Zaher non doveva morire. Il suo lungo viaggio verso l’Europa avrebbe dovuto concludersi sulla banchina del porto di Venezia. Zaher non avrebbe dovuto nascondersi sotto quel tir che lo ha schiacciato, per cercare di superare il controllo della polizia di frontiera italiana. Zaher avrebbe dovuto uscire a testa alta dalla stiva della nave dove si era imbarcato di nascosto a Patrasso. Ad accoglierlo, avrebbero dovuto esserci operatori sociali e sanitari e non poliziotti pronti a rimandarlo indietro, affidandolo agli stessi aguzzini da cui cercava di scappare. Era solo un bambino, Zaher. Dal suo paese nelle montagne d’Afghanistan aveva portato con sé solo il suo quaderno di poesie e tanta voglia di vivere.
L’11 dicembre del 2008, Zaher è stato ucciso da una frontiera che non doveva esistere e da pratiche di respingimento non soltanto inumane ma anche illegali, non soltanto tollerate ma anche incoraggiate dalle autorità ministeriali. Questo è quanto accusavano gli attivisti veneziani che si erano mobilitati in una rete costituitasi attorno al progetto Melting Pot. E questo è anche quanto ha stabilito recentemente la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Sei anni ci sono voluti – questi sono purtroppo i lunghi tempi della “giustizia” – ma alla fine il ricorso presentato dai legali come Fulvio Vassallo Paleologo, Alessandra Ballarini e Luca Mandro, è stato accolto. Con una sentenza datata 21 ottobre 2014, la Corte ha condannato la Grecia per violazione dell’articolo 13 (diritto a un ricorso effettivo) combinato con l’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e l’Italia per violazione dell’articolo 4, protocollo 4 (divieto di espulsioni collettive), nonché per violazione dell’articolo 3, “perché le autorità italiane hanno esposto i ricorrenti, rimandandoli in Grecia, ai rischi conseguenti alle falle della procedura di asilo in quel paese”. L’Italia è stata anche condannata per la violazione dell’articolo 13 per l’assenza di procedure d’asilo o di altre vie di ricorso nei porti dell’Adriatico.
Quanto denunciavano gli attivisti sulla sistematica e istituzionalizzata violazione dei diritti umani dei richiedenti asilo nei porti di Venezia, Ancona, Bari è ora sostenuto anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. “D’ora in poi questi respingimenti dovranno essere sospesi – spiega l’attivista Alessandra Sciurba che della rete veneziana è stata l’anima e la principale voce – perché, dopo anni di denunce inascoltate, adesso quanto abbiamo sempre condannato come violazioni dei diritti fondamentali ha avuto un riconoscimento ufficiale da cui nessuna autorità italiana potrà più prescindere”.
Una lunga battaglia per il diritto d’asilo, questa condotta da Alessandra e da tanti altri attivisti veneziani, che ha avuto i contorni dell’avventura. Un ricorso alla Corte europea infatti funziona solo se è la vittima a fare appello attraverso una procura firmate. Così, neppure un anno dopo la morte di Zaher, Alessadra guida una carovana della rete veneziana in Grecia in cerca di storie di migranti respinti dall’Italia disposti a sottoscrivere il ricorso.
“Siamo arrivati a Patrasso dopo 37 ore di viaggio in nave – racconterà -. Aiutati da Kinisi, un’associazione di attivisti del luogo, incontriamo subito migliaia di afghani relegati in un campo informale ai margini della città che sarà dato alle fiamme dalla polizia pochi mesi dopo. Ci sono anche dei sudanesi e degli eritrei che hanno scelto la strada dell’Est per sfuggire alle torture libiche e al cimitero del Mediterraneo. Ma muoversi a Patrasso è difficile, siamo seguiti a vista dalla polizia greca, fermati per ore con l’assurda accusa di traffico internazionale di stupefacenti solo perché parlavamo coi migranti”.
La carovana della rete veneziana, raccoglie centinaia di denunce e di segnalazioni ma solo 35 sono complete della documentazione necessaria per il ricorso alla Corte di Strasburgo. Quattro di questi ricorsi sono stati accolti dal tribunale europeo e hanno avuto come conseguenza la pesante condanna di Italia e Grecia di cui abbiamo riferito in apertura.
Da sottolineare che la Corte ne ha accolto 4 su 35 non perché gli altri 31 non fossero considerati validi ma perché queste 31 persone in questi cinque anni sono stati espulsi dalla Grecia illegalmente – possiamo ben scriverlo ora – e rimandati nei Paesi d’origine in cui o non sono sopravvissuti o comunque se ne sono perse le tracce. Questo nonostante la stessa Corte avesse intimato alla Grecia di sospendere qualsiasi procedura di espulsione in attesa del verdetto definitivo.
Amarezza per le ingiustizie subite da profughi innocenti, buona parte di loro era minorenne al momento del ricorso, e gioia per una battaglia vinta si mescolano nel racconto di Alessandra. “Adesso che la Corte ci ha dato ragione assumono un senso tutte le lotte fatte: i lunghi viaggi, le minacce subite, le manifestazioni ai porti, le cariche ingiustificate della polizia, i dossier, le denunce. Non hanno avuto senso, quelle no, le tantissime morti di tutti quei migranti che stavano esercitando un diritto e sono stati uccisi, come Zaher, dalla frontiera italiana dell’Adriatico. Questa piccola enorme vittoria è per tutti loro”.
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