di Alessandro Pagano Dritto (@paganodritto)
Dal punto di vista politico è difficile pensare, come si riteneva possibile prima, che il mese appena conclusosi di marzo possa rimanere nella storia recente della Libia. L’osservatore che ne analizza i fatti col senno di poi, ben lungi dal poter dire che non sia successo nulla, stenta francamente a vedere nei suoi trentun giorni azioni di grande rilievo. Doveva essere il mese delle grandi decisioni e invece il 31 è passato senza che nulla di grande venisse deciso: soprattutto doveva essere il mese del governo unitario uscito dai vertici del Dialogo Nazionale patrocinato dalle Nazioni Unite, ma così, nonostante qualche importante passo in più in quella direzione, non è stato.
Attendendo l’Europa, l’Italia annuncia la missione navale Mare Sicuro.
Eppure i primi giorni registravano una certa tensione. Tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo l’Italia imbastiva l’esercitazione militare
Mare Aperto, che portava vere e proprie unità antiterrorismo dell’esercito ai limiti delle acque internazionali: secondo un bel resoconto firmato da Ilario Lombardo della Stampa, la linea rossa italiana sarebbe rappresentata dalla piattaforma marittima situata a 80 km dalle spiagge di Sebratha, collegata alle strutture di Mellitah vitali per le congiunture energetiche che legano l’Italia alla Libia.
Mare Aperto è ufficialmente nulla più che un’esercitazione militare, ma il suo valore in concomitanza con la crisi libica non è poi né tanto nascosto né tanto nascondibile. Intervistati entrambi dal Corriere della Sera, il nuovo Capo di Stato Maggiore Generale Danilo Errico e l’inviato delle Nazioni Unite in Libia Bernardino Leon non hanno espresso a riguardo posizioni inconciliabili. Il primo ha detto al giornalista Paolo Rastelli, per la verità abbastanza ovviamente, che «se il governo dovesse dare il via, noi siamo pronti» per un intervento in Libia, ma anche che «il tipo di intervento determinerà impiego, armamento, addestramento e composizione delle forze. Non si può dire al buio di cosa ci sarà bisogno. Dipende dalle scelte del governo e dal contesto internazionale in cui un’eventuale azione sarà inquadrata. Io posso solo assicurare che cercheremo di fare ciò che ci sarà chiesto». Il secondo invece ha fatto presente a Giuseppe Sarcina che «nel breve periodo sarebbe importante sorvegliare la costa libica, ma nel medio e lungo termine bisogna costruire un sistema più completo». Nonostante «in questo momento [sorvegliare la costa] è l’unica cosa che si possa fare concretamente», non si può demandare però il compito alla sola Italia, che invece «avrebbe bisogno del sostegno dell’Unione Europea». Sostegno cercato dal Primo Ministro italiano Matteo Renzi persino a Mosca, dove si reca ai primi del mese anche per discutere di Libia con il pari ruolo russo Vladimir Putin, notoriamente vicino al governo di Tobruk.
Alla riunione congiunta delle Commissioni Esteri e Difesa della Camera e del Senato, il 19 marzo 2015, la Ministra della Difesa Roberta Pinotti ha parlato delle missioni italiane all’estero. Secondo il comunicato pubblicato nel sito del Ministero, la Ministra avrebbe detto che «a seguito dell’aggravarsi della minaccia terroristica si è reso necessario un potenziamento del dispositivo aeronavale nel Mediterraneo centrale» al fine di «tutelare i molteplici interessi nazionali, oggi esposti a crescenti rischi determinati dalla presenza di entità estremiste, e assicurare coerenti livelli di sicurezza marittima». Datava appena al giorno prima l’attacco armato al museo tunisino del Bardo.
Sotto le nuove pressioni antiterroristiche, allora, l’esercitazione Mare Aperto potrebbe prossimamente trasformarsi in una vera e propria operazione militare, la Mare Sicuro, della quale ancora una volta dà dettagli il già citato quotidiano torinese. Scrive la giornalista Grazia Longo:
«I numeri, argomento sempre delicato nelle stanze degli Stati maggiori, sono ancora in via di definizione. Esistono comunque già dei punti certi. Tanto per intenderci: ai 700 uomini già impegnati nel Mediterraneo se ne aggiungeranno altri 1000, altre 4 navi, poi, affiancheranno l’attività delle 4 attualmente utilizzate. E ancora: sul territorio nazionale sono pronti tra i 5 e 7 dispositivi aerei in grado di intercettare velivoli nemici. Con molta probabilità il rafforzamento navale comprenderà una nave da sbarco della classe San Marco o San Giusto, una o più fregate e cacciatorpedinieri».
Ma la certezza si avrà in aprile, quando il piano dell’operazione verrà ufficialmente presentato al Consiglio Superiore della Difesa e poi al parlamento.
Per l’Unione Europea si dovrà attendere invece un’esplicita proposta dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini, che potrebbe essere formalizzata in aprile: per ora solamente delle voci informali come l’invio di un contingente, non si sa se civile o militare, in Libia e anche di navi, ma l’impressione è che l’accoglienza per una vera opzione militare potrebbe in realtà essere molto tiepida da parte degli stati membri. In ogni caso rimarrà fondamentale capire come evolverà la situazione in ambito Dialogo Nazionale.
Dialogo Nazionale: pubblicata una bozza di governo unitario nonostante la minaccia degli scontri.
E proprio il Dialogo Nazionale e le Nazioni Unite sono state forse le maggiori protagoniste di questo mese di marzo, dove il Dialogo ha visto
da un lato il successo di alcuni suoi rami paralleli come la sessione algerina del 10-11 marzo e quella delle municipalità a Bruxelles il 23-24 del mese, dall’altro la pubblicazione di una bozza strutturale di governo unitario che propone la creazione di un esecutivo tecnico – i cui vertici cioè non siano particolarmente vicini a nessuno dei due attuali schieramenti – e di un legislativo che porterà il nome dell’attuale parlamento riconosciuto: la House of Rapresentatives (Casa dei Rappresentanti, HOR) di Tobruk frutto delle elezioni del giugno 2014. È, per la verità, questa pubblicata dalla United Nations Support Mission In Libya (Missione di Supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL), una bozza che lascia spazio ad almeno due dubbi:la futura presenza di Tripoli nelle strutture unitarie e il futuro ruolo della figura altamente divisa di Khalifa Hafter, dal 2 marzo nominato dalla HOR a capo delle forze armate orientali. Ma almeno comincia a far intravvedere una qualche decisione pratica necessaria per poter vedere anche una risoluzione, almeno nominale, del conflitto o di una sua parte. Secondo questa proposta il governo unitario dovrebbe comporsi di sei corpi, compresi quello legislativo e quello esecutivo.
Bisogna per altro ricordare il monito predetto da Leon, prudente come sempre, già a inizio mese dopo il primo incontro del Dialogo, tenutosi come gli altri in terra marocchina: «nothing is agreed on until everything is agreed on», «nulla è concordato fino a che tutto non è concordato». Motivo per cui ogni cosa decisa temporaneamente può sempre essere rivista fino all’ultimo istante.
Ma il successo maggiore del Dialogo Nazionale in questo mese di marzo è stato forse quello di continuare ad esistere nonostante un momento di crisi militare avutosi a partire dal 20 del mese, quando, proprio in occasione di una sessione, un nuovo vigore dei combattimenti tra forze di Tripoli e Misurata e forze di Tobruk e Zintan ha fatto pensare a un pronto attacco della Capitale che poi non si è però verificato. Il timore è stato espresso persino da Bernardino Leon, il quale in una pubblica dichiarazione ammoniva che se, come sembrava, i combattimenti in corso fossero da intendersi come un preludio a qualcosa di più grande, questo avrebbe potuto seriamente minare la stessa continuazione dei colloqui di pace. Gli scontri si manifestavano soprattutto nella cittadina di al Aziziyah, una trentina di chilometri a sud di Tripoli, dove, al momento di scrivere, il conflitto non sembra ancora aver trovato una definitiva soluzione.
Il 22 marzo, ancora in conferenza stampa, Leon dichiarava: «Questo processo non ha mai pensato di rappresentare il 100% delle persone che in entrambi i campi lo sostenessero. Ha sempre inteso isolare una minoranza di questi due campi, quella delle persone che sono contro il dialogo, contro una soluzione politica, per portare insieme la maggioranza dei due campi e iniziare un lavoro su quegli spoilers che sono favorevoli a una soluzione militare».
Sul campo di battaglia: lo Stato Islamico a Sirte e il riposizionamento militare di Misurata.
(Il fronte di battaglia tra Stato Islamico e forze misuratine: Sirte)
Nel mese di marzo i contrasti militari all’interno degli scenari libici sono diventati tutti più roventi. Non solo infatti si è assistito al già accennato intensificarsi dei contrasti nei dintorni della Capitale tra coalizione pro Tripoli e coalizione pro Tobruk – bisogna sempre considerare che, da parte di Tobruk, le forze militari effettivamente in campo nel tripolino sono quelle della città berbera di Zintan, nei monti Nafousa – ma anche a Sirte la situazione tra milizie misuratine e milizie dello Stato Islamico ha subito una decisa evoluzione.
Ne rende bene conto un altro scritto della giornalista italiana Nancy Porsia, che già per i resoconti di gennaio e febbraio era stata una fonte preziosa: questa volta si tratta di un articolo per il sito The Media Line, significativamente intitolato, in traduzione italiana, «La morte dei giovani combattenti congela la risoluzione libica contro l’ISIS».
Dalle testimonianze raccolte dai diversi interlocutori – si va dal guerrigliero al giornalista – si viene a sapere che in realtà la presenza dello Stato Islamico a Sirte risale già ai primi mesi del 2014, cioè a tempi precedenti la notorietà internazionale della formazione di origine siro-irachena – quando la morte in combattimento del leader locale di Ansar al Sharia, Attir Ahmed, aveva indebolito la formazione e permesso ad altri militanti di farsi progressivamente spazio all’interno della città. A metà febbraio la formazione dello Stato Islamico si era così resa nota e da allora Misurata aveva cercato di trattarne l’allontanamento ricorrendo il meno possibile alla violenza: secondo una voce presentata al lettore nell’articolo, questa scelta era stata dovuta alla memoria del sanguinoso assedio subito da Misurata nel 2011 ad opera dei lealisti gheddafiani, assedio che aveva imposto alla città uno dei più pesanti tributi di sangue pagati durante i mesi di guerra.
Ma la tattica ha subito un cambiamento quando alcuni miliziani sono stati vittime di un agguato dello Stato Islamico al checkpoint di Noufliya. L’articolo di Nancy Porsia si apre infatti proprio con l’immagine di dieci bare allineate di fronte alla moschea centrale di Misurata, due delle quali avvolte nella bandiera libica: le bare dei miliziani misuratini uccisi il 18 marzo.
Già il 14 marzo la Reuters riportava di uno scontro a fuoco, del quale scrive la giornalista: «Nel primo scambio a fuoco tra le forze rivali 19 uomini sono stati uccisi, 17 combattenti dell’ISIS e due uomini di Misurata». L’agenzia confermava il numero di perdite umane da parte dello Stato Islamico e aggiungeva la sottrazione alla formazione nera di 13 veicoli. Un duro colpo, si può supporre, per il gruppo di Sirte, che infatti da allora si riorganizza colpendo la sede militare del battaglione 166 di Misurata con attentati esplosivi, il primo dei quali data appena 15 marzo e fa il paio con un’analoga azione condotta lo stesso giorno a Tripoli, impossibile però stabilire se proprio in relazione ai fatti di Sirte. Poi, il 18, l’imboscata che segna il cambio di approccio da parte di Misurata.
La reazione della città è duplice: da un lato, all’interno delle proprie mura, si cautela imponendo un coprifuoco, dall’altro, all’esterno, riorganizza invece i propri fronti militari.
Scrive a questo proposito la giornalista italiana:
«Nonostante la città vanti 8000 combattenti, secondo le locali fonti di sicurezza, Misurata è impegnata su diversi fronti in tutto il paese e le sue forze ne risultano diluite. A occidente un numero di combattenti misuratini che partecipano alla coalizione Fajir Libya [nome arabo della Libya Dawn] sono impegnati vicino alla base militare di Watiya contro le forze di Zintan e il loro alleato Hafter. A sud, alcuni componenti della Third Force [Terza Forza] assegnati alla protezione dei giacimenti petroliferi si trovano nel deserto per controllarli. A est di Misurata, la situazione delle forze della Sharouq [nome arabo della Operation Sunrise] è persino peggiore, dal momento che contano tre fronti in meno di 120 miglia. I combattenti misuratini schierati a Ben Jawad sono sotto la minaccia dei federalisti comandati da Ibrahim Jathran sul lato orientale e dei combattenti dell’ISIS sparpagliati tra Noufliya e Sirte, mentre i bombardamenti del Generale Hafter intimidiscono dall’alto».
Probabilmente proprio per porre rimedio a questa situazione, il 27 marzo i misuratini hanno deciso di patteggiare una ritirata dal fronte di Ben Jawad – importante per la vicinanza ai siti petroliferi di Es Sider e Ras Lanouf – e concentrare le loro forze su Sirte. Nell’occasione la Reuters ha sentito esponenti di entrambi i fronti e, anche se sono risultate delle versioni discordi sul ritiro delle forze filoorientali, la partenza di quelle filoocidentali è sembrata praticamente certa e confermata.
La situazione sembra quindi peggiorare per le milizie dello Stato Islamico a Sirte, che potrebbero ora affrontare una più decisa reazione della compagine misuratina. Le parole del componente della delegazione mandata a trattare con i miliziani nemici a Sirte – «Gli abbiamo chiesto di deporre le loro armi e consegnare i combattenti stranieri. Abbiamo offerto la protezione dei combattenti libici e anche un ritorno sicuro alla loro città di provenienza, Derna» – potrebbero essere oggi lontane: «il tempo del dialogo è finito – si dice adesso – Ora il problema sarà risolto con la forza».
Il responsabile della sezione diritti umani dell’UNSMIL, Claudio Cardone, ha stimato che i combattenti dello Stato Islamico in Libia sarebbero oggi tra i 1000 e i 5000, a fronte di un numero complessivo di miliziani di 100.000 – 300.000 unità: circa 10 volte di più che nella guerra del 2011.
La questione libica per due volte al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Nel mese di marzo il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha affrontato per due volte la questione libica, spinto anche dal fatto che il 13
marzo 2015 era prevista la fine del mandato dell’UNSMIL: c’era dunque la necessità immediata di prolungarne l’attività in modo da risolvere la questione vitale del governo unitario. L’attività dell’organismo presieduto dallo spagnolo Bernardino Leon ha avuto quindi un primo prolungamento fino al 31 del mese grazie alla risoluzione 2208 (2015) del 5 marzo, poi uno ulteriore e più significativo fino al 15 settembre 2015 grazie alla risoluzione 2213 (2015) del 27 marzo.
Al di là però del fatto tecnico, che non ha trovato alcun ostacolo dal momento che entrambe le risoluzioni sono state votate all’unanimità, varrà la pena ricordare i concetti espressi dall’inviato libico alle Nazioni Unite durante la riunione del Consiglio di Sicurezza del 4 marzo, quando Ibrahim Dabbashi, rappresentante ovviamente del governo riconosciuto di Tobruk, ha pronunciato un discorso dai toni molto vibranti e risentiti: ha accusato uno Stato non meglio specificato ma membro parmanente del Consiglio – quindi uno tra Cina, Francia, Russia, Regno Unito e Stati Uniti – di aver indicato Ansar al Sharia, prima del suo inserimento ufficiale nella lista dei gruppi terroristi come l’unica entità veramente ostile al terrorismo in Libia e ha chiesto, d’ora in avanti, che tutti i paesi rifiutassero ogni posizione neutrale per schierarsi veramente con il governo della Libia orientale: chiunque avesse continuato ad avere relazioni con Tripoli sarebbe stato passibile, da parte di Tobruk, di isolamento diplomatico.
Se si considera poi la posizione espressa dall’UNSMIL sul Dialogo che divide in entrambi i campi gli estremisti belligeranti da quelli che vogliono invece scendere a patti con l’avversario, si troveranno interessanti anche le parole pronunciate da Dabbashi a proposito della possibile coesistenza, da parte di Tobruk, di una via bellica e di una via, parallela, dialogica:
«La risoluzione di tragedie non può essere legata agli esiti di un dialogo nazionale che rimane ostaggio dei capricci e dei desideri delle milizie che vivono grazie al crimine e che si dilettano a privare della loro importanza e ad umiliare i libici e che hanno svuotato il paese di intellettuali, attivisti politici e turisti, scappati di fronte alle minacce. Gli sforzi di affrontare la questione della sicurezza e di combattere il terrorismo non devono rimanere ostaggio del successo del dialogo nazionale. Dovrebbero essere intrapresi parallelamente al dialogo se vogliamo impedire che la Libia cada sotto il controllo totale dei terroristi e se vogliamo impedire al terrorismo di allargarsi all’intera regione» (p. 7)
E proprio sulla questione militare, infatti, si incentrerà la discussione libica all’interno del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite: ai primi del mese, infatti, Tobruk chiede di poter acquistare da alcuni paesi dell’Europa orientale rifornimenti bellici per un totale, riporta la Reuters, di 150 carri armati, 24 jet, 7 elicotteri, più armi automatiche, granate e proiettili. La richiesta, da parte di Tobruk, è d’obbligo, dal momento che la Libia è attualmente vincolata da un embargo militare che obbliga qualsiasi acquisto di armi a passare attraverso l’avallo delle Nazioni Unite. Ma le Nazioni Unite non si dimostreranno particolarmente fiduciose nei confronti del governo legittimo, non rispondendo di fatto entro il mese alla richiesta per paura che le armi inviate ai governativi possano poi finire in altre e meno note mani.
Maggior fortuna sembrano invece aver incontrato le richieste politiche di Tobruk, almeno a giudicare dalla bozza di governo unitario pubblicata dall’UNSMIL il 24 marzo; la quale non pare troppo distante dall’accettare quanto chiesto sempre da Dabbashi nella stessa seduta consiliare:
«I libici guardano con ansia al fatto che Bernardino Leon persuada con successo i leader delle milizie, come oppositori dei leader politici, ad accettare la formazione di un governo di unità nazionale costituito da libici privi di passaporto o cittadinanza straniera, ratificato e supportato dall’intera composizione della HOR. Ad una certa data, il governo assumerà le proprie funzioni nella capitale una volta che le milizie si siano ritirate e una volta che sia soddisfatto della sicurezza necessaria a portare avanti i propri compiti senza la minaccia della forza» (p. 7)
Con tutti i limiti ancora da verificare di cui si diceva, quanto meno il parlamento unitario dovrebbe formalmente rimanere la stessa HOR che adesso è limitata alla parte orientale del paese.
La terza risoluzione approvata nel mese di marzo, la 2214 (2015) del 27 marzo, sembra significativa perché sancisce a livello internazionale la stretta collaborazione in corso tra governo libico di Tobruk, Giordania ed Egitto: approvata all’unanimità, la risoluzione è infatti di bozza giordana, ma nel suo intervento consiliare la rappresentante permanente della Giordania Dina Kawar ha sottolineato come il testo sia frutto del lavoro congiunto di Tobruk, Il Cairo e Amman.
La risoluzione appare molto in linea con le richieste libiche. In particolare i punti 7, 8 e 10 chiamano ad una pronta assistenza al governo orientale contro i gruppi terroristi. Recitano rispettivamente:
«Chiama la Commissione stabilita in accordo al paragrafo 24 della risoluzione 1970 (2011) di considerare repentinamente le richieste regolate dal paragrafo 8 della risoluzione 2174 (2014) per il trasferimento e il rifornimento di armi e del rlativo materiale, incluse le relative munizioni e le parti di ricambio, al Governo libico perché le usi, per mezzo delle sue forze armate ufficiali, per combattere l’ISIL, i gruppi che hanno dichiarato alleanza all’ISIL, Ansar al Sharia e tutti gli altri individui, gruppi, organizzazioni ed entità associate con al Qaeda che operano in Libia e sollecita gli Stati coinvolti a fornire informazioni pertinenti a tale richieste» (pp. 3-4)
«Sottolinea l’importanza di provvedere supporto e assistenza al governo libico, anche offrendogli la necessaria assistenza in termini di sicurezza e sviluppo di abilità» (p. 4)
«Esprime forte supporto per gli sforzi del Governo libico di combattere l’ISIL, i gruppi che hanno dichiarato alleanza all’ISIL, Ansar al Sharia e tutti gli altri individui, gruppi, organizzazioni ed entità associate ad al Qaeda e operanti in Libia e dei membri della comunità internazionale che assistono il governo libico a questo riguardo su sua richiesta» (p. 4)
31 marzo 2015: cambia a Tripoli il vertice dell’esecutivo.
A onor di cronaca, dal momento che un giorno è troppo poco per valutarne gli effetti, va registrato che il 31 marzo il parlamento di Tripoli –
General National Council (Consiglio Generale Nazionale, GNC) – vota la deposizione del Primo Ministro Omar al Hassi su richiesta di 70 parlamentari e una decina di ministri: al suo posto, temporaneamente, il suo vice e Ministro della Difesa Khalifa Mohamed Ghwail.
Conclusioni. Attendendo la politica, la concretezza in Libia è militare.
Per la Libia Marzo è stato forse, dal punto di vista politico, un mese di transizione. Come si è già accennato in fase introduttiva, molte delle
decisioni che sembrava dovessero essere prese, sono poi slittate: tra tutte, quella del governo unitario; del quale è stata prodotta solo una bozza che rimane un testo importante, ma non definitivo. Anche l’Europa dovrebbe esprimersi concretamente in aprile.
Più concretezza sembra esserci stata dal punto di vista militare, sia dentro che fuori la Libia: dentro con la riorganizzazione di Misurata impegnata nel confronto con lo Stato Islamico a Sirte, fuori con il cordone sanitario navale progettato, e in parte già realizzato, dall’Italia. Ma anche in questo caso è probabile che la situazione venga definita meglio prossimamente.
La discussione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha portato a una risoluzione rilevante che impegna a un maggior impegno dalla parte di Tobruk, ma anche ha chiarito una differente visione del rapporto possibile tra dialogo e lotta armata: mentre le Nazioni Unite e Bernardino Leon continuano a insistere che le due vie siano alternative e inconciliabili, per lo meno nel rapporto tra Tripoli e Tobruk, e che anzi il dialogo serva a marginalizzare da entrambe le parti i belligeranti – e su questo punto si legga l’articolo Libya’s power blocks are fracturing, firmato già in febbraio per Al Jazeera dall’analista Jason Pack – Tobruk sottolinea la loro possibilissima coesistenza e contemporanea necessità. Alle armi Tobruk non intende rinunciare e forse l’aiuto giordano e egiziano l’ha persino messa in maggiore sintonia con le Nazioni Unite: potrebbe non essere un caso che il tenore delle parole pronunciate del rappresentante libico Ibrahim Dabbashi si siano dimostrati sensibilmente diversi il 4 e il 27 marzo.
Bisognerà ora vedere quando e come una riformulazione politica si affiancherà a quella militare.
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.
L’articolo è molto dettagliato in tutte le sue parti ma una cosa è chiara e la si evince senza fraintendimenti dalle dichiarazioni di Dabbashi davanti al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite : la sua richiesta di poter acquistare armi da alcuni paesi dell’Europa orientale ( Russia ) , con la scusa di combattere l’ISIS e gli altri gruppi terroristici, nasconde in realtà, a mio avviso, la sua ferma volontà di prendere il sopravvento militare su Tripoli e Misurata.
Il dialogo politico, a questo punto, è sicuramente qualcosa in cui sia lui che il governo di Tobruk non credono intimamente ma che fanno credere di voler percorrere per dare il contentino ai paesi occidentali. Nella cultura arabo-musulmana i contenziosi si risolvono con le armi, non certo con le parole.
Tanti sono gli esempi che si possono fare a questo proposito : la mattanza nella penisola del Sinai che l’esercito egiziano sta perpetrando per eliminare gli avversari politici appartenenti ai partito della Fratellanza Musulmana, le lotte fratricide in Siria, il caos di questi ultimi giorni in Yemen ecc…ecc…. e non stiamo certo parlando di lotta al terrorismo !!
Il dialogo non fa parte della loro cultura. Vige invece ancora la legge dell’ ” occhio per occhio, dente per dente” ed estirpare questo “modus operandi” è la cosa più ardua che si possa pensare di fare.