Il volto macabro delle Olimpiadi a Rio

di Naomi Westland, Amnesty Int. – traduzione di Martina Morbidini per il Resto del Carlinho utopia

È un evento che, si dice, promuove la pace, ma il suo arrivo in questa città sta marciando verso l’esatto opposto. Migliaia di visitatori percorreranno lo stesso tragitto una volta arrivati nella città conosciuta come Meravigliosa, per le sue spiagge da cartolina e le esuberanti montagne sullo sfondo, ma pochi sapranno cosa accade quotidianamente nelle 600 favelas di Rio mentre i migliori atleti del mondo corrono, saltano e nuotano per la gloria.

Il Brasile ha, in termini assoluti, il maggior numero di omicidi del mondo. Nel 2014, l’anno in cui ha ospitato la Coppa del Mondo di calcio, 60.000 persone sono state uccise. Lo scandalo è che molte di queste morti sono state causate dalle stesse persone che avrebbero dovuto proteggere la popolazione. La sola polizia dello stato di Rio ha ucciso, nel 2014, 580 persone, il 40% in più rispetto all’anno precedente. Nel 2015, il numero è stato ancora maggiore: 645. Di queste morti, 307 sono avvenute nella città stessa e rappresentano il 20% di tutti gli omicidi che vi sono stati commessi. La maggior parte delle vittime sono giovani neri che vivono nelle favelas e in altre comunità povere.

Fino ad ora, nel 2016, il numero dei morti per mano della polizia è del 10% più elevato di quelli commessi nello stesso periodo dell’anno passato. Con il lancio dell’operazione di sicurezza per i Giochi Olimpici, se non esisteranno salvaguardie adeguate, questo numero potrebbero ancora crescere. Nel frattempo, la presenza massiccia nelle strade delle polizie civili e militari e perfino dell’Esercito, sarà per molti brasiliani un ricordo dei giorni bui della dittatura.

 Dall’aeroporto internazionale di Rio de Janeiro, il taxi passa per la frontiera di una immensa favela dove case di mattoni rossi sono allineate in strade strette; i tetti sono incoronati da serbatoi d’acqua azzurri e i panni stesi danzano al vento sotto coperture di alluminio che li proteggono dalle frequenti piogge che trasformano le strade della città in fiumi. Bambini entrano ed escono dalle case correndo come schegge, mentre gli avvoltoi pascolano tra le montagne di spazzatura accumulate ai margini di un fiume.

Dalla radio di un’automobile un DJ trasmette una selezione di canzoni degli anni ’80. Il piano dell’introduzione di “True Colours”, di Cyndi Lauper, riempie l’aria. Girando l’angolo, in cima a una collina distante, il Cristo Redentore, l’iconica statua appare estendendo le braccia sulla città.

Tra cento giorni, Rio diventerà la prima città latino-americana ad ospitare il più grande spettacolo della Terra: i Giochi Olimpici, durante i quali 10.000 atleti competeranno in 28 sport e che costerà milioni di dollari.

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Il complesso di favelas di Maré, situato nelle prossimità dell’aeroporto internazionale di Rio, può apparire a prima vista una favela simile a qualsiasi altra città dell’America Latina. Case in rovina a contendersi lo spazio della strada tra baracchini di banane, papaie, uova e camicie falsificate di squadre di calcio. Ragnatele di fili elettrici sospesi si intrecciano sulle strade, connessi precariamente con la rete elettrica sovraccarica delle case più vicine. I giovani si muovono in moto, i camion passano con difficoltà nelle strette stradine dissestate con carichi che riforniscono bar e mercati, mentre da una finestra aperta si ascolta a volume alto una musica da ballo.

Ma se guardiamo più da vicino, vediamo qualcosa che rende questo luogo sorprendentemente diverso. In quasi tutti gli angoli di questa grande favela, in cui vivono 140.000 persone, c’è un adolescente seduto su una sedia di plastica con un revolver brillante in mano o una mitraglietta al collo, a “proteggere” l’area della propria fazione. Adolescenti che portano armi sono così comuni che i vicini non ci fanno nemmeno caso. L’atmosfera può essere tesa. Molte volte, il ritmo accentuato degli spari è la mortale colonna sonora della vita di qui.

Poco prima della Coppa del Mondo, l’Esercito brasiliano arrivò alla Maré, parcheggiando veicoli blindati nelle sue strade strette e irregolari, e piazzando quasi 3.000 soldati in posti di blocco e pattuglia, per motivi di sicurezza.

La Coppa durò un mese, ma i soldati restarono per un anno. Gli abitanti si ritrovarono stretti tra la violenza delle fazioni del traffico di droga e l’aggressività delle forze di sicurezza. I carri armati si sono ritirati alla fine dello scorso anno, ma con le Olimpiadi alle porte, molti prevedono un loro imminente ritorno.

Vitor Santiago con la madre Irone
Vitor Santiago con la madre Irone

Vitor Santiago, 30 anni, ha vissuto la vita intera alla Maré e, quando in una calda sera di febbraio dello scorso anno promise a sua figlia Beatriz, di 3 anni, che l’avrebbe portata in spiaggia il giorno dopo, aveva assoluta intenzione di mantenere la parola data. Era stato licenziato da poco, per cui aveva il tempo e il denaro ricevuto. E d’estate, a Rio de Janeiro, in piena stagione di carnevale, passare una giornata in spiaggia è ciò che i carioca amano di più. Separato dalla madre di Beatriz, Vitor cercava di passare più tempo possibile con la figlia.

“Ogni lunedì e mercoledì la incontravo dopo il lavoro”, dice Vitor. “E venerdì, andavo a prenderla e la portavo qui [la casa dove lui vive con i suoi genitori] per passare il fine settimana. Facevamo sempre tanti progetti  insieme.”

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Ma prima di andare in spiaggia aveva un appuntamento importante. La sua squadra del cuore, il Flamengo, avrebbe giocato quella sera, e lui avrebbe assistito alla partita con gli amici in un bar vicino casa. Vitor salutò sua madre, Irone; diede un bacio della buonanotte a Beatriz e andò a dai suoi amici.

Le strade della Maré erano abbastanza tranquille, e dopo il fischio finale, il gruppo di Vitor si incamminò verso un bar in un quartiere lì vicino. Di ritorno verso casa, in tarda serata, erano felici; era carnevale e avevano passato una bella serata. Ma quando si avvicinarono alla Maré, videro le strade piene di gente e soldati ad ogni angolo. Un uomo in uniforme dell’esercito gli ordinò di fermare l’auto.

Vitor e i suoi amici si fermarono e scesero dal veicolo. I soldati perquisirono il gruppo e l’auto. Poi li lasciarono passare e loro seguirono il proprio cammino. Ma al momento di girare l’angolo, videro un’altro nutrito posto di blocco dell’esercito più avanti. Ridussero la velocità e i soldati improvvisamente aprirono il fuoco senza alcun preavviso. Vitor cercò di abbassarsi mentre una pioggia di proiettili si abbatteva sull’auto, ma avvertì un dolore lancinante quando un proiettile attraversò lo sportello posteriore del veicolo, lo colpì di lato e lo lasciò con una costola rotta, un polmone perforato e una lesione alla colonna vertebrale.

“In quel momento persi completamente la sensibilità nella parte inferiore del corpo, non sentivo più le mie gambe”, dice. “Se il proiettile fosse entrato un po’ più in alto, sarei rimasto paralizzato dal collo in giù. Nell’auto, tutto ciò che ricordo è il suono dei finestrini frantumati e il non riuscire a capire cosa stesse accadendo. Non sapevo dove ero stato ferito, se il proiettile fosse entrato da dietro o da un altro angolo…c’era molto sangue.” Fuori dall’auto c’era una grande confusione, persone che gridavano e piangevano. Vitor perse e riprese coscienza varie volte e, in seguito, entrò in coma.

Una settimana dopo, quando si risvegliò, Vitor sapeva di essere rimasto vivo per miracolo. I medici avevano indicato una possibilità del 7% di sopravvivenza. Scoprì che un secondo proiettile era entrato nella coscia sinistra, aveva rotto l’osso e raggiunto la gamba destra, perforando un’arteria. Per salvargli la vita, i medici dovettero amputare la gamba. E dato che il primo proiettile lo aveva colpito alla colonna, sapeva che probabilmente non avrebbe mai recuperato la sensibilità nella parte inferiore del corpo.

Irone dice che, tutto sommato, Vitor è forse uno dei fortunati.

Terezinha de Jesus con la foto del figlio Eduardo, 10 anni, ucciso da un poliziotto militare
Terezinha de Jesus con la foto del figlio Eduardo, 10 anni, ucciso da un poliziotto militare

Si è recentemente incontrato con Terezinha de Jesus Ferreira, il cui figlio è stato ucciso dalla polizia a fine aprile dello scorso anno. Eduardo, dieci anni, si era seduto sulla porta di casa a giocare col cellulare, quando un poliziotto gli sparò alla testa. Morì sul colpo. Queste azioni sono così frequenti che difficilmente fanno notizia a Rio de Janeiro.

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“Le nostre vite sono cambiate totalmente, ma almeno Vitor è ancora vivo.”

Vitor passò tre mesi in ospedale. E’ già più di un anno che è bloccato a letto in una piccola stanza senza finestre al primo piano di casa sua. La scala ripida e stretta che conduce alla porta di casa rende impossibile salire e scendere con una sedia a rotelle.

“Ho bisogno di una casa adattata”, dice Vitor. “Vorrei soltanto fare le stesse cose che ogni altra persona può fare. Io non posso andare in cucina e cucinare o aprire il frigorifero per vedere cosa c’è. Dimenticare il passato; io non posso tornare indietro nel tempo e recuperare la gamba. Ma la tecnologia avanza e presto potrei forse perfino recuperare la sensibilità e tornare a camminare.”

Finché ciò non accadrà, un’altra persona dovrà portare la figlia alla spiaggia. Non c’è stata alcuna indagine su quella sparatoria e nessuno è stato accusato, trasmettendo così lo spaventoso messaggio che questo tipo di violenza da parte delle forze di sicurezza sia accettabile, lasciando in libertà i responsabili per permettere che ciò possa accadere di nuovo.

 I Giochi Olimpici sono alle porte, e dietro ai riflettori, allo splendore e alla gloria, questo è ciò che sta succedendo. Se le autorità non prenderanno provvedimenti immediati per evitare queste sparatorie delle forze di sicurezza, ci saranno tanti altri Vitor e Eduardo, e gli organizzatori dei Giochi vedranno il loro evento offuscato dalla violazione di un diritto umano fondamentale: il diritto alla vita.


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