di Timothy Raeymaekers per La Macchina Sognante*
Di recente il crocevia culturale sulle sponde del mar Mediterraneo si sta dotando di una nuova terminologia per descrivere gli ultimi sviluppi al suo interno. A spingere questa manifestazione linguistica c’è da un lato la prossimità e l’ibridazione crescente tra culture europee e africane nella musica, nel cinema e nella letteratura nella zona del Mediterraneo e dall’altro certe esperienze di lotta antirazzista e anticapitalista. Dai margini in cui si trovano, tutti questi fattori si rivelano come nodo importante nella realizzazione di una nuova soggettività politica diasporica. In una serie di post sul mio blog Liminal Geographies ho iniziato a descrivere questo crocevia denominandolo Black Mediterranean, o Mediterraneo nero. Le seguenti riflessioni costituiscono un tentativo di collocare questa zona di confine sia nella geografia della subordinazione razziale che gli africani neri in Europa, e particolarmente in Italia, continuano a subire; e sia nell’arena delle mobilitazioni dei migranti contro lo sfruttamento e per una liberazione identitaria.
Almeno in parte il termine Black Mediterranean deve la sua ispirazione al concetto di Black Atlantic di Paul Gilroy. Nel suo famoso omonimo libro del 1983 l’autore nota che il suo interesse per l’Atlantico come sistema culturale e politico è stato ispirato soprattutto dalla matrice socio-economica della schiavitù afro-americana.
Gilroy prende nota di una importante trasfigurazione dell’espressione culturale nera nelle piantagioni dell’epoca schiavista che comincia con il rifiuto di base di accettare il politico come sfera autonoma. Il desiderio fondamentale di una controcultura nera implica “l’invenzione e la realizzazione di nuove modalità di amicizia, felicità e solidarietà che conseguono al superamento dell’oppressione razziale sulla quale hanno fatto affidamento la modernità e il suo paradosso di razionale progresso occidentale, come eccesso di barbarismo”, scrive lo studioso (pp.37-8). Mentre da un lato la piantagione rappresentava una forma di morte sociale (era “il capitalismo messo a nudo,” scrive Orlando Pattern) nel contempo la coscienza stessa dell’oppressione serviva anche a far considerare la violenza causa necessaria dell’emancipazione nera e della protesta aperta.
Le similarità e le differenze rispetto a questa esperienza storica fondamentale della schiavitù afroamericana mi ispirano a lanciare il termine Black Mediterranean come nodo di riflessione più ampia sulla possibilità di una ‘altermodernità’, o la modernità come campo conteso ed eterogeneo – similare a quella che Sandro Mezzadra lanciava nel 2011 in Postcolonial Studies.
Da un lato condivido con Gilroy il senso onnicomprensivo di rottura catastrofica che caratterizza le vite degli africani neri in Europa e particolarmente in Italia in questi giorni – ma simultaneamente metto l’accento sulle esperienze del “middle passage” afroamericano delineate sopra. In sintonia con Gilroy vorrei esplorare la temporalità diasporica che cerca di comprendere la controcultura africana nera negli interstizi dello sviluppo moderno del capitalismo. D’altro canto, però, vorrei collocare queste espressioni culturali nere contemporanee nell’Europa meridionale all’interno del contesto di una lotta più ampia per la legittimità politica. Ispirato al lavoro dello studioso camerunese Achille Mbembe sul ‘governo privato indiretto’, e più specificamente sulla sua osservazione che quando lo stato – il grande ‘ghostwriter’ della nostra vita – perde la sua capacità di regolare e di arbitrare i conflitti che sorgono nella sfera pubblica, la sua crisi di legittimità allude anche a lotte più ampie “che hanno come finalità quella di stabilire nuove forme di dominio legittimo come formule graduali di ristrutturazione di un’autorità costruita su altre fondamenta” (2002:76).
Questo mio approccio devia leggermente dalla lettura del Black Mediterranean proposta da Alessandra di Maio e da altri (vedi per esempio la serie di convegni intitolati Black Italia che sono stati organizzati a Villa La Pietra della New York University nel 2014 e 2015). In uno dei suoi interventi, la studiosa italiana afferma che “il termine si focalizza sulla prossimità che esiste, ed è sempre esistita, tra l’Italia e l’Africa, separate (…) ma anche unite dal Mediterraneo (…) e che è documentata nelle leggende, nei miti, nella storia, perfino nelle tradizioni culinarie, nelle arti visive e nella religione.” Citando vari testi critici recenti, come ad esempio, la trilogia africana del regista Andrea Segre (A sud di Lampedusa, 2006, Come un uomo sulla terra, 2008, Sangue verde, 2011) e 18 Ius Soli del regista ghanese-italiano Fred Kwornu, la di Maio pone l’accento sul crescente scambio tra Africa e Italia che scaturisce dal boom della migrazione e che contraddistingue l’identità culturale non solo italiana ma anche quella di altri paesi del Mediterrraneo. In un contributo per la rivista Social Identities, Esther Sanchez Pardo, per esempio, scrive: “La Spagna, paese storicamente omogeneo e di emigrazione si sta trasformando in un luogo di interazione multiculturale in quanto diventata destinazione di diverse diaspore, molte delle quali con i propri retaggi di colonialismo e razzismo”.
Di Maio e Sanchez Pardo fanno parte di una fiorente letteratura postcoloniale sulle rive settentrionali del Mediterraneo, che cerca di capire questa nuova coscienza ‘Afropean’ che si muove nella zone di confine tra memorie coloniali e nuove lotte post-coloniali. Effettivamente, come scrive Anna Frabetti, si nota una netta evoluzione tra la letteratura diasporica africana dei primi anni 1990 –con titoli come Io venditore di elefanti, di Pap Khouma, Immigrato di Saleh Methani, e La promessa di Hamadi di Moussa Ba, che tipicamente narrano l’esperienza postcoloniale a un pubblico di italiani e scrivendole con l’aiuto di italiani– e le sempre più coscienti (auto-) biografie degli inizi del 21esimo secolo. Libri come Regina di fiori e perle, di Gabriella Ghermandi, pubblicato nel 2007 (che offre la reinterpretazione dell’autrice della lotta coloniale etiope) e Timira (la biografia della figlia di un generale fascista italiano e di una madre somala, scritta dal figlio Antar Mohamed Marincola), e il romanzo Il comandante del fiume, scritto da Ubah Cristina Ali Farah, rappresentano in maniera più attiva le esperienze personali degli autori nel contesto della coesistenza problematica del paese con le sue ex colonie, e confrontandosi con i lettori italiani cercano di uscire dal punto di vista marginale e subalterno[1].
Dopo la letteratura postcoloniale un’altra sorprendente evoluzione è stata la nascita di un’industria del film africano su suolo italiano. Dal momento in cui i registi nigeriani di Nollywood hanno iniziato a essere riconosciuti dall’altra parte del Mediterraneo, hanno fatto da apripista con alcune produzioni degne di nota, scrive Alessandro Jedlowski nel volume da lui curato sull’Italia postcoloniale. Alcune di tali produzioni quali Italian runs, si riducono semplicemente a menzionare l’esperienza di migranti nigeriani in Italia e sono filmati in Nigeria. Ma con la svolta geografica cambiano anche le modalità del racconto dei film Nollywoodiani basati in Italia. Akpegi Boys per esempio, appartiene ai tipici gangster movies di Nollywood, con personaggi violenti che combattono per mantenere il proprio territorio. Questi film continuano a fare riferimento ai meccanismi tipici del genere, come le love story, le soap opera e la Magia nera. In contrapposizione, il film Blinded Devil è stato citato come esempio di “guerrilla cinema” per il suo realismo sociale e impegno. Il cast misto comprende importanti attori italiani come Pif (che ha recitato nel film La mafia uccide solo d’estate ed è ex giornalista di Le Iene) e Vincent Omoigui, il co-fondatore di GVK productions. Andando oltre agli obiettivi di un semplice giallo, Blinded Devil analizza come le politiche di immigrazione italiane effettivamente costruiscono l’illegalità e affronta le modalità spesso di sfida con cui i criminali nigeriani cercano di piegare a proprio favore questi regolamenti discriminatori. A questo riguardo, Jedlkowski scrive che è interessante notare come l’ emergente industria dei film Nollywoodiani in Italia in realtà fornisca una prospettiva davvero originale rispetto ai punti di vista dominanti in Italia sulla marginalità e sull’esotismo, in quanto l’Italia stessa in questi film occupa una posizione marginale rispetto al settore delle pellicole di Nollywood. In seguito all’influenza afroamericana a Napoli dopo la seconda guerra mondiale, la città è diventata il centro della scena musicale e filmica Afro-Mediterranea. Il regista Fred Kuworno, attualmente impegnato nella produzione di un documentario dal titolo Blaxploitation sulla presenza nera nella tradizione filmica italiana, racconta anche altri esempi, meno conosciuti, del cinema black negli anni del dopoguerra in Italia.
Infine, la presenza africana nel Mediterraneo europeo si nota sempre in maniera crescente nella musica. A parte Pino Daniele, che si descriveva “nero a metà” per la grande influenza esercitata dalla musica afroamericana sulla sua produzione, Enzo Avitabile, che ha suonato in molti gruppi africani come Africa Bambaata e Mori Kante, uno dei musicisti che ha più spesso accompagnato Pino Daniele è stato James (‘giamicello’) Senese. Nato nel 1944, figlio di un soldato statunitense nero e di una giovane napoletana, come Pino, anche James era cresciuto nel Rione Sanità di Napoli, cercandosi un equilibrio in una società in cui lo stato era praticamente assente, e la micro-società multiculturale era strangolata da un’abietta povertà e dalla emarginazione urbana, come spiega James in una delle sue poche interviste. Fermandoci ancora a Napoli non si può dimenticare l’enorme ispirazione di Raiz, la cui band Almanegretta non soltanto ha introdotto il club cross-over nella scena musicale italiana (erano una delle poche band che ha suonato insieme a Tricky’s Massive Attack) ma ha anche esercitato una grande influenza sui gruppi rap italiani. Un’altra tendenza che costituisce la fusione della musica tradizionale del sud Italia con i ritmi e gli strumenti africani (principalmente quelli dell’Africa occidentale) è rappresentata da Rocco de Rosa, che ha prodotto diversi CD combinando queste diverse tradizioni musicali (compresa una collaborazione di lungo corso con Martin Kongo). Organizzatore su base annuale di un festival a Castiadas in Sardegna, egli invita i musicisti dell’Africa occidentale a condividere e unire i propri talenti (nel 2014 scorso per esempio è stato invitato il gruppo Chadal, una band sardo-senegalese). Anche grazie a incontri e agli sperimenti di cross over diffusi nel sud Italia, la scena culturale di quella parte del paese si sta rapidamente trasformando in un vivace incontro tra tradizioni culturali situate sulle sponde nord e a sud del Mediterraneo.
L’articolo completo può essere letto su La macchina sognante, una rivista di scritture dal mondo. Ogni settimana Frontiere News pubblica un saggio selezionato dalla redazione de La macchina sognante. Foto di copertina di Melina Piccolo
Timothy Raeymaekers è Lecturer nel Dipartimento di Geografia dell’Università di Zurigo. Ha conseguito un Master in Storia dall’Università di Ghent; un Master in Relazioni Internazionali dalla London School of Economics e il Ph.D in Scienze Politiche dall’Università di Ghent. E’ attualmente nel comitato scientifico della rivista Conflict, Security and Development (Kings College) e dell’ African Borderlands Research Network. Si interessa principalmente alle basi di violenza sottese al dominio politico come pure agli effetti che esse esercitano sugli spazi fisici. Da un iniziale interesse per la guerra tra le frontiere degli stati dell’Africa Centrale agli inizi del ventunesimo secolo, ha gradualmente ampliato la sua ricerca verso questioni che riguardano la dislocazione spaziale, il dominio e la territorialità sia nel sud globale che nel nord. Tra i suoi progetti attuali ci sono ricerche nell’Africa Centrale, particolarmente sull’industria mineraria e le migrazioni forzate, in Europa (sull’asilo, le frontiere e i lavoratori migranti). È a capo del gruppo di ricerca liminal geographies e cura il blog dallo stesso nome.
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