di Riccardo Bottazzo
Akureyri, Islanda – Terra di ghiaccio e fuoco, di vulcani e geyser, di pozze bollenti e ghiacciai eterni. L’Islanda non è solo l’isola dei toponimi impossibili, dove le estati trascorrono senza luna e gli inverni senza sole. È anche l’unico angolo d’Europa dove i cittadini hanno saputo rovesciare il governo, arrestare i finanzieri responsabili del crack, ribaltare le ricette neoliberiste lasciando fallire le banche e riscrivere la Costituzione via internet mettendo al primo posto i Beni Comuni e le libertà digitali.
L’Islanda insomma, ha saputo trovare la spinta per saltare oltre il baratro della crisi economica che aveva messo in discussione un sistema di welfare tra i più progrediti del mondo, giungendo addirittura a ventilare la privatizzazione dell’acqua (da queste parti le bottiglie di plastica sono pressoché sconosciute e anche nei migliori ristoranti trovi nelle tavole la caraffa colma e gratis) e le quote pesca (altra cosa che ha fatto imbestialire una comunità che per tre quarti campa di quanto gli offre il mare).
Fatto sta che sette anni dopo la rivoluzione del 2008, l’economia dell’isola viaggia come il proverbiale treno e il benessere diffuso salta all’occhio anche del viaggiatore più distratto. Il tasso di disoccupazione, tanto per citare un dato, è il più basso d’Europa e si attesta sul 4,3%. Eppure è un tasso ancora troppo alto per il primo ministro Sigmundur Gunnlaugsson: “Vorremmo che la disoccupazione scendesse fino al 2%. Questo può sembrare strano alla maggior parte delle nazioni occidentali, ma gli islandesi non sono abituati ad essere disoccupati”.
Per tanti versi, il caso dell’Islanda è emblematico. Quest’isola grande pressappoco quattro volte la Sardegna, ha vissuto in anteprima, e concentrata in una trentina d’anni, tutta la via crucis del neo liberismo: dal consumismo più vergognoso, alle “ricette” salvifiche della privatizzazione, agli “inevitabili” tagli allo Stato sociale, sino a sprofondare nel default e nell’insolvilbilità bancaria. Un film che abbiamo appena visto in Grecia e che stanno proiettando anche a casa nostra.
I Nuovi Vichinghi – Uscita dalla seconda guerra mondiale come uno dei Paesi più poveri d’Europa, con una economia concentrata solo sulla pesca, l’Islanda per tanti anni è stata ignorata dalla lunga mano della Troika. Un Paese povero di capitali e di risorse, per i criteri del Pil, ma che aveva comunque un livello di vivibilità molto elevato e aveva saputo dotarsi di un welfare non inferiore a quello degli altri paesi scandinavi.
La festa finì con l’arrivo di un gruppo di finanzieri d’assalto che si facevano chiamare “Nuovi Vikinghi”, unendo richiami nazionalistici ad un concetto di… modernità economica che altro non era che quello dei Chicago Boys. Cominciò così un ventennio di tagli allo Stato Sociale, privatizzazioni selvagge, speculazioni finanziarie… Per dirla in altre parole, cominciò un ventennio di “sviluppo” – termine che, come noterà il lettore, scrivo sempre virgolettato – che ebbe l’effetto di una feroce sbornia consumistica per la gente di Islanda. Gente che, se è vero che è sempre stata tra le più colte d’Europa (“Meglio senza scarpe che senza libri” recita un proverbio isolano) è anche vero che ha sempre sofferto del complesso del “parente di campagna” rispetto ai luccicanti vicini oltre oceano di Stati Uniti e Scandinavia.
Patatrac – La sbornia finì sull’inizio del secolo quando di punto in bianco crollò un sistema bancario basato solo sui debiti e sugli interessi che questi maturavano (e che nessuno era più in grado di pagare). Le “soluzioni” proposte dalla Troika prevedevano la privatizzazione dell’acqua (e stiamo parlando di un Paese in cui le bottiglie di plastica sono pressoché sconosciute e anche nei migliori ristoranti trovi nelle tavole la caraffa colma e gratis) e le quote pesca (altra cosa che ha fatto imbestialire una comunità che per tre quarti campa di quanto gli offre il mare).
Dopo il solito carosello di aiuti promessi e non concessi, nel 2007 il Paese finì definitivamente in malora. Ma è proprio a questo punto che per l’Islanda si aprirono nuovi, promettenti scenari.
L’anno della rivoluzione – Tutto cominciò con una rivoluzione (che altro?). L’11 ottobre del 2008 un piccolo gruppo di manifestanti, incazzati neri perché il Governo svendeva il Paese e i suoi stessi abitanti, pur di salvare le banche che avevano causato il disastro economico, cominciò ad assediare l’Alþingi, il parlamento islandese, chiedendo le dimissioni di tutti, compresi i vertici della banca nazionale, privatizzata pure quella. Poco per volta, accorsero altre persone che piazzavano tende, portavano rifornimenti, tenevano comizi e assemblee, lanciavano uova e teste di pesce (gli ortaggi qui costano l’ira di dio) contro i parlamentari.
Ne seguirono gli scontri più violenti che si fossero mai visti nell’isola dai tempi dei vikinghi (quelli veri). Va sottolineato che i manifestanti godettero di una bella fortuna. L’Islanda è una delle pochissime nazioni al mondo che non ha un esercito. E che se ne fa di un esercito una nazione con 300 mila abitanti? Fatto sta che, senza i militari a presidiare le piazze con i carri armati, gli onorevoli parlamentari sono assai più propensi ad ascoltare i loro elettori, soprattutto quando questi minacciano di venirli a prendere per il collo. C’è anche da dire che gli islandesi sono gente pacifica, ma quando si incazzano…
Referendum e costituzionale – Dopo due mesi di battaglie campali, il Governo, che allora era in mano alla destra, si dimise per fare spazio ad un esecutivo rosso verde che rinegoziò il debito con i Paesi Europei, in particolare con l’Inghilterra.
Non bastava. Il problema non era quanto pagare e quanto “sconto” ottenere. Il problema era, ed è tuttora, se è giusto che un debito contratto da una banca privata debba essere socializzato a tutto il Paese. In altre parole, se è meglio far fallire le banche e far ripartire l’economia da zero, oppure svenarsi per far fronte ai debiti dei banchieri, vendendo tutto quello che c’è da vendere – ambiente e diritti compresi – per tener fede a trattati internazionali che tanto somigliano ad un cappio da impiccato.
Nel marzo 2010, gli islandesi andarono alle urne e scelsero di continuare a vivere. Cosa che gli costò una, francamente ridicola ma significativa, accusa di “Paese terrorista” da parte del premier inglese Gordon Brown e del Governo di Sua Maestà Britannica!
Le pressioni internazionali portarono quindi ad un nuovo referendum cui gli islandesi risposero alla stessa maniera: i debiti dei banchieri, loro, non volevano pagarli!
Le banche furono lasciare fallire e quindi statalizzate. I finanzieri arrestati. Fu eletto un nuovo parlamento, un nuovo Governo e cominciarono i lavori per una nuova Costituzione.
Non è tutto oro – La partita naturalmente non è ancora conclusa. La richiesta di restituzione dei debiti, in particolare quelli dell’Icesave, è ancora in corso. Tecnicamente, l’Islanda ha solo ottenuto una proroga e dovrà far fronte al debito quando – e se – la nuova banca ritornata nelle mani dello Stato avrà capitalizzato. Da sottolineare il “se” che non è affatto scontato. “In ogni caso, questo non è debito pubblico e mai lo sarà – ha promesso il premier Gunnlaugsson – Il mio obiettivo adesso è quello di ricostruire lo Stato sociale islandese”. Vedremo. Per ora, le ultime elezioni che hanno consegnato il Paese a Gunnlaugsson, hanno premiato gli euroscettici e le procedure per entrare nel circo di Euroland sono state congelate. Un recente sondaggio ha confermato che oltre il 82% degli islandesi, tanto di destra quanto di sinistra, non ci pensa nemmeno a sostituire le corone pur se inflazionate con l’euro.
Il problema è sempre quello. Democrazia o capitalismo? – Fatto sta che in queste verdi lande, a pochi iceberg di distanza dal circolo polare artico, l’economia ha superato una crisi che, come dimostra proprio il caso Islandese, è soltanto una mascherata finanziaria. Un babau imposto dalla corrente religione economica dello “sviluppo illimitato” in un mondo limitato. Un mito. Proprio come la mitica isola di Thule che tanti commentatori identificano con questa terra di ghiaccio e di fuoco.
Quello che hanno fatto gli islandesi con i loro referendum non è tanto diverso da quello che hanno tentato di fare i greci. La fortuna degli islandesi (oltre a quella di non avere un esercito) è stata quella di non far ancora parte dell’Eurozona. Con una moneta nazionale, hanno potuto ancora dettare i tempi della loro economia, anche percorrendo la strada dell’inflazione, se necessario. Per i greci, per noi, non è più così. La strada che porta fuori della crisi passa attraverso la costruzione di Europa come organismo politico democratico e non più economico finanziario. Possiamo stare sicuri che se qualcuno chiede alla gente di scegliere tra l’economia delle banche e quella del loro stipendio, nessuno ha dubbi di sorta. Parlano di crisi, di default, di spending review ma la battaglia che dobbiamo combattere è quella per la democrazia.
Profilo dell'autore
-
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.
Dello stesso autore
- Centro e Sud America10 Aprile 2022La coppia che strappò spiagge e foreste ai latifondisti per restituirle al popolo costaricano
- Europa9 Gennaio 2022Una sentenza tedesca per non dimenticare il genocidio degli yazidi
- Centro e Sud America7 Novembre 2021Dal Chiapas all’Italia, resistenze “poco social” che si intersecano
- Italia25 Luglio 2021‘Fie a Manetta’, le barcaiole veneziane contro il machismo lagunare