Anche l’Arabia Saudita ha il suo Trump

Il cosiddetto muslim-ban emesso da Donald Trump sembra aver fornito uno spunto ai suoi alleati. L’Arabia Saudita sta infatti lavorando ad un provvedimento per imporre una procedura investigativa da effettuare a priori prima di concedere l’ingresso a cittadini del Pakistan. Un filtro che segue il triste record di deportazioni di cittadini pakistani: negli ultimi quattro mesi, il Regno dell’Arabia Saudita ha infatti ordinato l’espulsione di circa 40mila lavoratori pakistani.

Come riportato da Saudi Gazette, le decine di migliaia di lavoratori stranieri sono state deportate a causa di visti scaduti e non meglio specificati motivi di sicurezza. Diversi pakistani sono stati espulsi perché accusati di traffico di droga, contraffazione e furto; sembrerebbe però che il governo saudita sospetti che i lavoratori espulsi abbiano legami con il sedicente Stato Islamico e con altri gruppi jihadisti.

Un fatto innegabile è che le deportazioni di massa siano avvenute dopo un anno di scioperi, dovuti ai salari non pagati in seguito al declino del mercato del petrolio e alla conseguente discesa dell’economia saudita.

Come riportato dal Guardian e denunciato più volte da Human Rights Watch e altre organizzazioni per i diritti umani, nel regno saudita la deportazione di massa di lavoratori stranieri (spesso in seguito a torture e maltrattamenti) è tristemente comune.


GUARDA L’INFOGRAFICA: LE DIFFERENZE (?) TRA ARABIA SAUDITA E STATO ISLAMICO


Nel rapporto che Amnesty International ha stilato nel 2016 sul regno saudita, si legge: “Le autorità hanno continuato a incarcerare difensori dei diritti umani, arrestandoli e processandoli in base alla legislazione antiterrorismo e ad altre leggi … Le autorità hanno applicato la legge antiterrorismo del 2014 per arrestare e perseguire attivisti pacifici e difensori dei diritti umani, così come persone accusate di opposizione violenta al governo … Le autorità hanno pubblicamente dissuaso i cittadini dall’aderire o contribuire con fondi o fornire altro sostegno ai gruppi militanti sunniti attivi in Siria e Iraq e hanno arrestato sospetti membri di gruppi armati. Il 18 luglio, il ministero dell’Interno ha dichiarato che ‘durante le ultime settimane’, le autorità avevano arrestato 431 persone sospettate di appartenenza all’Is, ma non ha precisato quali fossero le imputazioni specifiche, i reati o le leggi per i quali erano stati incarcerati“.

 

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Sono oltre 9 milioni i migranti che lavorano nel regno saudita, costituendo più della metà della sua forza lavoro.

Il sistema della kafala (sponsorizzazione) lega indissolubilmente i permessi di residenza dei lavoratori migranti ai datori di lavoro che fungono da “sponsor”, il cui consenso scritto è indispensabile se i lavoratori vogliono cambiare datore di lavoro o se vogliono lasciare il paese legalmente.

Sono frequenti i casi in cui i datori confiscano passaporti e si rifiutano di concedere gli stipendi, obbligando i migranti a lavorare al loro servizio contro la propria volontà, come moderni schiavi. I lavoratori che abbandonano il posto di lavoro senza l’autorizzazione del capo possono essere denunciati per “latitanza” e rischiare la prigione e la deportazione. Un sistema che spinge i lavoratori in una trappola fatta di abusi e lavoro forzato.

L’Arabia Saudita inoltre non è firmataria della Convenzione del Rifugiato del 1951 e non ha fatto proprio alcun sistema di asilo. Chi teme che il rimpatrio equivalga a un rischio per la propria incolumità, si vede necessariamente costretto ad accettare le dure condizioni di lavoro in terra saudita, pur di evitare la deportazione.

Negli scorsi anni centinaia di migliaia di cittadini filippini e indiani sono dovuti tornare in patria in seguito a licenziamenti di massa; ma il caso dei lavoratori pakistani, riporta il New Arab, è dovuto principalmente a problemi di terrorismo e sicurezza interna.

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Diversi politici sauditi di spicco, tra cui Abdullah al-Sadoun (presidente della commissione Sicurezza del Consiglio della Shura), hanno chiesto controlli più severi nei confronti di cittadini pakistani prima di autorizzare l’ingresso nel paese.

“Il Pakistan stesso è devastato dal terrorismo, a causa della sua vicinanza con l’Afghanistan. Lo stesso movimento estremista talebano è nato in Pakistan”, ha dichiarato al-Sadoun.

Come dichiarato da Nafithat Tawasul, portavoce del Ministero degli Interni, in Arabia Saudita sono circa 80 i cittadini pakistani attualmente in carcere perché accusati di terrorismo o di reati relativi alla sicurezza.

Da Islamabad il Ministero degli Esteri pakistano ha fatto sapere, per bocca del portavoce Nafees Zakaria, che i numeri diffusi dai media sono esagerati e che la maggior parte dei pakistani incarcerati si trovano nelle prigioni saudite perché hanno violato le leggi locali, arrivando addirittura a elogiare il regno saudita perché “solitamente deporta i criminali a spese proprie“.

Con l’audacia di un agnellino, il portavoce pakistano non ha detto nulla sulle migliaia di suoi connazionali sottopagati e sfruttati dai datori sauditi, se non che “nessuno dei pakistani in tale situazione è stato deportato”.

La cooperazione tra Pakistan e Arabia Saudita sembra essere molto forte. E non soltanto a livello giuridico e in materia di sicurezza e anti-terrorismo.

Il Pakistan mantiene infatti degli strettissimi legami militari con il regno della famiglia saudita, al cui esercito fornisce ampio supporto logistico, armi e addestramento. Nel 2016, l’Arabia Saudita è stata la maggiore importatrice di armi made in Pakistan.


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Profilo dell'autore

Valerio Evangelista

Valerio Evangelista
Dal suo Abruzzo ha ereditato la giusta unione tra indole marinara e spirito montanaro. Su Frontiere, di cui è co-fondatore, scrive di diritti umani e religioni.

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