di graziana solano
Mentre il centro Agorà di Catania lavora per la promozione della salute della popolazione immigrata, nomade e senza fissa dimora, in città, gli alberi di limone costeggiano le strade trafficate e forse dovremmo chiederci più spesso che sapore abbia quell’isola per chi vi intravede una terra promessa.
La responsabile della sede catanese dell’associazione “Penelope” si chiama Oriana e per anni ha svolto il Servizio Civile. “Penelope è un’associazione di volontariato interna al centro; io qui a Catania faccio l’operatrice insieme ad altri quattro”. Mi dice che Messina accoglie un’altra sede e che la mole di lavoro è tanta.
Mi indica dieci grandi carpette stracolme: “Adesso siamo all’undicesima. Lì dentro ci sono le 2.300 persone che abbiamo accolto nella nostra associazione”. Oriana mi parla di Penelope per venti minuti: “Ci occupiamo di mediazione lavorativa, abitativa, assistenza legale, sociale, sanitaria”, mi spiega poi che in ambito di immigrazione lavorano con le vittime di tratta, tra cui si trovano minori non accompagnati, dicendomi che “sempre più spesso arrivano bambine di sedici anni o meno, spesso vendute dalla famiglia, venute in Europa per lavorare e invece si ritrovano a prostituirsi col peso di un rito ju ju che non riescono a scrollarsi di dosso. E sai, quando le guardi e non ti parlano…”.
Guarda altrove e poi riprende: “Lo psichiatra Virgilio è di grande aiuto, così come l’ambulatorio ginecologico. E sì, la Procura di Catania sta assicurando più arresti per sfruttamento a scopi sessuali, ma resta una goccia nel mare”. Alla fine Oriana mi saluta dicendomi che l’intercultura può esistere e di essere fiduciosa.
Nello stesso pomeriggio incontro il dottor Virgilio. Scopro che quella struttura psichiatrica transculturale è l’unica in tutta la Sicilia, sebbene sia la regione di accoglienza che ne abbia maggior bisogno. “Nel resto d’Italia siamo in pochi a lavorare in quest’ambito; spesso appoggio anche il C.A.R.A di Mineo. C’è solo un collega di Caltagirone che si sta formando nel mio campo. Nessun altro”. Eppure si parla di una figura fondamentale per una vittima di tratta. Non c’è vita sana se non c’è sanità mentale.
Quando ho chiesto al dottor Virgilio quale fosse l’esperienza più drammatica che presentassero i suoi pazienti, lui mi ha risposto la Libia: “Viene raccontato come un luogo terribile”, ogni persona che abbia attraversato la Libia vive una dimensione drammatica dell’attraversamento: le donne quasi sistematicamente vengono stuprate, vessate e trafficate; anche quelle non trafficate per la tratta vengono abusate.
Gli uomini sono schiavizzati e rilasciati solo dopo averli spremuti. In tali circostanze mi dice che l’approccio è etno-psichiatrico: “le problematiche sono complesse e qui al centro diamo anche la possibilità alla persona che arriva di poter essere ascoltata e aiutata”. Mi spiega come ogni suo paziente abbia enormi potenzialità, come “la forza per superare un’esperienza terribile è una risorsa del futuro”, e che per dare un aiuto concreto non bisogna tentare di scoprire i loro segreti, ma di rispettarli. “Per me quello che mi dicono è la verità, o la loro verità, o la verità con cui vogliono confrontarsi in un mondo nuovo. Su questo si fonda una relazione”.
Ripenso a Khan, a quale tipo di verità appartenesse la sua “vita bellissima” in Pakistan. Lo avevo incontrato in sala d’attesa, prima di parlare con il dottor Virgilio. Khan viene dal Pakistan e ha 35 anni. “La mia vita era bellissima prima. Avevo anche un negozio, ma i miei affari sono stati rovinati e appena ho finito la scuola mio padre è morto. Mio fratello è morto”. La madre è andata via molto tempo prima. Ripensando al fratello, un velo inumidisce gli occhi di Khan. Vive a Catania da quindici mesi; scandisce quel numero come se avesse contato ogni singolo minuto. Torna con lo sguardo sui miei occhi e in quelle lacrime che stentano a cadere rivedo l’amaro sapore di una speranza bugiarda.
Mi chiede aiuto, in silenzio, fissandomi, e non gli importa che io voglia scrivere di lui: “La mia vita non cambia così, decidi tu cosa scrivere, perché la mia è una triste storia”. Mi racconta che così è troppo difficile: “non ho una casa, un bagno per lavarmi, per radermi. Non ci sono più letti per me, né un lavoro; e credimi, quando ti ritrovi a dormire davanti a una stazione del paese che hai sognato, accetti qualsiasi lavoro”. Da giorni zoppica, va al centro per questo: lì può usufruire delle cure seppur sprovvisto di documenti. In certi casi si rilascia il codice STP per dare diritto a cure essenziali allo “Straniero Temporaneamente Presente”. Ma non basta. Ci sediamo su una panca e Khan mi parla di quel centro come la sua casa; dei medici e dei volontari dell’associazione come i suoi amici, la sua famiglia. Al solo lontano pensiero di una sua famiglia futura, i suoi occhi si accendono di luce. Un raggio di sole che a mezz’aria svanisce.
Ma di storie da raccontare ce ne sono tante: quella dei due fratelli inseparabili scappati insieme dal loro Paese, ma che rischiano di essere allontanati perché uno è diventato maggiorenne. “Sarebbe una scelta deleteria. Stiamo facendo di tutto perché questo non accada. Quei due sono un’unica persona e continuare a stare insieme gli permetterebbe di aiutarsi a vicenda, crescendo”, aggiunge lo psichiatra. C’è poi la storia dell’uomo senegalese costretto ad andare via dagli Stati Uniti per delle gravi ripercussioni psicologiche post-traumatiche e che adesso è lì, in sala d’attesa per un colloquio con lo psichiatra. E come lui ne ha bisogno Khan, e le donne vittime del rito ju ju, e i sopravvissuti dei naufragi, e altri mille, duemila.
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