Faccia a faccia col nemico

di Joshua Evangelista e Valerio Evangelista, foto di Monica Ranieri
(Frontiere per LookOut – maggio/giugno 2015)

“Basta che superi questo palazzo e la vedi”, ci dice Ahmed, un professore di matematica fuggito da Raqqa che ora insegna frazioni ed equazioni ai figli dei profughi siriani. E in effetti è così: oltre una recinzione spinata, a circa 300 metri, si erge nel cielo la ben nota bandiera nera con la shahada bianca, stendardo dello Stato Islamico. Prima del Trattato di Ankara del 1921, Akçakale e Tell Abyad erano un’unica città. E i rapporti commerciali sono stati buoni fino al 2011, quando le rela- zioni tra Turchia e Siria si sono incrinate irriediabilmente. Nel 2012 i colpi di mortaio provenienti dalla Siria hanno ucciso cittadini turchi e così Akçakale, 30mila abitanti per lo più di etnia araba, è diventata per alcuni mesi il crocevia dei politici di Ankara, che non hanno mai pensato di sgomberare la città nonostante le polemiche tra l’AKP, il Partito Giustizia e Sviluppo del presidente Erdogan, e le opposizioni progressiste.

Akcakale - foto di Monica Ranieri / FRONTIERE NEWS
Alcuni bambini siriani ad Akcakale – foto di Monica Ranieri / FRONTIERE NEWS

Con Raqqa definitivamente sotto lo Stato Islamico, Akçakale è diventata terra di nessuno, nonostante la presenza costante dei servizi segreti turchi. Ultimo avamposto nemico per i foreign fighters arrivati da tutto il mondo per combattere a servizio del Califfato, primo centro abitato oltre frontiera per i siriani in fuga. Raqqa e Tell Abyad sono separate da appena 100 chilometri di strada. Una volta arrivati al confine, entrano in gioco i trafficanti affiliati allo Stato Islamico. Prima della guerra smerciavano beni tra i commercianti, ora persone. Donne e bambini senza cibo e case da una parte, giovani barbuti pronti a impugnare il kalashnikov dall’altro. Così Akçakale è diventato, stando ai racconti dei profughi, un prolungamento dell’ISIS in terra turca.

I confini sono controllati costantemente dai combattenti, ci sono anche degli italiani tra quelli che fanno avanti e indietro per monitorare i flussi”, ci dice Hussein, un giovane muratore appena arrivato in Turchia. Vive in una baracca di cemento di venti metri quadri insieme alla madre, una zia, cinque figli e la moglie ventitreenne. È scappato da Raqqa dopo che la sua casa è stata bombardata dagli aerei della coalizione guidata dagli USA.

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Vicini di casa di Hussein sono 13 parenti, unici membri della famiglia a essere sopravvissuti ai bombardamenti. Per loro un’altra baracca, leggermente più piccola, con un paio di materassi da spartire. “La nostra Siria è diventata co- me la Somalia che vedevamo in televisio- ne”, racconta Mariam, arrivata da pochi giorni ad Akçakale. Ma non sono il velo integrale, i jeans vietati o le altre strette imposizioni morali a indignare maggiormente i profughi: “Con l’arrivo di Daesh (l’acronimo arabo dello Stato Islamico, ndr) è finito il lavoro. Ceceni, africani, asiatici ed europei ci hanno impedito di svolgere le nostre attività. E il costo del pane è diventato immorale”, spiega Mariam, un’anziana vedova.

 

 

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Camminando tra i rifugi dei profughi le storie si confondono: intere aree di Raqqa sono senza elettricità, è impossibile acquistare il pane, non c’è lavoro. E qui, oltre confine, le cose non vanno molto meglio. “Avevo con me solo 15 lire turche (circa 5 euro, ndr). Ma la scorsa notte qualcuno è entrato e le ha rubate”, ci racconta una giovane mamma in lacrime. Decine di bambini orfani giocano nel fango, manca il latte per i neonati e i luogotenenti dell’ISIS girano impuniti. Si stima che circa mille famiglie al giorno oltrepassino il confine per arrivare in Turchia.

 

 

Tre mesi fa era stata la volta di Tarek, un attivista che nel 2011 aveva fondato insieme ad altri intellettuali un movimento per conservare le specificità culturali di Tell Abyad nonostante il conflitto in corso. “Ci rapportavamo con l’Esercito Siriano Libero da indipendenti. Anzi, nel giornale che distribuivamo in città eravamo anche liberi di criticarli. Qualche problema l’avevamo con gli islamisti, dicevano che eravamo miscredenti. Eravamo armeni, turcomanni, arabi, musulmani e cristiani: le origini non facevano differenza, volevamo solo raccontare noi stessi e le nostre culture. Un modo per preservarci nonostante i bombardamenti del regime”.

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Poi l’arrivo di ISIS e l’arresto. “Hanno dei tecnici informatici molto esperti, possono vedere anche i file cancellati e quelli criptati. Così non ho avuto scampo, hanno trovato tutte le conversazioni su Facebook in cui parlavo male di loro. Mi hanno appeso in strada, a testa in giù e col ghiaccio tra le gambe: le stesse tecniche che usavano i torturatori di Assad”. Mentre ci racconta i soprusi, Tarek prende il cellulare e scorre le immagini. Ci mostra la fotografia di una fossa comune. “Mi hanno portato qui, mi hanno detto che se avessero trovato altre cose sul mio conto mi avrebbero semplicemente buttato in mezzo agli altri cadaveri. La notte stessa sono fuggito, in direzione Akçakale”.

 

Tarek ci mostra l'orrore dell'ISIS sul suo cellulare
Tarek ci mostra l’orrore dell’ISIS sul suo cellulare

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Il 15 giugno 2015 la città di Tell Abyad è stata riconquistata dalle milizie curde e dalle brigate dell’Esercito Siriano Libero.


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