di Darth Nader*
Nel 2015 essere un siriano vuol dire vivere una vera e propria assurdità. Non è vero che il mondo abbia abbandonato i siriani, come spesso si dice. Si è coalizzato contro di loro.
Confini che sembravano essere per sempre abbattuti sono stati costruiti di nuovo. Lo stato-nazione, apparentemente ai suoi ultimi giorni, è riemerso con ambizioni revansciste. Vecchie alleanze politiche tra stati – avanzi della Guerra Fredda – che pensavamo stessero scomparendo, si sono invece solidificate a livelli storicamente mai raggiunti prima, con conseguenze catastrofiche.
Soltanto 5 anni fa le forze estremamente reazionarie dei salafiti si indebolivano, senza esercitare particolare presa sulla popolazione; ora hanno invece aperto negozi in vari villaggi e paesi siriani, mostrando il lato più brutale che conosciamo, finora, come “Stato Islamico”. La linea rossa delle armi chimiche – che nel 2013 ha ucciso centinaia di persone nelle periferie di Damasco – è stata sostituita con una luce verde verso i barili bomba riempiti di esplosivi e sganciati dagli elicotteri su quartieri interi abitati da civili.
Essere un siriano vuol dire ricevere una condanna a morte per il semplice fatto di essere uno sviluppatore di software gratuiti. Essere un siriano vuol dire essere paragonato a “cani rabbiosi” da un candidato alla presidenza Usa. Vuol dire essere accusati per gli attacchi a Parigi e doverne pagare le conseguenze, nonostante non un solo siriano (né un rifugiato) sia stato coinvolto in alcun attacco. Essere un siriano significa correre il rischio di essere una delle migliaia di persone uccise dalla macchina di tortura “su scala industriale” guidata dal governo. Nel 2015, essere un siriano significa poter delineare significative analogie con i rifugiati ebrei nel 1938, o con i cittadini nippo-statunitensi internati durante la Seconda guerra mondiale. Essere siriani vuol dire dover contemporaneamente tenere testa a una dittatura, all’imperialismo, al razzismo, al sistema stato-nazione e alle reazioni islamiste.
Certo, non tutti sperimentiamo queste cose. A parte la retorica al vetriolo contro i siriani in Occidente, sono distante da tutto ciò, per lo meno lo sono fisicamente. Non sono un rifugiato né sono geograficamente vicino al conflitto. Solitamente, la distanza porta benefici. In una lettera del 1931, Walter Benjamin ha scritto: “Sono come uno che, nel mezzo di un naufragio, resta a galla arrampicandosi su un albero che sta per sbriciolarsi; ma almeno da lì ha la possibilità di lanciare un segnale che porti ad essere tratto in salvo”.È così che una volta immaginavo la mia situazione. La distanza mi ha dato l’abilità di trovare vie che altri non potevano vedere. O almeno pensavo. Ma ora non vedo nessuna opportunità per lanciare segnali per richiedere soccorsi. Quella citazione mi dava uno spiraglio di luce nei momenti più bui, ora non riesco a leggerla senza ricordare il modo in cui lo stesso Benjamin morì, senza nessuno che venisse a salvarlo.
Il mondo, nella sua interezza, ha dichiarato guerra ai siriani. E sembra stia congiurando, con ogni arma a disposizione, contro di loro.
*Mi chiamo Nader e sono siriano. Ho trascorso gran parte della mia infanzia a Beirut, ma casa mia è a Homs.
Mi occupo di politica, economia e sociale. Scrivo principalmente di Medio Oriente; prediligo analizzare l’attualità, ma mi diletto anche nel raccontare storie.
Questa frase di Edward Said calza a pennello per descrivere la mia idea di politica:
“Prendo così sul serio le critiche da pensare che, anche in una battaglia dove si è inconfondibilmente da una parte o dall’altra, debbano essere mosse delle critiche; perché se devono esserci questioni e problemi da risolvere, valori e vite per cui combattere, allora deve esserci una coscienza critica. La critica deve ritenersi – per sua costituzione – a favore del miglioramento della vita e contraria a ogni forma di tirannia, di dominazione e di abuso; il suo obiettivo sociale è la conoscenza libera, prodotta nell’interesse della dignità umana.”.
“Per un uomo che non ha più patria, la scrittura diventa un posto dove vivere”. Theodor Adorno
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