Foto e testo di Francesco Rotondo*
Avete mai ascoltato il silenzio? Avete mai ascoltato il vostro cuore, la vostra anima? Io si, o quanto meno ci ho provato. Sono dell’opinione che le emozioni nella vita non nascono a comando, arrivano. Arrivano, si provano, chi è capace riesce a catturarle e metterle da parte per poi utilizzarle come carburante della vita. Le emozioni non si possono comprare come un vestito, una vacanza, una casa o tutto il possibile e immaginabile. Sfuggono a questa logica. L’unica cosa che possiamo fare è quella di creare dei presupposti. Ecco io credo che Pripyat sia un possibile “presupposto”.
Io ci sono stato in quel posto e ho provato ad ascoltare quel silenzio assordante. Mi sono trovato solo con intorno una intera città popolata da 50.000 anime che volevano raccontarmi la loro storia. Io ho provato ad ascoltarle e un poco alla volta quelle strade deserte, con gli alberi cresciuti dall’asfalto, hanno cominciato a popolarsi delle voci dei bambini festanti che rincorrevano un pallone. Ho cominciato a sentire le loro mamme sedute sulle panchine dei parchi che parlavano tra di loro immaginandosi una vita felice. Ho sentito la vita di tutti i giorni scorrere serenamente, dove anche andare a fare la spesa al supermercato era una festa. Ho sentito le risate di giovani che nuotavano felici nella piscina in un giorno di festa cercando i loro primi approcci amorosi con le compagne di classe. Ho sentito il rumore di un pallone di basket rimbalzare sul pavimento in legno della palestra e la voce dell’allenatore richiamare i piccoli giocatori indicandogli il passaggio giusto. Ho sentito il suono melodioso di un pianoforte uscire dalla sala dove si svolgevano gli esami di fine corso degli studenti. Ho sentito il rumore delle automobili pulite, guidate da giovani uomini adulti fieri di essere a capo di una nuova famiglia. Ho sentito lo scorrere della vita di tutti i giorni di un’esistenza semplice. Ho sentito il silenzio della vita normale.
Poi ho sentito da un altoparlante una voce metallica ripetere un annuncio che diceva:
“Attenzione, attenzione! Attenzione, attenzione! Il Consiglio Comunale informa che, a seguito dell’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl, nella città di Pripyat le condizioni dell’atmosfera circostante si stanno rivelando nocive e con alti livelli radioattivi. Al fine di garantire la totale incolumità delle persone, e in primo luogo dei bambini, si rende necessario evacuare temporaneamente i cittadini nei vicini centri abitati della regione di Kiev. A tale scopo, oggi 27 aprile 1986, a partire dalle ore 14, saranno inviati autobus sotto la supervisione della polizia e dei funzionari della città. Si raccomanda di portare con sé i documenti, gli effetti personali strettamente necessari e prodotti alimentari di prima necessità. Si prega di mantenere la calma, l’ordine e la disciplina durante lo svolgimento di questa temporanea evacuazione”.
Cinquantamila persone hanno abbandonato la vita di tutti i giorni, la loro vita di tutti i giorni. Nessuno ha mai fatto ritorno a Pripyat tutto è rimasto immobile a raccontare quello che poteva essere e che non si è mai realizzato.
Io sono riuscito ad ascoltare tutto questo ed è stata un’emozione unica.
Pripyat è la nostra memoria, la rappresentazione di una intera vita.
Entrare in quei luoghi dove il tempo si è interrotto improvvisamente è come entrare nella propria mente. Osservare quei luoghi che dovevano rappresentare il futuro e la felicità delle persone ridotti a delle macerie e come osservare le aspettative non realizzate di una vita. C’è un momento in cui tutti noi immaginiamo il nostro futuro e lo pianificano secondo uno schema che ci promette felicità e serenità. Poi la vita interviene con le sue varianti e tutto pian piano si sgretola fino a ridursi nel tempo a macerie.
Guardare Pripyat è come guardare il time laps della propria vita. In pochi istanti la vediamo scorrere tutta davanti ai nostri occhi rapidamente mostrandoci anche l’evoluzione finale. Dilatare gli effetti di un’esistenza nell’arco di una vita intera aiuta a renderla più sopportabile ma vederla scorrere così rapidamente è scioccante.
Chernobyl non è solo la catastrofe più grande procurata dall’uomo che ha, nel corso degli anni, condannato a morte 6.000.000 di persone. Chernobyl è il nostro incubo perché ci fa sentire incapaci a gestire il nostro destino.
Esisterà sempre da qualche parte un reattore numero 4 che, nutrendosi delle nostre stesse debolezze, finirà per esplodere. Visitare i luoghi di Chernobyl mi ha emozionato perché è stato come visitare i luoghi di una memoria collettiva che appartiene al genere umano. Perché è stato anche un viaggio nella mia personale memoria.
*Francesco Rotondo – Nasce a Roma nell’estate del 1961. Comincia a fotografare all’inizio degli anni ’80 creando in casa una camera oscura per sviluppare le foto prima in bianco e nero e subito dopo a colori attraverso il nuovo processo di stampa positivo-positivo “cibachrome”. Con l’avvento del digitale decide di prendersi una pausa. Ora è tornato a fotografare con passione e continuità. Mette a frutto l’esperienza maturata sulla pellicola per sfruttare al massimo le potenzialità della post produzione. In mente un progetto preciso: restituire dignità a tutto ciò che per un motivo o per un altro è stato abbandonato: luoghi, persone, cose e sentimenti. Un viaggio nella memoria per emozionarsi con quello che poteva essere e che invece non si è mai realizzato. Un viaggio dove i ricordi sono stati abbandonati.
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