Nel ventre del drago

L’esperienza di Jackie e Juvi, migranti a Taiwan e successivamente migranti in Italia, testimonia un dato tanto importante, quanto attuale, anche per la nostra specifica realtà italiana: di fronte a una “infrastrutturazione” delle migrazioni, attuata attraverso la collaborazione transnazionale di molteplici attori, la soggettività migrante emerge sempre con quel carattere di non “addomesticabilità”, di fuga, anche quando deve fare i conti con la dura realtà della fabbrica elettronica taiwanese, o con le regole d’ingresso in Europa. 

Jackie Banaang, Juvi Elalto, Stefano Rota – Transglobal


 

Quella che segue, più che un intervista, si potrebbe descrivere come la scrittura a tre mani – una di Jackie, una di Juvi e, in misura minore, una mia – di un breve resoconto sul modo in cui le migrazioni dalle Filippine si dispiegano e vivono nell’attraversamento di confini e lungo rotte più o meno consolidate, ribadendo quel grado di incertezza, di non assoggettamento, di imprevedibilità, che caratterizza da sempre, ma con una crescita direttamente proporzionale a quella della globalizzazione, le migrazioni.

Due elementi importanti risaltano all’interno della conversazione. Il primo è costituito dall’apparato infrastrutturale che, con gradi diversi di “legalità”, governa le migrazioni, come è stato ben descritto da Xiang e Lindquist in un articolo su International Migration Review. Il ferreo e dispotico regime che regola la vita di fabbrica e la sua appendice del dormitorio è il secondo aspetto che viene messo in evidenza. Si tratta di un argomento su cui è stato già scritto molto, con riferimento tanto alla Cina continentale quanto a Taiwan, da molti studiosi, tra i quali Pun Ngai e il suo collettivo di ricerca, Jenny Chang, Albert Tzeng e gli italiani, Devi Sacchetto, Ferruccio Gambino e Paolo Do.

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Jackie e Juvi sono due nomi propri, corrispondenti ad altrettante persone fisiche, ma, nel contesto più ampio in cui vorrei provare a inserire la loro esperienza (senza volerne minimamente togliere significato e valore, in termini di specificità, forza e anche dolore), possono benissimo trasformarsi in nomi comuni, assumere il tono di “voce media”, come la chiama Chakrabarty. Ciò è dovuto alla diffusione delle pratiche narrate dalle due amiche all’interno della moltitudine di giovani filippini/e, ma non solo, che si muovono verso Taiwan, Singapore e altre mete del sud est asiatico, dove operano le maggiori companies elettroniche a livello mondiale. Un altro aspetto accomuna le storie qui riportate a quelle di altre centinaia di migliaia di cittadini: la prima migrazione diviene funzionale a una seconda (terza, nel caso di Juvi) migrazione verso un paese occidentale, europeo, americano o dell’Oceania che sia. Come è già stato argomentato su queste pagine, i progetti migratori vivono della continua tensione che si crea tra soggettività, propensioni dei migranti e i sommovimenti che agitano la composizione e ricomposizione globale dei processi produttivi e le logiche di governance che la presiedono. In questo contesto, parlare di return o circular migration perde qualunque significato, proprio a causa di quell’incertezza di cui si è detto prima. Accompagnare il termine “migrazione” con un numero ordinale consente di mantenere aperta questa prospettiva in chiave epistemologica.

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Ho conosciuto Jackie e Juvi in un corso di italiano organizzato in collaborazione tra l’Associazione Adra e Transglobal. Sono due persone molto diverse tra loro, sia per il livello d’istruzione raggiunto nelle Filippine, sia per temperamento e determinazione. Entrambe, adesso, lavorano presso una famiglia romana in qualità di domestica e baby sitter, un tipo di occupazione per la quale i filippini sono molto richiesti, al punto da aver fatto della loro comunità la seconda per numero di residenti a Roma, dopo quella rumena, e la sesta a livello nazionale.

La conversazione si è svolta in inglese. Ciò significa che il racconto, nel passaggio dal loro vissuto alle pagine di Frontiere News, ha subìto due traduzioni. Non si tratta di un elemento di poco conto, visto il carattere sempre ambiguo e “violento” che ricopre la traduzione in sé, come ha argomentato recentemente Étienne Balibar in un articolo per il blog di Transglobal su Frontiere News.

Me ne scuso, in primo luogo, proprio con Jackie e Juvi.


(continua nella seconda pagina)


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