di Riccardo Bottazzo
Non è solo la libertà di Omar Nayef Zayed, la posta in gioco a Sofia, ma quella di tutti i rifugiati politici palestinesi in Europa. “Partigiano e combattente” per i sostenitori della causa palestinese, “terrorista e criminale” per l’esercito e il governo israeliano, dal 17 dicembre scorso, Zayed vive assediato nei locali dell’ambasciata palestinese della capitale bulgara. Due giorni prima, il Governo sionista aveva inoltrato una ufficiale richiesta di estradizione ma, poco prima dell’arresto, Zayed era riuscito ad involarsi ed a raggiungere la sua ambasciata.
Oggi, dopo quasi due mesi, Zayed vive ancora assediato nei locali di quella villetta a ridosso della zona universitaria di Sofia, che dal punto di vista del diritto internazionale sono territorio palestinese inviolabile.
Assediato, abbiamo scritto, non soltanto in quanto Zayed non può mettere il naso fuori della porta senza venire ammanettato ed immediatamente imbarcato per Tel Aviv, ma anche perché, per tutto questo tempo, la polizia bulgara non ha consentito l’accesso a nessun avvocato ed a nessun portavoce delle varie associazioni europee che si sono spese a favore della sua causa.
Lo stesso non si può dire per le pressioni esercitate dal governo israeliano tanto sulla Bulgaria, quanto sull’Autorità Palestinese, la cui indipendenza da Israele, come sappiamo, è poco più che formale. “Zayed è una bandiera della Palestina” ha proclamato l’ambasciatore a Sofia, Ahmad Madbouh, ma ha subito aggiunto che, purtroppo, le risoluzioni internazionali vanno rispettate e ha dato alla “bandiera” vari ultimatum – tutti disattesi – perché abbandoni i locali della sua ambasciata. Di diverso avviso il Fronte popolare per la liberazione della Palestina che ha diffidato l’ambasciatore dal mettere alla porta Zayed, ricordandogli che, se cadesse nella mani di Israele, ad attendere l’ex combattente ci sarebbe un futuro di prigionia dura, isolamento e torture.
Ma chi è Omar Nayef Zayed? Esattamente come ha detto l’ambasciatore, Zayed è niente di più e niente di meno che una “bandiera della Palestina”. Un modello al quale molti giovani palestinesi, in particolare quelli legati a movimenti di sinistra e lontani da derive integraliste religiose, si sono ispirati per le loro lotte contro l’occupazione militare israeliana. Nato a Jenin, nel cuore del West Bank, 52 anni fa in una famiglia di combattenti (tanto il padre, quanto la madre che i suoi otto fratelli hanno conosciuto le galere israeliane), nell’86 ha fatto parte di un commando di tre persone che ha ucciso un colono che si era macchiato di atrocità nei confronti dei palestinesi.
Una “azione di guerra” per i palestinesi, un “omicidio a sangue freddo” per i sionisti. Arrestato e condannato all’ergastolo da un tribunale militare assieme ai suoi due compagni, Zayed comincia nel ’94 uno sciopero della fame che lo porta quasi alla tomba. Ricoverato in ospedale, riuscirà a fuggire grazie all’aiuto di altri combattenti palestinesi e dopo aver peregrinato per vari Paesi arabi, riparerà in Bulgaria, dove ha ottenuto lo status di rifugiato politico ed un permesso di soggiorno a vita. Da oltre 20 anni, Zayed vive a Sofia con un lavoro, una moglie e due figli, entrambi con la cittadinanza bulgara. Una vita tranquilla con una famiglia che sarebbe stata applaudita pure al Family Day, se non fosse arrivata la richiesta di estradizione da parte della giustizia israeliana che non gli ha mai perdonato, più che l’attentato, la rocambolesca evasione. I suoi due compagni infatti, sono stati liberati tre anni fa, in virtù di uno scambio di prigionieri con Hamas.
Come abbiamo sottolineato in apertura, non è solo la vita di Omar Zayed, la posta in gioco. In un momento in cui si alza la tensione tra l’Europa e il governo di Netanyahu sull’occupazione e sulla colonizzazione dei Territori, il caso Zayed rischia di venir interpretato come una necessaria contropartita. Già il “via libera” all’estradizione può essere letto sotto questa luce di compensazione. Sa da un lato, l’Europa non può accettare passivamente l’aperta violazione di trattati come quello di Oslo, ai quali essa stessa ha fatto da testimone, dall’altro non vuole rompere con il Governo sionista, seppur colpevole di violare i diritti umani ed internazionali. Israele continua pur sempre, nell’ottica dell’attuale politica europea, ad essere la principale e più affidabile sponda di dialogo dell’altra parte del Mediterraneo. La “bandiera di Palestina” rischia di dover pagare il prezzo di tutto questo. E con lui, tanti altri combattenti palestinesi che nei Paesi europei hanno trovato asilo sotto il protettivo status di rifugiati politici. Il caso Zayed insomma, può rivelarsi un precedente pericoloso. Se la “bandiera” può essere arrestata ed estradata, allora tutti sono in pericolo.
Profilo dell'autore
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Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.
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