di Marco Marano
Un edificio ex sede Telecom occupato in via Fioravanti a Bologna. Ottanta famiglie: bambini, giovani, donne, anziani. In tutto circa 280 persone, tra italiani e migranti, accomunati da un unico destino: l’indigenza. Stavano lì dal dicembre scorso, cercando di vivere la loro vita dignitosamente, proprio di fronte al nuovo palazzo che ospita gli uffici amministrativi del Comune.
Erano circa le sette di una mattinata, di fine ottobre, stranamente poco umida per Bologna. Duecento tra poliziotti e carabinieri in tenuta antisommossa circondavano l’abitato per effettuare lo sgombero, così come decretato dal Tribunale del riesame nel marzo scorso. Mentre i blindati chiudevano le strade di accesso i giovani occupanti salivano sul tetto, ostentando la loro protesta, mentre i bambini, che non erano andati a scuola per restare asserragliati con i loro genitori, si affacciavano dalla finestra per assistere a quello che succedeva da basso.
Nel frattempo giovani dei centri sociali confluivano in via Fioravanti come forma di protesta, bloccati da un cordone della polizia. Nel giro di un’ora lanci di oggetti vari verso la polizia creavano qualche tafferuglio, ed un paio di manifestanti restavano leggermente feriti.
Mentre dagli uffici del Comune di fronte l’assessora al Welfare Amelia Frascaroli assisteva allo svolgersi della situazione, e alcuni compagni di classe dei bambini occcupanti, insieme ai loro insegnanti, assistevano all’operazione delle forze dell’ordine, i servizi sociali del comune, insieme alla polizia municipale, avviavano una mediazione con gli occupanti. Ma la giornata si prospettava molto lunga in quella strada di Bologna.
Nel pomeriggio la mediazione sembrava non sortire l’effetto voluto e notizie scoraggianti arrivavano dall’interno del palazzo. Poi la svolta. I servizi sociali del Comune assicuravano una casa a tutti, senza stabilire né i tempi né le modalità, la cosa importante era che da lì dovevano uscire tutti, dopo si sarebbe discussa la situazione.
Sia le famiglie che i singoli venivano evacuati e trasferiti nei dormitori cittadini: lo sgombero voluto dal tribunale veniva reso esecutivo. Le 280 persone che vivevano in stato di indigenza, famiglie, giovani, bambini, anziani, che per sei mesi hanno occupato quello stabile abbandonato di Bologna, sono stati evacuati nei dormitori cittadini, e lo sgombero voluto dal Tribunale è stato reso esecutivo.
La “legalità” dunque è stata garantita. Bologna si è svegliata la mattina seguente più rassicurata, perché le famiglie con bambini e singoli, italiani e migranti, che vivevano dignitosamente in uno stabile occupato, ora potranno tornare alla loro precarietà di sempre. Senza farsi sentire, perché alla città più progressista d’Italia, quella dei funzionari pubblici che vanno a lavoro in Suv, questa storia, diciamolo, ha annoiato non poco.
Quelle famiglie hanno vissuto un’esperienza comunitaria ma “abusiva” straordinaria, proprio davanti al Palazzo del Comune di Liber Paradisus, quel comune che vanta di una “ineluttabile” tradizione di sinistra. Che paradosso! E come stridevano queste realtà contrapposte. Se qualcuno si fosse aggirato tra quegli uffici, avrebbe visto dipendenti e funzionari davvero irritati per quella caciara che arrivava dal tetto dell’ex Telecom o dalle urla dei giovani antagonisti che difendevano le ragioni dei “poveri”.
La “legalità” è stata ristabilita e tutti sono potuti tornare alla loro quotidianità, senza pensare che una città civile, dal respiro internazionale, come Bologna, debba necessariamente trovare delle soluzioni avanzate alle criticità territoriali. Sì perché, forse il punto è proprio questo, sforzarsi di pensare a progettazioni territoriali slegate dalle abitudini culturali sclerotizzate, ma forse anche dalle rendite di posizione del semplice funzionario o dell’alto dirigente del comparto pubblico, è faticoso, è dispendioso, non conviene.
Intanto Bologna, al di là del grande patrimonio pubblico inutilizzato, al di là del fatto che l’Ente che gestisce l’edilizia popolare è in perdita di milioni di euro, e nessuno sa spiegare il perché, non riesce a sfornare una che sia una idea progettuale in linea con le programmazioni delle grandi città europee, che hanno rivitalizzato settori produttivi, quartieri disagiati, hanno creato villaggi eco-sostenibili, hanno valorizzato il modello di comunità legato al co-housing sociale. Certo, qui non siamo a Stoccolma, dove questa estate il sindaco ha deciso di rinunciare alle olimpiadi per destinare quei soldi alla costruzione di edifici per i meno abbienti. Ci mancherebbe, qui siamo in Italia…
Quanto meno però a noi tocca contestualizzare il concetto di legalità. Perché se proprio dobbiamo utilizzare questo termine, le prime ad essere illegali, forse, sono proprio le istituzioni, dato che il diritto al lavoro e alla casa dovrebbero essere garantiti dalla Costituzione italiana. O no?
Certo, il tema del disagio abitativo, negli ultimi anni, ha assunto proporzioni tali da mettere in crisi il concetto stesso di edilizia popolare. Questo è stato possibile anche a Bologna a causa delle disattenzioni da parte delle politiche territoriali locali, che non hanno saputo leggere le trasformazioni prodotte dalla crisi economica e dai processi migratori.
Perché la prospettiva di una soluzione strutturale al disagio abitativo impone l’elaborazione di politiche per la casa in cui il soggetto pubblico assuma un nuovo ruolo di regia, promuovendo un sistema finalizzato a sperimentazioni finora appunto inesplorate, dal momento che la domanda abitativa si combina con altri tipi di richieste: inserimento sociale, ricerca di un lavoro, supporto e assistenza socio-sanitaria alle persone.
Per rispondere in modo adeguato a domande così diversificate vi è la necessità d’interventi di edilizia sociale che tocchino diverse dimensioni e promuovano una serie di azioni che aiutino ad uscire dalla situazione di difficoltà. La vecchia logica degli IACP (Istituti Autonomi Case Popolari) che in ogni città cambiano di denominazione ma non di contenuto, non rispondono più ai bisogni reali e alle trasformazioni in corso.
Non è possibile cioè pensare che la dimensione abitativa non sia collegata alle altre dimensioni della vita sociale, in termini di bisogni primari, secondari e relazionali. Il sistema dei bisogni nel rapporto tra individuo e corpo collettivo oggi, anche in una città come Bologna, trova un sistema di welfare impreparato alla nuova situazione collettiva, per cui i costi sociali restano altissimi ed il comparto pubblico diventa incapace di poterli gestire. Questa deriva amplifica l’isolamento degli individui che devono gestire da soli i costi sociali.
La storia dello sgombero di via Fioravanti è un modello esplicativo della realtà italiana di oggi, costruita sul concetto di assenza di società e di sociale, dove il modello pubblico ha fallito i suoi compiti in un paese ridotto in macerie. Per il semplice fatto che il 10 per cento della popolazione detiene il 56 per cento delle risorse economiche. Questo non è più un modello di società come ce la volevano far passare i padri della civiltà liberale, su cui si reggono le istituzioni rappresentative italiane. Questo è un modello anomico che produce cannibalismo sociale.
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