di Walter Valeri
Nel cinquecentesimo anniversario della creazione del Ghetto di Venezia, per secoli luogo di segregazione, esclusione e sorveglianza, la Compagnia de’ Colombari di New York, in collaborazione con l’Università di Venezia ‘Ca’ Foscari, ha messo in scena un nuovo adattamento del Mercante di Venezia di William Shakespeare diretto da Karin Coonrod. “Da sempre il Ghetto s’è distinto come luogo d’identità culturale cosmopolita. Ed è nel solco di questa tradizione che abbiamo voluto mettere in scena l’opera più controversa di Shakespeare” ha ripetuto Shaul Bassi, ideatore e promotore del progetto, docente di Ca’ Foscari.
Il ghetto di Venezia nei secoli è coinciso con quel particolare fenomeno, spesso contraddittorio definito come espressione della ‘cultura della repressione’ o ‘espressione della diversità’, anche da un punto di vista architettonico diversamente strutturato nella mappa di Venezia. Una traccia luminosa rilevante e concreta del pensiero critico che si oppone al pensiero dominante, alle sue leggi e soprusi; una sorta di convenienza culturale degna di ascolto permanente “svincolata dalla legge del luogo e operante, immobile, nella distanza” come l’ha definita Michel Foucault. “Portare quest’opera di Shakespeare, così controversa, per secoli tacciata di aperta ostilità nei confronti degli ebrei proprio a Venezia, nel cuore del ghetto, è stata una sfida non da poco, sotto tutti i punti di vista. Anche logistico se si pensa che abbiamo costruito un teatro all’aperto che prima non c’era e messo assieme una compagnia internazionale di artisti, musici e teatranti con lingue e culture diverse, provenienti da varie parti del mondo: dagli Stati Uniti, l’India, l’Inghilterra, la Francia, la Romania, l’Italia, ecc. Ognuno col suo bagaglio di conoscenze e personalità. Lo abbiamo fatto per portare qui quest’opera di Shakespeare, a detta di tutti una fra le più complesse e sofisticate congiuntamente alla volontà di aggiornarla”.
Verificare e ribadire le qualità di un testo teatrale, in grado di attraversare secoli e pregiudizi spesso infondati per arrivare sino ai giorni nostri è il sogno e quindi compito di ogni regista e drammaturgo che si rispetti. Un regista e un drammaturgo che non sognino a partire dagli incubi del loro secolo, finiranno ben presto fra le braccia di un turismo teatrale degno di noia. Il Mercante di Venezia è un’opera ancora viva e piena di interrogativi a cui è bene dare delle risposte. Shakespeare non sapeva dell’esistenza del ghetto quando scrisse il Mercante. La prima edizione a stampa risale al 1600 e, a detta degli storici, la prima rappresentazione “è possibile risalga al periodo immediatamente posteriore il 7 giugno 1594, giorno in cui fu pubblicamente giustiziato Roderigo Lopez”, ebreo portoghese convertito al protestantesimo, medico personale di Elisabetta accusato di aver cercato di avvelenarla. Se la cronaca di quei giorni è stata la committenza immediata di questo testo di Shakespeare che sta a metà tra la commedia e la tragedia, all’autore non mancavano esempi di antisemitismo depositati nelle radici della letteratura e del teatro inglese. Dalle sacre rappresentazioni che già sin dal 1200 si prodigavano a far circolare un’immagine di convenienza persecutoria degli ebrei come esseri sadici e demoniaci sino all’ Ebreo di Malta di Christopher Marlowe, di poco precedente al Mercante e di cui Shakespeare aveva sicura conoscenza.
Oggi sappiamo che una lettura innocente e inconsapevole del Mercante di Venezia di Shakespeare è praticamente impossibile, troppo se n’è scritto, parlato e speculato. In ciò la sua necessaria e straordinaria possibilità di aggiornamento. Stephen Greenblath, docente di Harvard e autorevole studioso dell’opera di Shakespeare scrive giustamente, “Il Mercante di Venezia è complicato perché Shakespeare è un autore di teatro complicato. Non è un documento sui diritti umani. Non è il riassunto caldo e/o sentimentale delle relazioni fra gli individui di diversa appartenenza sociale, ma è una incredibile interessante esplorazione delle radici della xenofobia”.
Questo nuovo adattamento, che inizia con una scena non prevista dal testo originale, vede in scena Lancilloto, stupendamente interpretato da Francesca Sarah Toich, con la maschera di Ruzante realizzata da Donato Sartori e termina con Jessica che abbandonerà la scena alla fine per prenderne coscienza, si distingue per sintesi e interpretazioni registiche firmate da Karin Coonrod con lucidità e maestria non comuni.
Più che negli abbondanti tagli e modifiche al testo, chiaramente riconoscibili, nei costumi impressionanti per leggerezza e intelligente interpretazione dei vari personaggi di Stefano Nicolao, o nelle scene fatte di suoni e luci di Peter Ksander e Andrea Santini in grado di inglobare nello spettacolo l’intero ghetto, con le musiche di Frank London ispirate a Corelli, Bartok e Nino Rota e sonorità percussiva del Teatro NO, eseguite dallo stesso London assieme ad una piccola e affascinante orchestrina tenuta in scena per tutto lo spettacolo, fra cui spiccano le violiniste rumene Alexandra Stoica e Nikole Stoica con Serena Mancuso al violoncello, Marcello Benetti alle percussioni e Paul Vasile alla fisarmonica, la sfida si gioca sempre e ancora una volta tra le battute di ogni singolo personaggio, tra le parole dall’attore o dall’attrice che ridanno anima e vita alla trama originale, le idee che esprimono e l’immaginazione di chi li ascolta, vale a dire: l’insieme e susseguirsi di parole e musica, luci e movimenti che la Compagnia De’ Colombari ha creato per il pubblico del Ghetto di Venezia. Si capisce subito che questa nuova messa in scena del Mercante è frutto di un lavoro paziente, per il ritmo drammatico complessivo attento e meticoloso, fatto di testo e sotto testo, citazioni e micro-tradimenti linguistici.
Il Mercante di Venezia torna ad essere attuale, immediatamente credibile nell’era del digitale; nell’epoca della trasversalità dei generi dove la mortificazione della parola espressiva è connaturata alla nostra quotidianità, come una catastrofe che si abbatte sul nostro conversare e parlare fra noi, con gli altri e quindi anche in scena. L’accurata sonorità ed effervescenza descrittiva della scrittura di Shakespeare vuole e deve sopravvivere all’ostilità del chiacchiericcio che ci circonda e ammutolisce. Anche se deve venire a patti e trovare una mediazione accettabile con l’universo del ‘vedere’ più che con quello dell’ ‘ascoltare’. Studi recenti sulla natura e questione della lingua inglese del XVI secolo, secolo di cui Shakespeare era ed è testimone e campione assoluto, hanno dimostrato che anche “scrivere in quel periodo non era isolato dal suono e dal movimento del corpo “[…] perché sia gli scrittori che gli autori di teatro condividevano la preoccupazione di rigenerare il linguaggio con gesti e suoni della voce appropriati.” Il Mercante, oggi, deve venire a patti con la globalizzazione di milioni di immagini prodotte per strada ad ogni ora del giorno, poi accompagnate dalla loro martellante moltiplicazione virtuale.
Tutto questo per dire che mettere in scena il Mercante di Venezia, oggi più che mai, significa partire da un testo terribilmente ben scritto per un pubblico di ascoltatori e oggi rivolto ad un pubblico di spettatori. Un capolavoro iscritto allo Stationers’ Register di Londra del luglio 1598, per impedirne la pubblicazioni pirata. A questo scoglio vanno aggiunte le tante incertezze, speranze e buone intenzioni, che ci hanno accompagnato mentre tentavamo di spiegare a noi stessi e agli altri ‘come’ e ‘perché’ quest’opera associata sin da subito al personaggio di Shylock, alla sua mitologia, catturasse ancora pienamente la nostra attenzione. Ecco perché abbiamo sin da subito desiderato una trasformazione radicale. Ci siamo sentiti il dovere quasi naturale di compiere un’eresia drammaturgica, di trasferirlo nel corpo di cinque attori, farlo uscire dall’unicità della sua pelle per sottolineare che Shylock siamo noi, ognuno di noi: un personaggio emblematicamente infelice, espropriato della sua dignità, perseguitato ed escluso ma trasversale ad ogni genere o credo religioso, terribilmente complesso e affascinante, croce e delizia di ogni spettatore e ogni drammaturgo. Insopportabile nelle battute iniziali, quando rivolgendosi al pubblico dice apertamente: “ lo odio perché è un cristiano; ma ancora di più perché nella sua sciocca semplicità, presta il denaro gratis e fa abbassare, qui da noi in Venezia, il tasso dell’interesse”; ma poi straziante quando ricorda ai suoi incalliti persecutori: “ Non ha forse occhi un ebreo? Non ha mani, organi, membra, sensi, affetti e passioni? ” Ancora oggi Shylock ci chiede e chiede a sé stesso di essere definito come vittima, aldilà della sua dolorosa e personale vicenda. Non è più l’assemblaggio e trasposizione teatrale della becera iconografia antisemita che ha avuto origine nel mondo cristiano con la medievale Narratio Legendaria del 1320, ma l’universale il precipitato doloroso dell’esistere in una società dominata dal commercio, unicamente dal denaro e dal suo potere. Più che un episodio di crudeltà da palcoscenico, è l’ennesimo atto di intolleranza e fraudolenza contro di sé e contro gli altri. Com’è nel segno dei nostri tempi, appunto.
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