di Alessandra Riccio*
“Il patriarcato, l’estrattivismo, il capitalismo uccidono”. Con queste poche parole Berta Cáceres denunciava le tre piaghe che affliggono la sua e nostra umanità. Le aveva pronunciate a San Francisco, nel 2015, quando era salita sul palco di una sala scintillante per ricevere il Premio Goldman per l’ambientalismo.
Era davvero bella nell’eleganza di un abito semplice, coronata dalla sua chioma ribelle, quei folti capelli neri che sono il vanto di tante donne centroamericane e che ne tradiscono l’origine indigena. Lei apparteneva all’etnia lenca ed era figlia di una “partera”, nipote di “partera”. Veniva dunque da una tradizione familiare in cui le donne amministravano un sapere determinante per la continuazione della specie, guidandole nel momento del parto, ma anche per la vita delle famiglie, per il benessere delle donne a cui erano affidati i figli, e per la custodia delle tradizioni e del territorio.
Quando la sociologa e antropologa italo-messicana Francesca Gargallo, nel 2010, la volle intervistare, Berta la condusse a Intibucá, a casa di sua madre Austraberta Flores, e con lei volle che parlasse. Intendeva dire che la sua battagliera partecipazione alla vita pubblica era l’ultimo anello di una catena fortemente ancorata alla visione del mondo e alla spiritualità lenca. Dopo il suo assassinio, non ci sorprende sentire nelle addolorate dichiarazione dei figli (da tempo messi in salvo fuori dall’Honduras), di Olivia, Berta Isabel e Laura, e dell’unico maschio, Salvador, echi di quella saggezza, di quelle tradizioni e di quella combattività. Per loro e per tutti quelli che conoscevano, lavoravano, lottavano con Berta non vi può essere dubbio sulle finalità politiche del delitto: togliere di mezzo una voce implacabile nella denuncia, tenace nella battaglia, serena di fronte al pericolo.
“The mother of all rivers” è un documentario realizzato da Will Parrinello, traduzione sottotitolata in italiano da Frontiere News e La Macchina Sognante
Pochi mesi dopo il colpo di Stato contro il Presidente Manuel Zelaya, intervenendo all’VIII Taller de Paradigmas Emancipatorios (Avana, sett. 2009), aveva disegnato in maniera concisa ed efficace, la traiettoria che l’aveva portata da una battaglia locale fino a partecipare ad una delle più vitali, urgenti e meritorie crociate del nostro tempo:
“Sono Berta Cáceres e vengo dall’Honduras. Lotto per la giustizia. Credo che sia necessario andare verso l’emancipazione ma verso un’emancipazione che includa tutte le diversità, tutte le battaglie contro-egemoniche e contro ogni forma di dominazione. […] Il mio messaggio è un appello a continuare a sostenere che la causa honduregna non è isolata da quella emisferica globale, pure lei rappresenta le cause di tutti i paesi. Per noi la solidarietà è nutrimento, ossigeno, acqua, terra; nella situazione difficile in cui ci troviamo, sappiamo di essere stati accompagnati e accompagnati dal movimento sociale, dai popoli latinoamericani che lo faranno sempre. […] Sappiamo che la nostra è una dittatura contro l’ALBA, contro i processi di integrazione dei popoli del continente che hanno deciso di camminare verso l’emancipazione. Ora, più che mai, abbiamo capito che è necessario trasformare il nostro paese […] La creatività ha vinto. Il nostro paese è stato reso invisibile. E’ probabile che i mezzi di informazione internazionali si dimenticheranno dell’Honduras. Ma noi sappiamo che questa solidarietà militante, tanto dei nostri popoli che dei movimenti sociali, non ci abbandonerà.”
Nel maggio del 2013 era stata accusata di portare un’arma non dichiarata nella sua auto; per questo dovette affrontare un processo e altri ne affrontò insieme a Tomás Gómez e Aureliano Molina, accusati di incitamento a occupare proprietà altrui e a provocare danni continuati contro le imprese al lavoro per il progetto idroelettrico di Río Blanco. Dal 2006 aveva fondato, con i suoi compagni, il Consiglio Civico delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras (COPINH) ed era riuscita a far ritirare da quella grande opera idroelettrica la potente azienda cinese Sinohydro Corporation, ma dietro a tutti c’era e c’è la Banca Mondiale che non vuole mollare l’osso. E non lo vuole mollare soprattutto l’impresa honduregna DESA (Desarrollo Energético Sociedad Anónima). Proprio la DESA viene indicata da COPINH, da Amnesty Internacional e da tanti altri, come il mandante dell’omicidio. L’uso di sicari e di paramilitari non è nuovo come non è la prima volta che la questione dell’impresa idroelettrica di Río Blanco si prende dei morti: già tre militanti COPINH avevano perso la vita in una battaglia in cui si gioca la sopravvivenza del popolo lenca oltre a quella dell’intero pianeta se continua l’insensato sfruttamento delle risorse naturali.
“Vogliono riempirci di terrore”, aveva detto nel 2013, quando la sua bella faccia con la scritta “RICERCATA” era sui muri del paese, quando aveva denunciato le minacce che l’obbligavano a una vita piena di cautele per sé e per la famiglia, quando si lamentava perché, diceva, “non posso vivere la mia vita come prima, quando andavo in ufficio […] partecipavo pubblicamente alla lotta […] potevo viaggiare e denunciare la situazione […] Mi hanno impedito di andare a nuotare a Río Blanco, che per me è una cosa davvero importante […] perché la cosmovisione del popolo lenca è di condivisione, di cerimonie, di ringraziamenti al fiume e alla terra per quello che ci danno.”
Berta Cáceres ha combattuto contro tre nemici poderosi, l’estrattivismo, quest’ultima perversione per colpa della quale le viscere della natura vengono stravolte e violentate, il capitalismo che idolatra la produttività e ignora tutto il resto, e il patriarcato che ci ha fatto credere che sia la natura a stabilire l’inferiorità e a giustificare l’ingiustizia del predominio degli uni contro le altre. I sicari della DESA hanno operato al loro servizio.
*Alessandra Riccio ha insegnato Letteratura Latinoamericana all’Orientale di Napoli. Corrispondente da Cuba per L’Unità, ha fondato, diretto e co-diretto la rivista “Latinoamerica”. Amministra il blog nostramerica.wordpress.com.
Questo articolo è tratto dal secondo numero de La macchina sognante, una rivista di scritture dal mondo. Ogni settimana Frontiere News pubblica un saggio a cura della rivista. In copertina, un murales realizzato da Javier Espinal, muralista honduregno internazionalista, nella scuola pubblica di La Arada, Santa Barbara, Honduras.
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