Di seguito presentiamo* alcuni stralci dal libro di memorie di prossima uscita di Giuseppe Lavorato, memoria storica, esponente politico e attivista, coerente e accanito sostenitore della lotta contro la ‘ndrangheta, per i diritti dei lavoratori.
Nella primavera del 1980, giunge la consultazione elettorale per il rinnovo dei consigli regionale e provinciale. La ‘ndrangheta “ripristina contatti con gli alleati politici tradizionali… e, per rafforzare i legami, candida anche propri congiunti.” (Ficoneri)…..; le ‘’recenti sentenze di Locri e della Corte d’Appello di R.C. la tranquillizzano’’(Lacaria).
E diviene più aggressiva, violenta e spavalda. In provincia di Reggio Calabria i pezzi da novanta sono tutti in prima fila nella campagna elettorale: vogliono completare il disegno di penetrazione nel governo della cosa pubblica.
A Rosarno il capomafia Giuseppe Pesce prolunga il suo permesso dal confino per essere presente fino all’ultimo giorno del voto.
I giorni e le notti divengono roventi (non è metafora). I nostri manifesti, freschi di affissione, vengono staccati e riaffissi a testa in giù (preciso segnale di minaccia grave). Ma i nostri comizi non cambiano linguaggio, anzi lo rendono più fermo ed efficace. A quindici giorni dal voto, nella stessa notte, appiccano il fuoco alla mia macchina ed alla sezione del partito. Rispondiamo con una manifestazione pubblica e nel suo intervento Peppe Valarioti grida: ‘’Se pensano di intimidirci si sbagliano. I comunisti non si piegheranno mai’’. È un grido che certamente giunge alle orecchie dei massimi esponenti mafiosi calabresi, convenuti quel giorno in Rosarno per partecipare ai funerali della madre di Giuseppe Pesce.
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Nelle sere successive, per diffondere coraggio, svolgiamo comizi nei quartieri popolari, nei quali le case dei braccianti e di tanta povera gente sono vicine a quelle di boss mafiosi. In quelle piazzette o incroci di strade esponiamo ai cittadini il nostro programma e con parole semplici e chiare ricordiamo ai genitori che voler bene ai propri figli comporta il dovere di proteggerli, impedire che vengano attratti dalle sirene mafiose e finiscano uccisi o in galera.
La ‘ndrangheta fiuta l’umore degli elettori e sente che è diverso da quello dell’anno precedente. Nei giorni del voto, il capomafia si aggira preoccupato e minaccioso anche attorno ai seggi elettorali. Ha un battibecco con un militante comunista. È l’alta tensione nervosa di una campagna elettorale vissuta da entrambe le forze contendenti come vera e propria battaglia campale. Noi la combattemmo con tutta la nostra passione politica e civile, che mobilitava un alto numero di compagni. La ‘ndrangheta la condusse con la violenza, gli attentati, le intimidazioni. Finalmente giunge lo scrutinio delle schede elettorali, che diviene un successo, un esaltante successo del partito comunista ed una sconfitta pesante e cocente della ‘ndrangheta di Rosarno.
Sotto gli occhi dell’intera comunità cittadina, il lungo ed asperrimo braccio di ferro viene vinto dai comunisti.
In molti paesi della provincia le cosche mafiose già festeggiano la loro vittoria elettorale, ma a Rosarno no! Non lo possono fare. A Rosarno festeggiano i nemici pubblici della ‘ndrangheta: i comunisti, i quali, la sera stessa, portano la buona novella nei quartieri popolari con un nutrito corteo di militanti accolti dal saluto, dal sorriso e dall’abbraccio delle numerose persone oneste che vi abitano e, come apprendiamo dopo, dalle parole avvelenate e cariche di odio di famigliari dei boss mafiosi.
La ‘ndrangheta diviene una belva ferita. Sente il pericolo di apparire come una tigre di carta che mostra i denti, ma non morde e viene sconfitta. Si convince che per ripristinare prestigio e comando, non bastano minacce ed attentati, ma serve un atto estremo che incuta terrore. Ed uccide. Uccide con quella tempistica e quelle modalità perché intenzionalmente vuole lasciare la sua firma: per fare capire a tutti che nessuno può permettersi di sfidarla, sconfiggerla e mettere in discussione il dominio che pretende di esercitare sulla comunità di Rosarno e della Piana.
Basta riflettere su un semplice fatto: Peppe Valarioti ogni sera o notte, chiudeva l’auto nel garage di suo cognato e, per raggiungere la propria abitazione, percorreva da solo lunghi tratti di strada isolati e bui, dove sarebbe stato facilissimo colpirlo.
La ‘ndrangheta vuole, di proposito, colpirlo quella notte, mentre è insieme ai suoi compagni, per strozzarci in gola la gioia della vittoria. Vuole che il giorno appresso i cittadini onesti di Rosarno non gioiscano ed acquistino coraggio vedendo in festa una forza politica libera e combattiva, ma la vedano in lutto e piangente per avere osato sfidare la prepotenza mafiosa. Per la ‘ndrangheta rosarnese è insopportabile il pensiero che il giorno successivo, mentre in tanti altri paesi i mafiosi avrebbero festeggiato l’elezione dei loro uomini, a Rosarno, invece, festeggino i comunisti, i nemici che l’avevano sconfitta.
Uccide anche per dimostrare alle altre famiglie mafiose (a quella di Gioia Tauro in particolare) che la ‘ndrangheta di Rosarno continua ad avere i titoli per fare parte del gotha mafioso calabrese e partecipare alla spartizione della grande torta del denaro degli investimenti pubblici.
Gianfranco Manfredi su l’Unità del 2 novembre 1980 scrive che Giuseppe Pesce ‘’nel ‘73 partecipò alla riunione segreta tra i capi mafia calabresi ed i rappresentanti delle ditte appaltatrici di lavori per il quinto centro siderurgico di Gioia Tauro per definire tutta la partita degli appalti e dei subappalti. Il boss conquistò notevole spazio nell’’affare’ e le circostanze saranno tutte accertate dai giudici al processone di Reggio Calabria contro la mafia nel ’78 ; il clan da lui diretto ha finora ricavato dai lavori per lo sbancamento nel porto do Gioia Tauro 280 milioni pagati dalle ditte appaltatrici. I giudici lo condannarono a nove anni di reclusione ma in appello gli vennero più che dimezzati.”
L’appalto più ricco di ogni tempo
Non c’è dubbio che la ‘ndrangheta avesse nel mirino anche la cooperativa Rinascita, come ogni attività produttiva. Però, le stesse dimensioni delle poste in discussione testimoniano che la cooperativa costituiva un interesse secondario a fronte degli investimenti per gli interventi industriali nel territorio provinciale e per la costruzione del porto di Gioia Tauro, il più importante e ricco appalto di ogni tempo indetto nel territorio italiano. L’appalto divenuto il pozzo senza fondo, il bottino dal quale le più grandi famiglie mafiose calabresi hanno lucrato somme immense successivamente investite nei traffici degli stupefacenti.
Ecco l’affresco con cui Giacchino Lauro, collaboratore di giustizia, descrive nel 1992 alla D.D.A. di Reggio Calabria l’impatto degli investimenti pubblici sui maggiori boss della provincia di Reggio Calabria :
‘’Cercate di immaginare il discorso della industrializzazione fatto ai Piromalli, ai Mammoliti, Pesce, Bellocco, Crea, Raso e Lombardo tanto per citare qualcuno della Piana. Oppure pensate ai fratelli De Stefano, ai Libri, agli Araniti, pensate a Ciccio Canale il quale, si disse, fece un salto dalla sedia fino a toccare il lampadario, nel soggiorno della sua villa al mare, sentendo parlare di miliardi che stavano per arrivare. Pensate a Domenico Tripodo e Natale Iamonte, a Natale Iannò e Pietro Pilello (il quale si mise a firmare montagne di cambiali per acquistare automezzi dicendo in giro che presto sarebbe diventato ricco). Pensate ai fratelli Frascati ed ai tanti altri che dalla mattina alla sera si scoprirono autotrasportatori, diventarono impresa quando fino al giorno prima avevano venduto frutta ai mercati generali’’.
L’assassinio di Peppe Valarioti fu il momento più drammatico dello scontro politico-sociale che percorse la Piana di Rosarno-Gioia Tauro negli anni ‘70. Scontro che assunse la dimensione della lotta di massa contro la ‘ndrangheta, che è la sola dimensione che ha la forza per fronteggiare adeguatamente il fenomeno mafioso.
Oggi la mafia si è camorrizzata, dice Leoluca Orlando in una recente intervista, Un tempo era verticale oggi è orizzontale. Oggi è il tempo delle formiche; la lotta alla mafia, per essere efficace, deve diventare lotta di popolo.
Il sindaco di Palermo parla del mutamento dei comportamenti di ‘cosa nostra’. Ed individua nella partecipazione popolare la dimensione che deve assumere la lotta contro la mafia per essere efficace. È un pensiero semplice, chiaro, convincente. Perché Orlando non elabora un’analisi astratta. Legge la realtà che ha sotto gli occhi e ne trae, con intelligenza, le necessarie conseguenze.
La ‘ndrangheta, a differenza di ‘cosa nostra’, è sempre stata un fenomeno orizzontale (dagli anni ‘70 è anche unitario e verticale), molto presente in tutte le pieghe della società calabrese. I vertici sono formati dai capi delle famiglie mafiose, che operano in rapporti di cointeressenza con imprenditori, uomini della politica e delle istituzioni collusi. La manovalanza è fatta, in prevalenza, da giovani dei ceti sociali più disagiati o da giovani sbandati, assoldati inizialmente per piccole imprese e progressivamente impegnati per reati più gravi.
Chi vive nei territori infestati dalla ‘ndrangheta non ha bisogno di elaborare analisi astratte per capire che lo scontro, la contesa tra la democrazia e la ‘ndrangheta si incentra sugli interessi materiali ed avviene nelle teste dei cittadini, in particolare in quelle dei giovani e delle fasce sociali più deboli. Per essere vincente, la lotta democratica deve costruire piattaforme concrete credibili, sul lavoro innanzitutto. Piattaforme capaci di corrispondere ai bisogni dei giovani e delle fasce sociali più povere. E deve farle camminare sulle gambe di persone e di movimenti altrettanto credibili.
*L’ARTICOLO COMPLETO PUÒ ESSERE LETTO SU LA MACCHINA SOGNANTE, UNA RIVISTA DI SCRITTURE DAL MONDO. OGNI SETTIMANA FRONTIERE NEWS PUBBLICA UN ARTICOLO SELEZIONATO DALLA REDAZIONE DE LA MACCHINA SOGNANTE.
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