Miseria, devastazione ed inquinamento. Quel che resta di una base americana in Islanda

di Riccardo Bottazzo

C’era una volta una basa americana. Una base come ce ne sono tante nel mondo, con i suoi bombardieri atomici, filo spinato e militari addestrati alla guerra. Una base, come tutte le altri basi americana, giustificata dalla logica spartitoria della Guerra Fredda: “Se non ci mettiamo noi le atomiche, ce le mettono i sovietici”. Una base che, dal punto di vista della strategia militare, aveva pure una sua ragione d’essere.

Siamo in Islanda, quell’isolotto grande non più di tre Sardegne geologicamente situato a cavallo tra le zolle tettoniche euroasiatica e americana. Una terra “ballerina” di vulcani, geyser, fiordi, terremoti, paesaggi aperti su incomparabili bellezze naturali e isolani che si chiamano tra loro solo col nome. Perché sono talmente pochi che non hanno bisogno del cognome!

Sul finire delle seconda guerra Mondiale, gli Usa decisero che l’Islanda doveva diventare una portaerei da combattimento, pronta a colpire dall’alto il temuto Pericolo Rosso.

C’è da dire che durante il conflitto, gli islandesi ce la misero tutta per cercare di rimanere neutrali. Non ce la fecero e furono invasi prima dai nazisti e poi dagli inglesi. Invasioni senza colpo ferire, perché in Islanda, allora come oggi, non esiste un esercito. Capirete, che ad un’isola di 300 mila persone una forza militare serve esattamente come serve il cognome.

Con l’arrivo della Guerra Fredda gli islandesi ce la misero tutta per cercare ritornare all’amata neutralità. Ma anche stavolta non ci fu nulla da fare. Il Pentagono aveva deciso di costruirci una base militare. A nulla valse il “Grazie, ma anche no” del Governo in  carica e ancora meno valsero le vibranti proteste degli islandesi che nel ’51 inscenarono una serie di partecipate manifestazioni in piazza Austurvöllur, davanti alla sede del Parlamento, contro la “svendita del sacro suolo d’Islanda”. Le proteste furono represse da lacrimogeni, manganellate e violente cariche della polizia. Tutte cose che non si vedono spesso a queste latitudini. Tanto che otto anni fa, quando gli islandesi torneranno ad occupare piazza Austurvöllur per protestare contro le soluzioni neoliberiste alla crisi che aveva messo in ginocchio l’isola, i manifestanti più anziani diranno “pare di essere tornati nel ’51”.

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Ma questa è un’altra storia. Torniamo alla nostra base che gli Usa pretesero di realizzare, e realizzarono, proprio a 40 chilometri da Reykjavik, ad un tiro di schioppo dall’aeroporto internazionale – l’unico aeroporto internazionale dell’isola – di Keflavik, per raccontare cosa ne resta ora.

Base americana abbandonata a Keflavik, IslandaCi sono passato qualche giorno fa, deviando, per pura curiosità, dalla statale 1 che perimetra l’isola. Le torrette di guardia non ci sono più da un pezzo. E così il filo spinato. Gli edifici in cemento armato – è proprio il caso di dirlo!- sono ancora là. Vuoti e inutili. Arduo l’abbattimento, costosa la manutenzione. Alcune aree sono chiuse “per sicurezza”, si legge sui cartelli. In altre si può girare liberamente. Stanzoni puliti, finestre quasi tutte integre. Niente da vedere se non i muri. Non c’è degrado ma non c’è neppure uno scopo.

La base infatti è stata abbandonata nel 2006. Gli ultimi quattro aerei F-15 sono decollati il 12 agosto di quell’anno. Gli ultimi ufficiali, dopo un ultimo “cala bandiera” che non ha emozionato proprio nessuno, se ne sono tornati a casa con un volo di linea.

Agli islandesi il compito di pulire e portare le immondizia nelle loro discariche.

Da sottolineare che ci sono state anche proteste da parte dei cittadini di Keflavic (da queste parti è considerata una città, ma da noi sarebbe un paesino di 8 mila anime) che non volevano “essere abbandonati” dagli americani. La presenza statunitense, durata 55 anni, aveva drogato l’economia locale, legandola ai consumi dei militari della base.

Tra gli islandesi, Keflavic viene considerata, non senza una buona dose di disprezzo, “un fast food a cielo aperto”. La cittadina infatti era piena zeppa di locali che propinavano cibo spazzatura e che sono falliti non appena l’ultimo soldato StelleStriscie ha fatto i bagagli. Addirittura l’ultimo hamburger sfornato della MacDonald – la catena non esiste più oggi in Islanda – è stato acquistato da un artista locale che lo ha messo su una teca e trasformato in una opera d’arte, con tanto di telecamera, tuttora attiva, che trasmette al mondo la sua decomposizione.

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Non sorprende quindi che l’area di Keflavik, nonostante la presenza dell’aeroporto internazionale, sia oggi tra le più depresse del Paese, con il più alto indice di disoccupazione.

Il “che fare” di questa vasta area dove sorgeva la base diventata improvvisamente inutile, è un tormentone sul quale ogni Governo che si è succeduto dal 2006 ad oggi. Senza mai trovare una soluzione. Hanno provato a destinare gli ex alloggi delle truppe agli studenti dell’università, ma la distanza di oltre 50 chilometri dalle aule rendono la struttura ben poco appetita agli studenti che accettano malvolentieri di trasferirsi in aperta campagna. Tra l’altro, distanti anni luce dalla “runtur”, la movida locale, di Reykjavik.

Come se non bastasse, sono stati scoperti veri depositi tossici nelle aree sotto i poligoni di tiro e i magazzini di stoccaggio delle armi. Solo la semplice bonifica, verrebbe a costare allo Stato Islandese (perché gli Stati Uniti non hanno intenzione di sborsare un solo dollaro) 4 miliardi di corone. Quasi 30 milioni di euro.

Una cifra mica da ridere che nessuno qui si sente di investire, pure se la crisi – in questo Paese che nel 2008 ha rifiutato di pagare i debiti delle sue banche e le ha lasciate fallire per tornare ad una economia capace di investire sul welfare e di difendere i beni comuni – è solo un ricordo dei tempi del capitalismo sfrenato.

“Roba da 2007” si dice tra le strade di Reykjavik quando si assiste ad uno spreco o ad investimento inutile e devastante in puro stile “Grandi Opere” . E quell’ammasso di cemento, inquinante ed inquinato, rimane ancora là a testimoniare un mondo in guerra che non c’è più ed a ricordare che c’è un mondo verde ancora tutto da costruire.


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Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.

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