di Marta Bortoli
Federica ha 24 anni, una laurea in biotecnologie. Federica vive all’interno del campo profughi di Calais. Mangia con loro, dorme con loro, condivide i loro problemi. L’unico lusso che sembra concedersi è una doccia settimanale nell’alloggio dei volontari. La incontro in una mattina di sole, ma non di caldo. Il caldo proprio non si sente.
Ci diamo appuntamento nella zona afgana, dove mi raggiunge in compagnia di Jon, un bel ragazzo alto, dai riccioli fitti, un ampio sorriso e un indelebile accento americano. Vorrei farle qualche domanda, ma allo stesso tempo non voglio farle perdere troppo tempo.
Ha la mia stessa età ma una vita molto più frenetica. Le chiedo velocemente perché lo fa. La risposta non mi sorprende: “Volevo conoscere le problematiche del campo personalmente, capire i loro disagi, le loro ragioni e i meccanismi che si instaurano all’interno delle varie comunità. Ne sentivo il bisogno”.
Le chiedo che cosa ne pensano i suoi, prendendo completa consapevolezza della mia identità italiana in un momento “eureka”. Federica si limita a dirmi che i suoi genitori si sono arresi da tempo. Sorride.
Mi invita a seguirla mentre si dedica alle faccende quotidiane che svolge nel campo e acconsento senza esitazione. Forse l’aggettivo “quotidiano” non si addice a queste tipo di giornate, costernate da un continuo tira e molla riguardante l’ordinanza del giudice sugli sgomberi. Sospesa il giorno precedente, rimandata la settimana scorsa ma tristemente effettiva dalla prossima. Il futuro di Calais è ancora incerto ma la distruzione della parte afgana era già data per scontata.
La giornata inizia con un buon tè caldo nella capanna di uno dei personaggi di spicco del campo, comunemente chiamato il “Capo siriano”. L’ uomo, sulla cinquantina, faccia rotonda e baffetto nero, mi accoglie nella sua casetta di legno, sorprendentemente calda e ben isolata. Sicuramente più isolata di quella di Federica e Jon. Sulla mensola piccoli elefantini, tigri ed ippopotami di peluche circondano una foto scattata nel campo, probabilmente qualche mese prima. Mi viene da pensare che sua figlia viva con lui, ma lui nega. Federica mi lancia una frecciatina amara. Sei nella “Giungla”, il nome con la quale viene chiamato il campo profughi, questo è la fauna che si dovrebbe trovare in una giungla, non essere umani.
L’uomo paffuttello mi chiede cosa sia venuta a fare così smetto di fantasticare sul significato di quei pupazzi. La domanda mi spiazza per qualche secondo. La curiosità e il desiderio di fare qualcosa mi avevano spinto ad andare a Calais ad affiancare un turno di volontari, ma la consapevolezza di poter fare ben poco era evidente già dal primo giorno. Mi porge delle fotografie che lo ritraggono con Jeremy Corbyn ed Jude Law ed esclama: “Non preoccuparti, neppure loro hanno saputo darmi una risposta”. Rido, un po’ imbarazzata.
E’ quasi mezzogiorno. Lasciamo la sua casa per avventurarci nella missione del giorno: capire come comportarsi davanti ad un neonato di sette mesi con padre in terra inglese, madre a Bruxelles e attualmente accudito da un uomo non ben identificato, con il supporto dei vicini di casa. Insomma non proprio il classico esempio di famiglia tradizionale.
Federica, che chiaramente non ha nessuna esperienza legale, fa del suo meglio per capire la situazione chiedendo consiglio ad alcune volontarie più esperte. Ma la situazione è complessa, le informazioni sono confuse e nessuno sa bene come comportarsi.
Nel pomeriggio mi imbatto in un altro amico di Federica, conosciuto come il “Dottore”. E’ un ragazzo afghano sulla trentina. Mi parla con un italiano perfetto e mi invita a prendere un altro tè nella sua capanna. Ha un permesso di soggiorno valido per altri tre anni ma dice che in Italia è rimasto disoccupato troppo a lungo. Gli chiedo che programmi ha, Federica ride e mi risponde che tutti nella Giungla hanno lo stesso programma. Andare in Inghilterra. Il problema è come arrivarci.
Le opzioni sembrano essere tre. La prima, la più costosa, è di 10, 000 sterline da pagare alla consegna. Il prezzo però comprende ben cinque tentativi e la sicurezza di un nascondiglio “sicuro”. Con la seconda opzione, per la modica cifra di 5,000 sterline, i tentativi si riducono ad uno soltanto e il nascondiglio nel mezzo non viene assicurato. La terza opzione è la più rischiosa, ma anche la più economica. Un semplice salto dal cavalcavia. Non c’è nessuna sicurezza, non si sa dove si finirà, se si sarà scoperti o se si morirà prima di saperlo. Un salto e via.
Lascio il dottore con la promessa, da parte sua, di non fare stupidaggini. Sono ancora convinta che un lavoro, un lavoro qualsiasi il mio paese glielo possa offrire. Lascio anche Federica e Jon. Sono le cinque e l’ordinanza del giudice è appena arrivata. Si procederà con l’abbattimento nelle prossime 48 ore.
Sono molto dispiaciuta. Nel caos di Calais c’è una piccola comunità che lotta ogni giorno per un futuro migliore, ci sono negozi, ristoranti, hammam. E ci sono Federica e Jon che fanno del loro meglio. Certamente non hanno l’esperienza delle grandi organizzazioni internazionali, né i loro contatti, tantomeno i loro budget.
Ma vedo tanta voglia di fare. In quella melma di Calais c’è ancora chi porta speranza.
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