di Joshua Evangelista
Pur riconoscendo la portata storica della questione armena del 1915, la comunità storiografica turca, appoggiata dal governo di Ankara, ritiene che non si trattò di genocidio, confutando la tesi occidentali in base a valori semiotici, numerici e legati alle fonti storiche prese in considerazione per lo studio della questione. Va detto che a monte della posizione turca c’è l’intento di separare i rapporti diplomatici tra gli Stati dall’analisi storiografica: l’ormai celebre frase Lasciamo la storia agli storici accompagna tutti i discorsi pubblici del premier Erdogan sull’argomento. Il tanto chiacchierato discorso del “sultano” a due giorni dalle parole del papa, quindi, ricalcano semplicemente una linea di pensiero e di comunicazione rigida e assimilata da lungo tempo.
Entrando nel merito, il governo turco riconosce che durante la Prima Guerra Mondiale persero la vita molti armeni, ma al contempo afferma che, in quella che può essere considerata alla stregua di una guerra civile, morirono anche molti turchi. Stando alla posizione di Ankara, si trattò di un duplice massacro etnico, facilmente contestualizzabile nello spirito che animò la Prima guerra mondiale.
CONTESTAZIONE SEMIOTICA. La confutazione ha in primis una natura semiotica. Si contesta l’uso del termine “genocidio” dal momento che questo è stato coniato solo nel 1943 da Raphael Lemkin. La Turchia è stata firmataria della Convenzione sul genocidio del 1950, due anni dopo che essa è stata votata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite. Secondo la convenzione, affinché si determini un genocidio deve esserci “l’intenzione di distruggere, in parte o del tutto, un determinato gruppo”. È quindi necessario dimostrare l’intenzionalità del gesto, l’actus reus deve essere affiancato dalla mens rea, l’intento. Secondo la posizione turca l’intento non può essere dimostrato. Allo stesso modo viene confutata la parola “deportazione”, in quanto secondo la posizione turca si trattò di espulsione di stranieri, una pratica da sempre attuata che si avvicinerebbe molto più al concetto di “esilio forzato”.Del resto lo stesso concetto di negazionismo viene visto come la presunzione di una delle due parti in causa (quella cristiana di armeni e greci) di detenere la verità a discapito dell’altra (quella musulmana di turchi, curdi e azeri).
UN NEMICO INTERNO. L’argomentazione più usata dagli intellettuali turchi per giustificare le deportazioni è la necessità di salvarsi da un nemico interno, che si era alleato con la Russia. A perdere la vita sarebbero state circa 600 mila persone, principalmente per massacri isolati, malattie e malnutrizione: “L’Impero ottomano non commise alcun genocidio nei confronti degli Armeni né prima né durante la I Guerra mondiale”, scrisse in un documento ufficiale del 1982 l’Associazione dei Turchi statunitensi. Una scuola di pensiero consolidata, difficile da contestare in un Paese la cui libertà d’espressione è vittima dell’ambiguità del concetto di “insultare la Turchia”, per il quale si va in prigione. Una voce fuori dal coro è quella di Volkan Vural, ex ambasciatore in Germania e in Spagna, secondo il quale il suo paese dovrebbe porre delle scuse ufficiali all’Armenia per quanto successo durante le deportazioni del ’15, così come alla Grecia per il pogrom di Istanbul. Secondo Vural la questione può essere risolta anche dai politici, rivoltando la tesi portata avanti sin dai tempi della prima candidatura europea. “I fatti storici sono conosciuti – spiega Vural – la cosa importante è come essi vengano interpretati e come questo condizioni il futuro”.
COMPROVATA TOLLERANZA. Tra le tesi più ambiziose dei negazionisti c’è quella che verte sulla “comprovata tolleranza del popolo turco” , che renderebbe impossibile un genocidio. Una tesi molto nota anche tra la popolazione, che agli stranieri è solita raccontare che nell’undicesimo secolo fu la dinastia turco-persiana dei Seljuq a salvare gli armeni dalla persecuzione bizantina. Nel 2005 si ebbe l’impressione che il Governo di Ankara avesse avviato una politica distensiva e di revisione, con iniziative quali una mostra, ad Istanbul, di 600 cartoline d’epoca o, sempre ad Istanbul, l’inaugurazione di un museo armeno per mano del primo ministro Erdogan. Seppur con diffidenza, il processo di apertura prese piede. In diverse occasioni varie emittenti televisive del paese hanno inserito nella loro programmazione dibattiti pubblici molto seguiti sulla questione armena.
“EVENTI”. E nel 2007, muovendosi nella stessa direzione, il primo ministro Erdogan invitò la popolazione ad usare la locuzione Eventi del 1915 al posto di Cosiddetto genocidio armeno, un’iniziativa che si inseriva in un progetto ben più ampio che prevedeva una commissione internazionale che avrebbe consultato tutti i documenti a disposizione negli archivi turchi, armeni e degli altri paesi. Il presidente armeno Robert Kocharian, tuttavia, rifiutò la proposta affermando che “è responsabilità dei governi sviluppare relazioni bilaterali e non abbiamo il diritto di delegare tale responsabilità agli storici. Ecco perché noi proponiamo nuovamente come pre-condizione che si stabiliscano regolari relazioni tra i due Paesi”. Nello stesso periodo l’allora Ministro degli esteri turco Abdullah Gül invitò gli Stati Uniti e gli altri paesi a delegare propri studiosi per arricchire l’elenco della commissione d’inchiesta. Il riconoscimento, da parte degli altri paesi, del concetto di genocidio fu un ostacolo invalicabile che impedì ogni risoluzione congiunta.
LA QUESTIONE CONFINI. Un’altra questione, oltre a quella del riconoscimento del Genocidio del ’15, mina i rapporti diplomatici tra Turchia e Armenia. Durante il Medioevo, il monte Ararat costituiva il fulcro dell’Armenia. Con l’Impero Ottomano il monte è passato sotto dominio turco, seppur Yerevan sia situata proprio ai suoi piedi. Nel clima irredentista post-sovietico la Turchia temette che la Federazione rivoluzionaria armena potesse contestare il Trattato di Sèvres e chiedere la revisione dei confini, dal momento che esso non era mai stato ratificato dai turchi. L’Armenia rispose dicendo che avrebbe rispettato il Trattato di Kars, stipulato nel ’20 tra la Turchia e l’Unione Sovietica, che di fatto rispecchiava la situazione effettiva dei confini tra i due Paesi. Tuttavia le dispute continue tra i due paesi portarono all’annuncio, nel 2009, di una road map provvisoria che creò diversi screzi tra la stampa turca e le autorità di confine armene (che non autorizzarono le riprese della costruzione del muro).
Nel cammino tortuoso delle trattative, il 31 agosto 2009 Ankara e Erevan si impegnarono a definire quattro punti spigolosi: la normalizzazione delle relazioni, con l’apertura delle sedi diplomatiche nelle rispettive capitali; la creazione di commissioni che avrebbero dovuto analizzare eventuali controversie; la ridiscussione dell’accordo di Kars sui confini tra Armenia e Turchia; l’apertura delle frontiere e l’avvio di scambi commerciali. Il 9 ottobre 2009, a Zurigo, i due Paesi firmarono l’accordo di normalizzazione, che tuttavia ebbe valore solo per qualche ora a causa del discorso preparato dal ministro degli Esteri turco, dichiarato inaccettabile dagli Armeni. Così fu deciso di sospendere il protocollo, dopo trattative che erano durate più di un anno. Il presidente Sargysian spiegò, lo stesso giorno, che l’annullamento del protocollo non doveva essere considerato come la sospensione del processo di avvicinamento tra i due Paesi, che sarebbe proseguito.
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