L’autorità palestinese fra repressione e collaborazione

 di Germano Monti

Un attivista palestinese arrestato per aver postato alcuni commenti sulla sua pagina Facebook, un altro per aver promosso scioperi, manifestazioni a Ramallah e Nablus represse a suon di lacrimogeni e botte da orbi… sembrerebbe la cronaca dell’ordinaria quotidianità della violenza degli occupanti israeliani, invece sono gli ultimi episodi della repressione messa in atto dalle forze di polizia dell’Autorità Palestinese nei confronti di propri connazionali, episodi raccontati e documentati da Samantha Comizzoli, battagliera volontaria italiana nella West Bank.

Abdullah Abdul Halin
Abdullah Abdul Halin

Abdullah Abdul Halin è stato arrestato martedì 4 novembre a Nablus dalla polizia palestinese, con l’accusa di aver pubblicato su Facebook frasi critiche nei confronti di Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità Palestinese, nonché di essere un militante del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, storica organizzazione di sinistra e componente dell’OLP. Tradotto in un tribunale palestinese, il giudice ne dispone l’immediata scarcerazione, ma la polizia palestinese se ne infischia e Halin rimane sequestrato nel famigerato carcere di Juneid, a Nablus, tristemente conosciuto per le violenze e le torture praticate ai danni dei prigionieri.

Bassam Zoidberg è il presidente del Sindacato dei Dipendenti Pubblici palestinesi. Insieme al suo vice, è stato arrestato a Ramallah la sera di giovedì 6 novembre. Secondo fonti locali, in assenza di qualunque comunicazione ufficiale, i due sindacalisti sono stati arrestati per ordine diretto del presidente Mahmoud Abbas, per essere interrogati sull’organizzazione di sit-in e su appelli allo sciopero ai lavoratori dei ministeri e delle istituzioni governative.

Infine, nel pomeriggio di venerdì 7 novembre, è sempre Samantha Comizzoli ad informare che “da testimonianza diretta dalla piazza di Nablus: ferito un palestinese da una sound bomb, era per terra sanguinante, la polizia palestinese ha infierito picchiandolo, un reporter vicino ha ripreso tutto, ma la polizia gli ha preso la videocamera”. A Nablus si manifestava in solidarietà con i Palestinesi di Gerusalemme, cui le truppe di occupazione israeliane avevano impedito di recarsi a pregare alla Moschea di Al Aqsa, attaccata alcuni giorni prima da estremisti ebrei.

Da questi episodi, appare chiaro come si stia verificando un’intensificazione dell’attività repressiva delle forze di polizia dell’AP, di cui vale la pena di ricostruire brevemente la storia.

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Nel 1993, gli accordi di Oslo fra Palestinesi ed Israeliani, mediati dal presidente Clinton, sembravano destinati a condurre entro breve tempo (si parlava di cinque anni) alla nascita dello Stato di Palestina sui territori occupati da Israele con la guerra del 1967, anche se alcune questioni rilevanti – come la questione di Gerusalemme – erano rimaste nel vago. In questo contesto, gli Stati Uniti prendono in carico la strutturazione degli apparati di sicurezza della neonata Autorità Palestinese, iniziando ad addestrare gli uomini di Arafat, anche con l’ausilio di personale della CIA. Il 4 maggio 1994 viene siglato il Gaza-Jericho Agreement fra l’OLP ed il governo israeliano, che sancisce il passaggio all’amministrazione palestinese della Striscia e dell’area di Gerico. Il giorno dopo, gli U.S.A. annunciano lo stanziamento di cinque milioni di dollari per la polizia palestinese e fanno appello alle altre nazioni affinché finanzino a loro volta il nuovo apparato di sicurezza palestinese.

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Negli anni successivi e fino al 2000 – nonostante l’assassinio del premier israeliano Rabin e l’ascesa al potere in Israele della destra di Sharon e Netanyahu abbiano stroncato il percorso delineato ad Oslo – i servizi di sicurezza dell’OLP collaborano attivamente con l’intelligence israeliana e la CIA nella “lotta al terrorismo”, in particolare contro le attività del nuovo protagonista che ha da poco fatto irruzione sulla scena mediorientale, il movimento di resistenza islamica conosciuto con l’acronimo Hamas. In quegli anni, l’uomo forte dell’Autorità Palestinese a Gaza, Mohamed Dahlan, a capo della “Sicurezza preventiva”, poteva vantarsi di strappare personalmente la barba ai militanti islamisti arrestati.

Lo scoppio della Seconda Intifada, nel 2000, porta nei fatti alla cessazione della cooperazione fra la polizia palestinese e gli Israeliani, che riprende vigore nel 2004, a seguito della cosiddetta Roadmap elaborata dal presidente Bush, che prevede la nascita, attraverso tappe successive, di uno Stato palestinese, anche questa volta entro cinque anni. Lo Stato palestinese non nascerà, ma la cooperazione fra apparati repressivi palestinesi ed israeliani non verrà meno.

Viene creato, su impulso di Condoleeza Rice, l’United States Security Coordinator (USSC) team, con il compito di assistere e supervisionare le forze di sicurezza palestinesi nella cooperazione con quelle degli occupanti israeliani. Il primo “supervisore” della cooperazione per la sicurezza fra Autorità Palestinese e truppe di occupazione israeliane è il generale Kip Ward, cui succede, nel gennaio 2006, il generale Keith Dayton, che lascia l’incarico al generale Michael Moeller nell’ottobre 2010. Dall’ottobre 2012 a tutt’oggi, l’incarico di U.S. Security Coordinator è ricoperto dal Vice Ammiraglio dell’U.S. Navy Paul J. Bushong, ex comandante della flotta del Pacifico.

Fra il 2007 ed il 2010, il Dipartimento di Stato U.S.A. ha stanziato per l’USSC 392 milioni di dollari, richiedendone altri 150 nel 2011. Di questi fondi, oltre 160 milioni di dollari hanno finanziato l’addestramento della polizia palestinese, 89 milioni la Guardia Presidenziale di Abu Mazen e 99 milioni sono stati investiti nella costruzione di infrastrutture. I fondi richiesti nel 2011 erano così suddivisi: 56 milioni per l’addestramento, 33 milioni per l’equipaggiamento, 53 milioni per le infrastrutture e 3 milioni per la progettazione di nuovi edifici.

Le aspiranti reclute della polizia palestinese, prima di essere ammesse al programma di addestramento, devono essere approvate dallo Shin Bet (il servizio segreto israeliano), dalla polizia israeliana e da quella giordana, prima ancora che dall’Autorità Palestinese. Le reclute ammesse vengono poi addestrate nel Jordan International Police Training Center (JIPTC), nei pressi di Amman, costruito dagli U.S.A. nel 2003 come centro di addestramento per la polizia iraqena. Secondo il generale Dayton, la ragione di questa scelta risponde all’esigenza di addestrare i Palestinesi nella regione, ma “lontano dai loro clan, dalle loro famiglie e dalle influenze politiche. Gli Israeliani si fidano dei Giordani ed i Giordani sono ansiosi di essere di aiuto”. In realtà, gli aspiranti poliziotti palestinesi vengono letteralmente fanatizzati, anche se questo non evita loro di rendersi conto di quanto siano invisi alla popolazione palestinese, al punto che, quando non sono in servizio, evitano accuratamente di farsi vedere in uniforme, cambiandosi in caserma ed indossando abiti civili per tornare nelle loro case.

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***

Il 29 novembre 2008, a Firenze, nel corso del convegno “Terra Santa, terra ferita”, il corrispondente della RAI da Gerusalemme, Filippo Landi, scriveva nella sua relazione: “ (…) avete sentito o letto qualcosa dell’Imam Majd Barghouti, parente del noto leader Marwan che è in carcere? Egli viveva in un piccolo villaggio di tremila abitanti, alla periferia di Ramallah. Una sera è stato preso da uomini incappucciati e portato ad un posto di polizia palestinese, poi, dopo qualche giorno hanno telefonato alla moglie perché andasse all’ospedale dove avrebbe trovato suo marito. In effetti era lì, ma dopo poco è morto, a causa delle percosse subite durante l’interrogatorio della polizia palestinese. L’Imam Barghouti era un Imam molto stimato, ma aveva il torto di appartenere ad Hamas, e per questo l’hanno interrogato pesantemente, lui come tante altre persone, perché volevano sapere da lui dove nascondeva le armi, o meglio, dove i militanti di Hamas le nascondono. Dopo un interrogatorio pesante gli è venuto un infarto ed è morto, e così l’hanno riconsegnato alla famiglia. Marwan Barghouti, dal carcere, si è molto arrabbiato e ha fatto sapere ad Abu Mazen che o metteva in piedi una commissione di indagine oppure dal carcere avrebbe pubblicamente denunciato come un crimine questa vicenda. La commissione d’indagine si è riunita e, dopo qualche tempo, ha detto che l’Imam era morto per un attacco cardiaco. Era una commissione indipendente. Ho visto le fotografie dell’Imam da morto. Certo i lividi non deponevano per un infarto spontaneo… In realtà la commissione è stata il frutto di un compromesso. Nessuno ha detto che è stato un crimine della polizia palestinese, ma il capo dei servizi segreti palestinesi, non più tardi di un mese fa, si è dimesso.

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Ho proposta che questa vicenda venisse ripresa in un mio servizio, ma la risposta è stata: “Mi dispiace, non c’è spazio per mandarla in onda…”. Eppure mi sembrava interessante perché mette in ballo tante cose rispetto ai diritti dell’uomo, anche verso coloro che sono di Hamas. Questa impossibilità si ripete tante volte”.

Gli episodi di violazione dei diritti umani denunciati da Samantha Comizzoli, dunque, non possono definirsi casi isolati, poiché rientrano a pieno titolo nel contesto delle scelte politiche operate dall’Autorità Palestinese, in quella che appare come un’assoluta anomalia nella storia dei movimenti di liberazione. Se una collaborazione può essere considerata ragionevole nel quadro di un accordo che porti rapidamente alla soluzione del conflitto (come prevedevano sia gli accordi di Oslo che la Roadmap), questa si manifesta come assolutamente incongrua nel momento in cui la soluzione viene negata, come sta avvenendo ormai da più di due decenni in Palestina, dove i governi israeliani hanno pervicacemente sabotato ogni accordo e proceduto speditamente nella colonizzazione, facendosi beffe delle – timidissime e soltanto formali – condanne della comunità internazionale.

L’Autorità Palestinese non sembra avere né la capacità, né la volontà di abbandonare una strada che si è rivelata un vicolo cieco, dove all’arricchimento di una nomenklatura di burocrati fa da riscontro la disperazione di milioni di Palestinesi, condannati nella Striscia di Gaza a subire un assedio che non ha eguali nella storia recente e, nella West Bank, ad essere confinati in bantustan sempre più soffocati dagli insediamenti coloniali. Una situazione intollerabile, nella quale l’esplosione di una nuova Intifada – contro gli occupanti, ma anche contro i collaborazionisti – appare sempre più inevitabile ed imminente, tanto da far affermare alla nuova rappresentante della politica estera dell’Unione Europea, l’italiana Francesca Mogherini, che la sola possibilità di spezzare la spirale della violenza consiste nella nascita di uno stato palestinese. Naturalmente, entro cinque anni.

 


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