Noi, ebrei libanesi alla ricerca di un’identità

Nella narrazione della complessa storia del popolo ebraico, raramente si fa riferimento alla diaspora dei libanesi di religione ebraica.

Presente in Libano da migliaia di anni (in alcune versioni della Bibbia si fa riferimento al fatto che Gesù avrebbe soggiornato nei pressi del monte Hermon e di Qana), questa comunità contava circa 24mila membri dopo la seconda guerra mondiale. Quando l’organizzazione sionista Yishuv chiese dei fondi, gli ebrei del Libano rifiutarono ogni loro approccio, dimostrandosi tendenzialmente contrari alla creazione dello Stato di Israele, come ricorda la storica Kirsten Schulze. Il Libano fu inoltre l’unico stato arabo in cui, in seguito alla fondazione di Israele, la popolazione ebraica aumentò, invece di diminuire.

Fortemente integrati nella società e non sentendo alcun bisogno di abbandonare la madrepatria, gli ebrei libanesi iniziarono ad emigrare in massa dopo la guerra civile del 1975 e soprattutto dopo l’invasione israeliana del Libano nel 1982. Attualmente la comunità ebraica libanese conta poche decine di membri.

La diaspora dei libanesi di fede ebraica è il tema di “From Brooklyn to Beirut” – un documentario di 30 minuti della videomaker libanese Rola Khayyat. Trasferitasi a New York per proseguire i propri studi, Rola è entrata in contatto con molti ebrei libanesi, decidendo di dare voce alle loro storie. A Frontiere News ha raccontato alcuni aspetti particolarmente interessanti di una minoranza che, “sebbene sia così sparuta, sta preservando la cultura di un’intera nazione, anche nei più piccoli dettagli”.

Qual era la percezione dell’ebraismo in Libano prima dei grandi flussi emigratori?

Io sono nata nel 1982, in un periodo molto particolare per la storia del Libano. La guerra mossa da Israele ha politicizzato i nostri rapporti con l’ebraismo, ma c’è stata da sempre la consapevolezza della ricchezza unica della comunità ebraica libanese. Alcuni parlano di convivenza secolare, ma io parlerei più di radicata consapevolezza delle reciproche differenze.

La comunità internazionale, a seguito dell’invasione israeliana, sembra aver dimenticato l’esistenza di una comunità ebraica in Libano. Ma, sebbene sia molto piccola, è ancora presente. E viva. Una quindicina di anni fa il principale cimitero ebraico nel Paese era quasi abbandonato a se stesso, ma oggi è rinnovato e ben mantenuto. C’è una sinagoga attiva, seppur in fase di restauro. E ovunque, qui e lì, ci sono dei rimandi all’identità ebraica.

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E la nuova vita statunitense ha riacceso in te l’idea di conoscere più a fondo questa minoranza…

Nel 2014 mi sono trasferita a New York, per continuare lì i miei studi. All’inizio vivevo nella zona di Ocean Parkway, e ho subito notato una presenza cospicua di immigrati libanesi e siriani di fede ebraica. Anche diversi miei colleghi appartenevano a quella comunità. È stato così che ho iniziato a maturare l’idea di far conoscere le storie di una delle diaspore meno raccontate.

Com’è stato recepito il tuo progetto?

Non essendo ebrea, non sapevo come sarebbe stato accolto il mio interesse per questa comunità. Non sapevo come sarei stata accolta. Un aspetto straordinario delle persone che ho incontrato è che, essendo emigrati prima che la guerra (e soprattutto il post-guerra) annacquassero la cultura libanese, hanno portato con loro un patrimonio culturale che forse oggi non esiste più. O almeno, non è rimasto allo stesso modo. È meraviglioso pensare come una minoranza così sparuta stia preservando la cultura di un’intera nazione, anche nei più piccoli dettagli. Pur vivendo in America parlano un arabo puro, meno contaminato da americanismi vari. E cucinano anche meglio di me, che sono cresciuta a Beirut!

Quella degli ebrei libanesi a New York è una comunità tendenzialmente chiusa. Una delle persone che mi ha accolto con più apertura è stato Raymond Sasson, uno dei narratori principali del film. Sono stata ben accolta anche da Elie Abadie, il rabbino della sinagoga libanese di New York.

È una comunità che fa risalire le proprie origini addirittura all’epoca pre-biblica. È triste notare che il sionismo abbia stravolto la comprensione che la comunità internazionale ha di questa minoranza.

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Sorgerebbe spontanea la domanda sull’identità. Come ci si definisce? Come si sono definiti, con te?

Bisogna riflettere sul rapporto tra fede, nazionalità ed etnia. È importante rimarcare il fatto che l’ebraismo sia una religione, e non una nazionalità. Il rabbino non ha avuto alcuna esitazione: “Sono prima di tutto un libanese. Il mio libro sacro è la Torah e adoro l’Iddio della Torah. Sono quindi un libanese di fede ebraica. Anche se a me piace definirmi un ebreo che ama alla follia il tabbouleh!”

“Probabilmente alcuni miei parenti”, continua il rabbino, vivono in Israele. Sono scelte loro, personali. Ma a me non interessa la politica, voglio vivere la mia fede dove mi trovo”.

La madre di Raymond, che parla fluentemente arabo e francese, un giorno stava andando a Tel Aviv per visitare dei parenti. Sull’aereo le si è rivolta una signora, parlando a lei in ebraico moderno. Una logorroica. Ma la madre di Raymond poté capire solo qualche parola. La donna iniziò allora a sfoggiare il proprio yiddish. Ma ancora le due non poterono comunicare in modo appropriato. Senza pensarci due volte, le fece una domanda agghiacciante: sei sicura di essere ebrea? Come puoi essere ebrea e non parlare né l’ebraico, né l’yiddish? Probabilmente quella donna sarebbe rimasta sorpresa, e forse addirittura delusa, nel constatare che essere arabi non è una religione, e che la sua compagna di viaggio adorasse Allah, parola araba (letteralmente, “il Dio”) che nella Torah in lingua araba designa, appunto, il Dio adorato da ebraismo, cristianesimo e Islam.

La politica ha imbastardito la religione, rendendola strumento di obiettivi che hanno poco a che fare con Dio, e molto a che fare con l’uomo.

Un fotogramma del docufilm

Prima parlavi degli ebrei libanesi come di coloro che stanno preservando la cultura dell’intera nazione, puoi aggiungere qualche dettaglio?

Gli ebrei libanesi mi hanno mostrato una parte della cultura libanese che io non conoscevo. Lentamente, lo spirito del mio popolo si sta trasformando. A livello architettonico, per fare un esempio, le ville dell’epoca ottomana stanno lasciando il posto a grattacieli. È straordinario pensare che la storia del Libano venga tramandata nelle storie degli ebrei libanesi.

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Quando si trasferiscono a New York, molti arabi di fede ebraica (in principal modo libanesi e siriani) prendono l’impegno solenne (a volte addirittura messo su carta, nero su bianco) di non assimilarsi totalmente con la società che li accoglie, nella volontà di mantenere l’intera molteplicità di identità, che costituiscono la propria Identità: di arabi, di siriani (o libanesi), di ebrei.

A causa delle tristi vicende storiche che ben conosciamo, chi ha un timbro di Israele sul proprio passaporto non può entrare in alcuni paesi, tra cui il Libano. Nel mio piccolo, mi piace pensare di essere uno schermo con cui alcuni ebrei libanesi possono sognare la terra da cui provengono, che però non potranno mai vedere fisicamente.

Oltre al tuo personale interesse per questa comunità, cosa ti ha spinto a lavorare sul documentario?

Il mio lavoro non ha, e non vuole avere, alcuna agenda politica. Il mio unico desiderio è raccontare la storia di una comunità, e mostrarne i tratti affascinanti che la rendono sì portatrice di identità uniche, ma anche di valori universali.


Profilo dell'autore

Valerio Evangelista

Valerio Evangelista
Dal suo Abruzzo ha ereditato la giusta unione tra indole marinara e spirito montanaro. Su Frontiere, di cui è co-fondatore, scrive di diritti umani e religioni.

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