con la sua installazione “Singing in the Smokey Room” il tema della memoria, usando il nastro delle vecchie musicassette come metafora del passato e del presente che si amalgamano, per dare vita al futuro. Come nell’esistenza di ognuno di noi, si può solamente andare avanti, il passato non ci viene mai reso indietro ma rimane per sempre parte del nostro tessuto emotivo ed esperienziale (come ne “L’ultimo nastro di Krapp” di Samuel Beckett), ed acquista un senso solo se ci serve ad essere persone migliori. L’artista ha impiegato cinque mesi per realizzare l’opera, utilizzando circa trecento musicassette.

Angki Purbandono
Angki Purbandono

Angki Purbandono (Kendal, 1971) con “Corn Republic” ha affrontato in modo giocoso il serio tema dello sfruttamento delle risorse naturali nel mondo, ovvero il progressivo impoverimento delle risorse eco-alimentari dovuto all’avidità umana e all’egoismo del capitalismo e della società industriale, rappresentati dal militare che prova ad uccidere il gorilla in cima ad una pannocchia quasi del tutto consumata, simbolo dell’artista che non si arrende e difende il suo territorio, a sua volta protetto dall’Uomo Ragno che blocca il soldatino, simbolo della fantasia dell’Arte come cura ai mali della società moderna. Il tutto utilizzando oggetti trovati nelle discariche e scannerizzati, in polemica con la moderna fotografia ormai dedita solo ad apparire nei media o a vincere i concorsi

Bestrizal Besta
Bestrizal Besta

Bestrizal Besta (Padang, 1973) ha presentato tre opere: “Stone Marking”, “Who am I?” e “Outside Inside”, tutte incentrate in modo molto forte sul tema della paura e dell’infanzia. “Ognuno dei miei dipinti ritrae la figura di un bambino che è coperto ed isolato ma mostra l’intenzione di non arrendersi alle circostanze della vita”, dice l’artista. L’accento cade proprio sui bambini, in quanto esseri molto sensibili, ricettivi e simbolo della speranza per il futuro, a cui si contrappongono – ingabbiandoli – le aspirazioni e le scelte degli adulti. Ecco perché l’artista fa chiedere ad uno dei suoi bambini ingabbiati “Chi sono io?”: il bambino è come un libro vuoto, su cui gli adulti e la società scrivono le parole di ogni pagina, definendolo e giudicandolo. Ma i bambini possono non arrendersi a questo e spezzare la gabbia.

Erika Ernawan
Erika Ernawan

Erika Ernawan (Bandung, 1986), con “Self Image 1-4” si interroga in modo drammatico sul ruolo del corpo femminile nella società musulmana indonesiana, e lo fa – da musulmana – mostrando il suo stesso corpo nudo in un progressivo dissolversi in quattro specchi. Sensibile agli scritti femministi e alle teorie psicologiche di Lacan, Erika vive il corpo femminile come eternamente in lotta, “terreno di guerra e pace” come diceva Nietzsche. A maggior ragione in un paese a maggioranza islamica, che fa del controllo della nudità del corpo femminile un pilastro della sua filosofia. Erika ha avuto il coraggio di mostrare il suo corpo nudo, pur sapendo che è cosa vietata, proprio perché “se l’Arte è sincera non ha paura di nulla”, come mi dice; e con questo sottolinea come, a volte, nel suo paese, l’essere musulmano sia solo un abito da indossare. Qui non si sta parlando del concetto di bellezza femminile, ma d’identità e controllo dell’identità, che avviene a volte anche solamente attraverso lo sguardo che ci giudica; per questo motivo alla fine della sua rappresentazione l’artista ha infranto gli specchi, come a voler impedire allo sguardo della società di avere l’ultima parola sulla nostra identità.

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Gatot Pujiarto
Gatot Pujiarto

Gatot Pujiarto (Malang, 1970) ha esposto due opere “The Dark Age” e “the destroyed Peace”, lavori che ricordano l’arte di Burri, con tele di iuta strappate a mostrare altre superfici. Sono lavori che gravitano intorno alle sensazioni suscitate in chi le guarda e alle personali interpretazioni. Colpisce “The Dark Age” dove la parte esteriore nera rivela nei suoi squarci un bianco fondale, come a voler trasmettere un ottimismo e una speranza, che si può realizzare solo se è l’uomo stesso ad avere la forza di lacerare l’oscurità che ci circonda.

Gusman Heriadi
Gusman Heriadi

Gusmen Heriadi (Pariaman, 1974) propone due suoi lavori sull’interiorizzazione dei valori nella società. Interessante “Filling up” che rappresenta una donna intenta a leggere in cucina. “Questa donna simboleggia molte madri in Indonesia, ormai risucchiate dai social network, le quali hanno smarrito la voglia di studiare e si ritrovano ad essere superate in intelligenza e cultura dai propri figli piccoli che vanno a scuola. Per questo lei sente la necessità di trovare un momento per sé per tornare a leggere e studiare, e a riempirsi di cultura.” L’altro suo lavoro si chiama “Self-Hypnosis”, sul potere terapeutico dell’Arte.

Maria Indriasari
Maria Indriasari

Maria Indriasari (Yogyakarta, 1976). Anche Maria, come Erika Ernawan, analizza la condizione femminile. “I miei lavori sono sempre altamente correlati alla mia esistenza come donna, moglie e madre”, afferma l’artista, anche se non è la sua biografia ad essere raccontata ma parte della sua anima. “Il conflitto mentale tra amore e odio mi sembra essere un soggetto che mi suggerisce continua ispirazione”. Lo fa con due lavori, uniti nello stesso ambiente: “Destiny and regret” e “Postpartum Syndrome: Sinked”, realizzati con migliaia di spille da balia a rappresentare la condizione psicologica della donna, intesa sopratutto come madre. Secondo l’artista, ormai in Indonesia avere i figli è una richiesta sociale, non tanto dettata dall’amore ma, prima di tutto dall’Ego della donna, e poi dalla necessità di essere madre per realizzarsi come donna, come se essere mogli senza figli fosse dequalificante a livello umano. Ecco allora le tre figure femminili, da un lato, che provano ad innalzarsi a fatica sulla scala che rappresenta la dimensione spirituale e, dall’altro – in basso, la madre vittima della sindrome depressiva post-partum, di cui, pare, molte madri soffrano silenziosamente e, non curate, in Indonesia.

Sigit Santoso
Sigit Santoso

Sigit Santoso (Yogyakarta, 1964), nei suoi due dipinti “Ichthus” e “Sisyphus” affronta la tematica della Fede e del Lavoro. “Ichthus” è l’acronimo di Iesous Christos Theou Soter, che in greco significa “Pesce”, simbolo spirituale di Dio e del Cristianesimo. L’uomo dipinge il pesce da solo nella sua stanza perché incapace di trovarlo ancora nel mare, ovvero indica una via intima e solitaria alla spiritualità in una fase di perdita dei valori religiosi. Mentre il mito di Sisifo serve all’artista per raccontare la dimensione sociale del lavoro in Indonesia, della dura esistenza della classe sociale più umile, la cui identità è riconosciuta solo dal fatto che lavorano (da qui la scritta: lavoro dunque sono, parafrasando Cartesio), ma nello stesso tempo priva loro di ogni identità umana – il volto coperto e irriconoscibile. Costretti ogni giorno a portare sulle spalle il peso della loro povertà e sacrificio sulla cima del monte, per vederlo rotolare di nuovo a valle e iniziare di nuovo così ogni giorno della loro vita.

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Tantin
Tantin

I Gusti Ngurah Udiantara aka TANTIN (Bali, 1976) con “I am Beautiful therefore I Exist #5” polemizza intelligentemente con il moderno concetto di bellezza, raffigurando Sofia Loren con lamine di alluminio, che rendono una delle icone classiche della bellezza – per noi – assolutamente fredda e priva di emozioni. Secondo Tantin, si sta perdendo il senso delle singole bellezze locali peculiari di ogni paese, a causa dell’industria dell’estetica e della moda che tendono ad omologare i diversi concetti di bellezza, per arrivare ad un unico ideale di bellezza universale, che è però solo un sogno di plastica (metallo): “Il look esotico dei volti multirazziali diventa una bellezza standard, la quale è glorificata e seguita da molte nuove generazioni attraverso le recenti tecniche di chirurgia estetica del giorno d’oggi”, afferma l’artista.

Yudi Sulistyo
Caravan

Per ultimo Yudi Sulistyo (Yogyakarta, 1972), che non era presente a Roma, il quale con “Caravan” ha affrontato l’impellente problematica del sovraffollamento e dell’emergenza abitativa. E chi è stato a Jakarta capisce bene di cosa si sta parlando, ovvero dell’esplosione umana dell’unica grande città dell’Indonesia – polo burocratico, economico, politico e lavorativo – che è costretta ad accogliere tutte le persone che arrivano dal resto della nazione. L’artista lo fa in modo surreale proponendo il modello di una casa multi-livello mobile su di un caravan. Un modo ironico per parlare di una delle piaghe sociali più profonde di Jakarta, ma che vale anche per tutte le altre grandi megalopoli mondiali.

Come il resto delle altre tematiche dei vari artisti, si parte dal particolare, dal locale per arrivare all’universale; e anche se sono artisti molto diversi tra loro, sia per stile che per religione, come ha detto Sigit Santoso: “Siamo venuti per la prima volta in Italia, siamo tutti molto diversi, ma ciò che ci unisce è l’Arte”. Uniti nella Diversità (“Bhinneka Tunggal Ika”) come recita appunto l’emblema della bandiera nazionale indonesiana.

 


Profilo dell'autore

Stefano Romano
Stefano Romano
Nato a Roma nel 1974, si è laureato nel 2001 in Psicologia ed estetica alla Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma. Nel 2010 ha iniziato a fotografare le comunità migranti di Roma e dal 2013 tiene il corso di “Fotografia come mediazione culturale”. Ha insegnato fotografia alla Universiti Sains Malaysia, in Penang, nel 2018\2019.
Ha pubblicato: “Kampungku Indonesia”, “Sweet Light” (Mizan, 2010\2018), ristampato in inglese in Bangladesh (Agamee Prakshani, 2020), “Saying it from the heart #USM style” (Penerbit USM, 2019), “My Malaysian Tales” e “My Bangladesh Tales” (2020\ 21, Lulu.com). Scrive sul blog soccamacha.blogspot.com

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