Wirikuta, il deserto dove l’uomo bianco ruba il sole

di Riccardo Bottazzo

Il sole è nato a Wirikuta. Tanto tempo fa, quando quasi la totalità della terra era coperta dalle acque ed i nostri antenati vivevano in una canoa, il sole bambino si levò dalla collina sacra chiamata Cerro Quemado. Camminò per tutto il giorno e, già grande, si fermò sopra le nostre teste, asciugando il mondo che ha la forma tonda di un peyote. Quindi scese ad Haramara, nel lontano ovest, si trasformò in un serpente e dovette lottare per la sua vita. Vittorioso, salì ancora in cielo da est, soffermandosi in tutti i luoghi in cui gli antichi avevano piantato alberi affinché egli non cadesse. E così il tempo degli dei si tramutò nel giorno e nella notte, affinché il popolo degli uomini potesse vivere.

Così raccontano gli sciamani huicol ai xukuri kate, i “portatori delle ciotole” che si apprestano al lungo pellegrinaggio verso la collina sacra per raccogliere il cactus hikuli, meglio conosciuto da noi come “peyote”. Non importa la strada. Quello che conta è il viaggio. Come recita un antico proverbio huicol, “tutte le strade portano a Wirikuta”. L’importante è andare, rinnovare l’antico patto tra il dio e l’uomo, conoscersi per quello che si è e conoscere il mondo per quello che noi siamo. Perché le credenze, come ha spiegato Lévi-Strauss con la sua scienza del concreto, altro non sono che fatti pragmatici. Wirikuta non è solo un pezzo di deserto nello Stato messicano di San Luis Potosí, ma l’essenza stessa, la ragione di esistere del popolo huicol.

Di tutto questo,  la compagnia mineraria canadese First Majestic Silver vuol fare un bel piazza pulita, con la complicità del governo messicano che ha pensato bene di mettere all’asta una terra che non era sua ma degli huicol.

Non è la prima volta che questo accade nel mondo. In particolare, nell’America latina. In particolare, qui nel deserto di Wirikuta, dove già nel 1600 gli spagnoli, alla ricerca di miniere d’argento, causarono lo sterminio degli indigeni guachichiles. Oggi la storia rischia di ripetersi con altri carnefici e con altre vittime.

“Gli huicol vedono in Wirikuta la propria casa, il cielo, l’universo. Questo luogo è il fondamento stesso del loro divenire materiale e immateriale. A Wirikuta le essenze delle divinità wixaritari si incontrano con la biodiversità. Wirikuta è anche riconosciuto come Luogo Sacro Naturale del popolo huichol. Nell’ottobre 2000 è stato dichiarato Area naturale protetta per il suo grande interesse naturalistico. Purtroppo, come abbiamo visto, questo non ha impedito che diversi governi abbiano concesso licenze minerarie su questo territorio” spiega l’antropologo messicano Arturo Gutiérrez del Ángel, una delle più autorevoli voci che si sono spese contro le concessioni minerarie nel Wirikuta.

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A fianco degli indigeni, sono scesi in campo gli ambientalisti, in nome di un “diritto alla natura” che accomuna popoli antichi e moderni ecologisti che sanno guardare al futuro senza perdere di vista il passato. Il Wirikuta è una delle tre aree semi-desertiche biologicamente più ricche del pianeta; ospita specie endemiche esclusive, e – per quel che vale – è stato dichiarato area protetta anche dall’Unesco. Da sottolineare che la zona minacciata dalle estrazioni minerarie, che poi è quella dove si svolge il pellegrinaggio dei xukuri kate, pur facendo geograficamente parte del deserto di Chihuahua per appena lo 0,28 per cento della sua superficie complessiva, ospita il 50 per cento della flora, l’85 per cento degli uccelli e il 60 per cento  dei mammiferi della regione. Nel territorio sono state riconosciute 453 specie florali, alcune di queste a rischio di estinzione, come il peyote.

Questo paradiso di biodiversità è messo a rischio dall’attività estrattiva canadese che presuppone l’uso di inquinanti chimici, di cave a cielo aperto e di esplosivi. Senza contare l’enorme utilizzo di acqua per la lavorazione del materiale che, in una regione arida come questa, sarebbe sottratta alle coltivazioni e all’ecosistema, con l’effetto di desertificare tutto.

Nel Wirikuta, come in tutto il mondo, la battaglia per l’ambiente è la battaglia per la democrazia.
La Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro sugli indigeni tribali stabilisce che l’organo della consulta è un diritto di tutti i popoli. Lo Stato messicano l’ha adottata ufficialmente nel giugno del 1990. Eppure questo diritto viene sistematicamente negato ogni qual volta si presenta all’orizzonte una “grande opera” che colpisce gli interessi degli indigeni ma che è sostenuta da un potentato economico.

“Perché – si chiede Arturo Gutiérrez del Ángel – negli ultimi anni si concedono indiscriminatamente terre messicane e di altri paesi impoveriti a imprese minerarie soprattutto canadesi? Perché gli Stati, tanto in America Latina quanto in Asia o Africa hanno risposte tanto deboli di fronte a queste imprese? Certo, il denaro e la corruzione sono il lubrificante che permette il movimento di questo meccanismo ma non è questa la sola spiegazione. Il governo federale canadese, nonostante tutti i trattati sui diritti umani che ha sottoscritto, continua ad offrire alle imprese minerarie protezione giuridica ed economica perché non si sentano minacciate da nessun tipo di atti di pressione”.

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Ma c’è anche un altro scenario da considerare. In Messico, come in altri Paesi dell’America latina e dell’Africa, l’attività mineraria era stata parzialmente abbandonata dopo una serie impressionante di fallimenti e di devastazioni ambientali che avevano portato interi popoli che prima campavano con proprie risorse a mendicare negli “slum” delle grandi città. La tendenza si è invertita quando, sul finire degli anni novanta, nel panorama dell’economia globale si è affacciato un nuovo attore: la Cina comunista.

Metalli come lo zinco, l’oro, l’argento, lo stagno, il bronzo, il nichel e il ferro sono indispensabili per la nuova potenza industriale che spinge per riaprire un mercato nel quale i diritti umani contano zero ma al quale i governi più poveri, e più ricattabili, non sanno rinunciare.

Secondo il rapporto 2012 di The Gaya Foundation, tra il 2005 e il 2010 il settore minerario cinese è aumentato del 25 per cento e, nello stesso periodo, sono stati portati avanti 173 progetti minerari in 212 comunità di 16 paesi dell’America latina. Nessuna di loro è stata preventivamente consultata sull’avvio del progetto, alla faccia della Convenzione 169 dell’Onu. 

“In Messico, negli anni ’90 – conclude Arturo Gutiérrez del Ángel – il governo del presidente Ernesto Zedillo ha aperto le porte alle imprese minerarie, offrendo concessioni senza misurare le conseguenze sociali ed economiche che si sarebbero avverate nel futuro. L’aumento in scala dell’estrazione mineraria negli ultimi dieci anni è stato sorprendente e spaventoso. Sappiamo che le imprese minerarie non si auto regolano affatto. Sono gli Stati che dovrebbero avere questo ruolo. E decisioni di questa portata devono sorgere dal consenso emanato da una consulta aperta, trasparente e pubblica, di tutti gli attori coinvolti, in primis, i popoli indigeni. Gli alti livelli del potere federale non possono decidere quello che conviene ai popoli. Gli huicol devono essere gli architetti del loro futuro e hanno l’inviolabile  diritto di conservare la propria tradizione, che dipende sostanzialmente, e non misticamente, da Wirikuta”.


Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.

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