Il consiglio regionale del Veneto ha recentemente approvato a larghissima maggioranza le modifiche alla legge regionale 11 del 2004, rubricata “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”. Si tratta, però, di qualcosa di più ampio di quanto il titolo suggerisca. La nuova legge stabilisce che i luoghi di culto possano sorgere soltanto in “aree F” (infrastrutture e impianti di interesse pubblico), nella maggior parte dei casi collocati in zone periferiche, e comunque a condizione che dispongano di strade, parcheggi e opere di urbanizzazione adeguate (“con oneri a carico dei richiedenti”), previo accordo col Comune.
Tali limiti non si applicano agli edifici esistenti (ad esempio, alle chiese cattoliche), e sono previste norme speciali per gli ampliamenti e deroghe restrittive per tutti gli “immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone le cui finalità aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa, quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali”.
Completa il quadro, l’indicazione che per le attività “non strettamente connesse alle pratiche rituali del culto” sia d’obbligo l’uso della lingua italiana”, prevedendo anche la facoltà di indire un referendum confermativo.
Dopo la pesante censura della Corte Costituzionale al precedente tentativo lombardo (LR 2/2015), ecco quindi un nuova legge pensata come legislazione di emergenza, di stampo poliziesco, nella quale la percezione dei rischi per l’ordine pubblico è gestita attraverso il controllo preventivo e lo sbarramento.
Ancora una volta i luoghi di culto (non cattolici) sono pregiudizialmente considerati come spazi di aggregazione pericolosa, non come contesti dove esercitare la libertà di coscienza e di religione. Si tratta di un grave equivoco culturale, con pesanti risvolti politici e giuridici.
Diversi sono i punti che segnaliamo con una certa preoccupazione. In primo luogo non si tratta di ignorare come nelle attuali contingenze, la retorica e l’azione di estremisti nei luoghi destinati all’esercizio religioso, rappresentino un problema reale, meritevoli di una reazione immediata e qualificata. Ma una cosa è la restrizione temporanea dell’esercizio di alcuni diritti per reali motivi di ordine pubblico – minacce alla dignità umana e alla sicurezza collettiva – altro è produrre una legislazione strutturalmente vocata al sospetto e alla discriminazione.
Non è forse paradossale considerare come la previsione di nuove procedure e di nuovi requisiti di ordine amministrativo, finanziario e logistico danneggino proprio gli orientamenti religiosi minoritari che per loro natura necessiterebbero di non essere ulteriormente penalizzati, se non di maggiori tutele e opportunità?
In secondo luogo, derubricare i problemi del pluralismo religioso, etnico e culturale a problemi di polizia e/o amministrativi è una scelta miope e pericolosa per ogni società civile.
Nell’attesa di una sempre più urgente legge quadro sulla libertà religiosa – da troppo tempo mancante – il nostro auspicio è che anche la Consulta possa nuovamente intervenire, disponendo questa volta una censura complessiva della legge, che si dimostra essere significativamente in contrasto con le indicazioni degli artt. 2, 3, 8, 19 e 20 della Costituzione.
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