di Stefano Fogliata
“Sono palestinese di Haifa, nata in Siria nel campo di Yarmouk due anni dopo la Nakba”.
Esordisce così Etaf Al Shora, presentandosi come figlia della “catastrofe” palestinese nel 1948 conseguente alla creazione di Israele. L’anziana donna è una dei circa 540.000 palestinesi che abitavano in Siria prima dello scoppio della guerra civile; il campo di Yarmouk, 8 km a sud di Damasco, ne ospitava circa 200.000 ed era considerato il centro politico e culturale nel paese dei rifugiati nel paese.
“Nonostante le difficoltà iniziali dopo la fuga nel 1948 – prosegue Etaf- siamo riusciti a costruirci una nuova vita in esilio. Per più di 60 anni abbiamo continuamente costruito abitazioni sopra le precedenti per poter ospitare le nuove generazioni. Tutti i mie sette figli si sono sposati nel campo e hanno cresciuto le proprie famiglie a Yarmouk. Fino allo scoppio della guerra posso dire che, grazie a Dio, eravamo felici nel campo.”
Come sottoline Etaf, in Siria i palestinesi godevano di ampi diritti, equiparabili a quelli della popolazione autoctona; prima dello scoppio della guerra, la popolazione palestinese era parte integrante del tessuto sociale e culturale dello Stato siriano. “Siamo e ci sentiamo palestinesi-siriani: tutti i miei 4 figli maschi hanno svolto il servizio militare prima della guerra.”
Quanto per i cittadini siriani, anche per i palestinesi lo scoppio del conflitto ha segnato uno spartiacque decisivo nelle loro vite.
Secondo le stime dell’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dell’assistenza dei rifugiati palestinesi nel Medio Oriente, più del 50% dei siro-palestinesi sono stati costretti a lasciare le proprie abitazioni e a cercare rifugio altrove. Drammatica è la situazione nel campo di Yarmouk, dove si stima che, a dispetto dei circa 180.000 palestinesi presenti nel 2010, ad oggi vivano meno di 20.000 persone, per lo più anziani. Nel 2012, sono iniziati i primi scontri dopo l’ingresso all’interno del campo di diverse forze anti-governative ; dal luglio 2013 le forze governative hanno imposto un blocco totale attorno a Yarmouk, divenuto un crocevia importante del conflitto. Salvo rari casi, l’accesso all’interno è stato vietato anche alle organizzazioni incaricate di fornire aiuti umanitari: per questa ragione, la situazione dentro al campo è al di là di ogni limite tollerabile. L’UNRWA e altre organizzazioni per i diritti umani parlano di centinaia di casi di morte per inedia nell’ultimo anno.
Chi è fuggito prima del blocco ha visto distruzioni diffuse e ha perso nel campo famigliari e amici. Il caso di Etaf non fa eccezione: “ Era il dicembre 2012. durante i combattimenti un colpo di mortaio ha colpito la casa di mia figlia. In un giorno ho perso una figlia, tre nipoti e altri parenti; tredici persone erano in casa al momento del crollo: solo una mia nipote si è salvata e oggi vive col padre a Damasco. Ero come paralizzata, non sapevo che fare.
Tre giorni dopo, sono scappata in Libano con mio marito, tre figli e un nipote. Solo grazie all’aiuto di alcuni conoscenti che avevano già lasciato Yarmouk, ho trovato un’abitazione nel campo di Beddawi, vicino a Tripoli. Ho lasciato tutto in Siria, siamo arrivati solo con i nostri vestiti. Per i primi giorni abbiamo dormito in casa sopra dei cartoni. Grazie a Dio- dice con occhi pieni di gratitudine- i vicini ci hanno aiutato nel sistemare la casa regalandoci mobili e materassi.”
Quanto vissuto dalla famiglia di Etaf e da altre centinaia di migliaia di persone viene dagli stessi palestinesi-siriani definita come una seconda Nakba. Ma, come tiene a precisare suo marito Ahmad: “La fuga di oggi è ancora più problematica rispetto a quella dei nostri genitori dalla Palestina nel 1948: allora ce ne siamo andati in gruppo, ora qui siamo lasciati soli.”
Un sentimento di rabbia e frustrazione rivolto verso le istituzioni internazionali, condiviso soprattutto dai circa 50.000 palestinesi siriani che, come Ahmad e la sua famiglia, hanno trovato rifugio nei campi in Libano. A differenza dei rifugiati siriani ( circa un milione e mezzo secondo le ultime stime) giunti in Libano, i palestinesi-siriani non godono dell’assistenza e della protezione offerta dall’UNHCR in quanto già assisiti dall’UNRWA, un altro ente delle Nazioni Unite. Mentre l’Alto Commissariato ONU si occupa di protezione ( anche legale ) dei rifugiati sotto la propria tutela, il mandato dell’agenzia dedicata ai palestinesi la esime da qualsiasi compito rappresentativo dei rifugiati stessi; ancora dopo 66 anni di esilio, i circa 5 milioni di rifugiati palestinesi sparsi oggi per il Medio Oriente non hanno diritto ad alcuna rappresentatività a livello internazionale, con gravi ricadute sulle condizioni di vita nei vari paesi. Inoltre, gli stessi servizi di base garantiti ai palestinesi, in primis assistenza medica e educazione scolastica, sono annualmente messi in dubbio dalla cronica mancanza di fondi UNRWA, finanziata da contributi volontari di Stati e privati.
Come se ciò non bastasse, i 50.000 nuovi giunti in Libano condividono inoltre la sorte degli oltre 300.000 palestinesi già presenti nel paese: non riconosciuti come cittadini ed esclusi dalla maggior parte dei servizi offerti ai cittadini libanesi, si vedono negato l’accesso a servizi di base quali ospedali e scuole. A causa degli stessi regolamenti dello Stato libanese, inoltre, ai palestinesi è vietata la possibilità di esercitare più di 70 tra professioni e occupazioni: nei campi il tasso di disoccupazione è altissimo ed è alla base di vulnerabilità diffuse tra le famiglie. Già vessati da povertà e disoccupazione, i dodici campi palestinesi nel paese sono stati negli ultimi anni ulteriormente gravati dall’arrivo di 50.000 palestinesi e di diverse decine di miglia di siriani, riparatisi nei campi per il costo inferiore della vita rispetto alle abitazioni tradizionali. Solo a Beddawi la popolazione è raddoppiata in 3 anni, dai 25.000 nel 2011 ai circa 50.000 di oggi: privi di infrastrutture solide e di un’organica organizzazione degli spazi, il sovraffollamento nel campo è ai limiti del vivibile.
All’interno di questa misera situazione, i siro-palestinesi detengono il non invidiabile ruolo di “vittime tra le vittime”: nelle poche occupazioni informali disponibili, i palestinesi dalla Siria sono equiparati ai cittadini siriani: ciò significa che viene loro retribuito dal datore di lavoro un compenso dimezzato rispetto a quanto pattuito con i palestinesi già presenti in Libano. I nuovi arrivati condividono quindi gli aspetti peggiori di entrambe le popolazioni con cui sono identificati: in quanto “siriani” subiscono discriminazioni sul mercato del lavoro, in quanto “palestinesi” non hanno alcun diritto basilare e nemmeno alcuna protezione da parte di organismi internazionali.
“L’unica soluzione- come ci dice Ahmad – è andarsene da questa zona. Gli animali in Europa vivono meglio che noi Palestinesi qui in Libano”.
Ed è proprio la via per l’Europa quella battuta da diverse migliaia di Palestinesi in fuga dalla Siria: i pochi fortunati ottengono asilo politico in Francia, Svezia o Germania. Tutti gli altri non si arrendono di fronte ai muri della “Fortezza Europa” e ricorrono a sentieri “illegali”, inviando un figlio oltre confine con la speranza di poter riunire la famiglia in un futuro (si spera non troppo ) lontano.
“Abbiamo raccolto 8.000$ tra riserve e prestiti- ci dice Ahmad- per fare arrivare nostra figlia in Svezia”. Ad oggi si trova solo all’inizio del viaggio, in Sudan. Da lì l’aspetta l’attraversata del Sahara per approdare in Libia. “ Quando il mare sarà calmo- ci dice orgoglioso il padre- cercherà di attraversare il mare per arrivare in Italia”. Affiora subito la consapevolezza di Ahmad dei rischi del viaggio e dei limiti imposti dal nostro paese: “ La meta del viaggio è la Svezia, non l’Italia; per questo, temiamo l’identificazione delle impronte digitali da parte della polizia del vostro paese” mi dice. Ma, ancora prima dell’approdo in Italia, il vero incubo è la traversata del Mediterraneo: “ Non saremo davvero scappati da una guerra per morire in mare? Diversi amici hanno già fatto quella fine. Visto quante disgrazie sono successe al popolo palestinese, pensavo che gli stati europei ci aprissero le braccia e ci accogliessero. Perché non aprite un corridoio per aiutarci e per salvare tutte queste vite umane”.
“Questa ultima guerra- conclude sommesso – ci ha tolto non solo la vita, ma pure la speranza. Se prima il nostro sogno era tornare in Palestina, ora la nostra Palestina si chiama Europa.”
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