Afghanistan di guerra e speranza nella poesia della diaspora

di Nicole Valentini

In quest’epoca di grandi sconvolgimenti politici, economici e geopolitici risulta talvolta difficile osservare il mondo senza un certo grado di insicurezza e angoscia. Trovare un mezzo che permetta di descrivere la realtà che ci circonda con un linguaggio universale e al contempo lontano da stereotipi e strumentalizzazioni politiche è uno dei compiti dell’arte. Anche la poesia assurge a questo compito fondamentale e vi è chi ormai da secoli utilizza questo mezzo come strumento di espressione privilegiato per riaffermare la propria identità, i propri sentimenti ma anche per raccontare in versi esprienze umane come la guerra e la diaspora dei popoli. Con il termine poesia della diaspora viene infatti indicato quell’insieme di opere poetiche prodotte da autori che per motivi diversi, come ad esempio la guerra o le persecuzioni politiche e religiose, sono stati costretti ad abbandonare il loro Paese d’origine. Le tematiche ricorrenti di questo tipo di poesia sono la nostalgia della terra natia, la rabbia e la tristezza per l’esilio forzato, la condizione di rifugiato, la condanna della guerra, ma anche temi classici e universali come ad esempio l’amore.

Uno dei popoli che ha scelto e utilizzato maggiormente questo mezzo di espressione è sicuramente il popolo dell’Afghanistan. Da secoli in Afghanistan la poesia riveste infatti un ruolo centrale nella vita quotidiana del suo popolo; dal contadino alla madre di famiglia, dall’anziano all’adolescente, tutti conoscono a memoria almeno un certo numero di poesie.

Un aneddoto del poeta hazara Reza Mohammadi, riportato in un suo articolo pubblicato sul quotidiano inglese The Guardian,  chiarisce come la poesia in Afghanistan travalica qualsiasi confine etnico, culturale e politico. Racconta Mohammadi: “Circa dieci anni fa, verso la fine della guerra civile ma prima che le bombe americane cominciassero a cadere, venni invitato da un governatore locale, assieme ad altri poeti, nella città di Mazar-e Sharif. Partimmo con l’intenzione di rimanere una settimana ma fummo obbligati a rimanere per due mesi. Tutti i comandanti e i vari signori della guerra locali litigavano tra di loro per avere l’opportunità di ospitarci e avrebbero voluto invitare l’intera città in nostro onore. Una scena che potrebbe accadere solo nei romanzi di Gabriel García Márquez, in Afghanistan è parte della realtà quotidiana”. Da questo semplice racconto non scevro di una certa comicità, risulta evidente l’importanza che la poesia riveste nella coscienza collettiva del popolo dell’Afghanistan.

LEGGI ANCHE:   Atene, con vista su Kabul

Non sorprende perciò che anche nelle tasche di un ragazzino di 13 anni, salito alle cronache per la sua tragica morte avvenuta nel 2008 a Mestre, siano state rinvenute alcune poesie meravigliose. Si chiamava Zaher Rezai e come molti altri assieme a lui, ieri come oggi, fuggiva dalla guerra. Era giunto in Italia dalla Grecia solo per finire schiacciato dal tir sotto il quale si era nascosto per sfuggire ai controlli di frontiera del porto di Venezia. Nelle sue tasche, assieme ad alcuni animaletti di pezza vi era un taccuino nel quale erano scritte a mano alcune poesie d’inestimabile bellezza, poesie di antichi poeti persiani che forse prima di lui avevano loro stessi provato la sofferenza dell’esilio. A Mestre un bosco è stato intolato in sua memoria. Si chiama Bosco Zaher e al suo interno una scultura dell’artista Luigi Gardenal ci ricorda che un giorno visse e morì un ragazzino, fuggito dalla guerra con in tasca solo dei peluche e un taccuino di poesie.

Queste sono alcune delle poesie rinvenute nel suo taccuino:

“Io che sono così assetato e stanco forse non arriverò fino all’acqua del mare.

Non so ancora quale sogno mi riserverà il destino, ma promettimi, Dio,

che non lascerai passare la primavera”

***

“Se un giorno in esilio la morte deciderà di prendesi il mio corpo

Chi si occuperà della mia sepoltura, chi cucirà il mio sudario?

In un luogo alto sia deposta la mia bara

Così che il vento restituisca alla mia Patria il mio profumo” [poesie tradotte da Hamed Mohamad Karim e Francesca Grisot]

È proprio a Zaher Rezai che Basir Ahang, uno degli esponenti contemporanei della poesia della diaspora dell’Afghanistan, dedica una delle sue poesie più belle. Basir Ahang è un giornalista e poeta, rifugiato politico si è occupato di poesia e diritti umani fin dal suo arrivo in Italia. Nel 2014 ha partecipato al Festival Internazionale “Ottobre in Poesia” di Sassari, ottenendo il premio speciale della critica, è stato inoltre invitato a partecipare al Festival Internazionale di Poesia di Medellin in Colombia che si è tenuto a luglio di quest’anno. Una sua raccolta di poesie in italiano dal titolo “Sogni di tregua” è stata pubblicata quest’anno nella collana di poesie “le zanzare” diretta da Andrea Garbin ed edita dalla Gilgamesh Edizioni. Il suo libro è stato presentato sabato 26 settembre alle ore 19:00 da Andrea Garbin, direttore del Festival di Poesia di Mantova, al Teatro Fondamenta Nuove di Venezia. Qui di seguito riproponiamo due sue poesie, una delle quali in memoria di Zaher Rezai.

LEGGI ANCHE:   L’ora più buia: un resoconto in prima persona degli ultimi avvenimenti in Afghanistan

In onore di Zaher Rezai

Venezia è fredda,

stanca delle turbolenze

e delle barche vagabonde del Mediterraneo

Le sue vie piene di manichini alla moda

calcolano con precisione il tempo che vuoto scorre via

Fino all’ultimo suo appuntamento con la nera signora

Da queste parti è sconosciuto ‘AZRAEL

Il divino timore della democrazia inghiotte tutti

All’uomo carico del suo piccolo bagaglio pesa la sua tristezza

Ma il suo mondo è pieno di dignità

Canta, ora, l’inno della notte

Un inno dovuto

Per necessità letto

Per necessità scritto

L’incomunicabile mondo

Con i suoi giorni amari

I capelli appassiti

La mente agitata

I pensieri intristiti

Un colore scuro mi lega gli occhi

Basta silenzio,

I martoriati alberi di Kabul non saranno mai più verdi

Alzati mio caro!

San Marco nella sua grandezza accoglie

I giovani ambasciatori presentatisi al suo cospetto

Una voce a tutti nota invita la gente in via Orlanda

È la morte a parlare

Le gocce di sangue recitano poesie

Bimbo affamato, disertore di guerra

Il mio cuore un aquilone vuol far volare

E su di esso scrivere:

giardiniere, apri le porte del tuo giardino

io non sono un ladro di fiori

Questo momento mi appartiene

Questo momento mi appartiene

per il peregrinaggio e lo sconforto

per tutto ciò che è stato e non è più

LEGGI ANCHE:   Noi, profughi in Grecia abbandonati in balìa del coronavirus

le orme dei miei piedi segnano il tracciato di molti confini

da Kabul a Roma

da Tamerlano a Giulio Cesare

passando per terre che trasudano de Gobineau

questo momento mi appartiene

ed io lo regalo a mia madre

che per tutta la vita ha ricamato i suoi desideri

su scampoli di cotone

solo per permettere a mio padre

di soffiarcisi il naso

per le mie sorelle isolate dal mondo

e per i miei fratelli

che al posto dei libri

senza averne l’intenzione

hanno imbracciato i fucili

questo momento mi appartiene

ed io lo donerò alle lacrime e alle grida

affinché il riflesso e l’eco

sveglino i sordi e ridiano la vista ai ciechi

della mia città

questo momento non mi appartiene più

è tempo di andare

tocca a me raccontare le acque vagabonde

del Mediterraneo

affinché le orme dei miei piedi divengano indelebili

Il libro “sogni di tregua” di Basir Ahang è disponibile anche su Amazon e IBS.


Profilo dell'autore

Redazione

Redazione
Dal 2011 raccontiamo il mondo dal punto di vista degli ultimi.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potresti apprezzare anche

No widgets found. Go to Widget page and add the widget in Offcanvas Sidebar Widget Area.