Senegal al bivio

Un monumento più grande della Statua della Libertà, la moschea più bella d’Africa e l’idea di trasformare Dakar nella Silicon Valley del Sahel. Ma intanto la disoccupazione dilaga e la democrazia scricchiola. Viaggio in un Paese che sogna in grande mentre fa i conti con un presente incerto.


Amadou gira tra i montoni, li schiaffeggia, palpa cosce e glutei valutandone la massa grassa. Mancano poche ore al Tabaski, la festa più importante per i musulmani senegalesi, e non ha ancora un animale per ricordare il sacrificio di Ismaele con tutta la famiglia.

La tensione pervade le trattative, è già mezzanotte e i mercanti stanno alzando alle stelle il prezzo del bestiame. “Se la tua famiglia non ha i soldi, non è un problema mio”, gli dice un allevatore di poco più di vent’anni, stufo di una contrattazione che non sta portando da nessuna parte. “Come ti permetti, non offendere la mia famiglia!” risponde Amadou battendo un bastone sulla sabbia. Volano parole pesanti, alcuni clienti riescono a separarli prima che la rissa diventi fisica. Amadou abbandona la trattativa a testa bassa e riparte, da zero, con un altro mercante. Il tempo scarseggia, i soldi pure.

Dakar, vigilia del Tabaski. Uno dei tanti punti vendita di montoni. Foto: Joshua Evangelista

Alla vigilia del Tabaski, Dakar è una immenso pascolo, in cui le persone si muovono a stento in mezzo alla polvere, lo smog delle auto e le feci di montoni. Gli animali invadono le strade costringendo i taxi a improvvisi zigzag e le vendite proseguono fino all’alba in ogni isola pedonale o giardino cittadino. “È come il vostro Natale”, mi spiega Amadou. Con la differenza che qui se non torni a casa con un montone diventi lo zimbello di tutto il quartiere.

Una generazione senza lavoro

Il 2002 è lontano. La nazionale di calcio raggiungeva uno storico quarto di finale al Mondiale di Corea e Giappone e il tasso di disoccupazione era del 5%. Oggi le cose sono cambiate. Amadou rappresenta il 50% di giovani senegalesi under 35 senza un lavoro.

Nonostante la crescita economica e i pesanti investimenti che il presidente Macky Sall ha destinato all’innovazione, il mercato del lavoro non decolla. Cinquanta milioni da dirottare su progetti digitali ideati da donne e giovani, training per 100 mila nuovi imprenditori e agevolazioni per chi vuole iniziare una nuova impresa. E, ancora, incentivi alle aziende straniere che vogliono investire nel Paese. Prospettive allettanti, che si scontrano tuttavia con la realtà problematica della generazione di Amadou: giovani, con una discreta istruzione, senza lavoro. Affascinati dal sogno europeo ma allo stesso tempo disincantati dalle notizie che arrivano dalla Libia e dal Mediterraneo.

Alle cinque e trenta del mattino Amadou trova il suo montone. Raccogliendo qualche soldo extra da amici e da un fratello che vive in Europa, riesce a comprare un animale di stazza media. Fuori dalla sua casa a Yoff, un quartiere periferico abitato dalla classe media dakariana, scava una buca nella sabbia, quindi appoggia il collo del montone al pertugio e con un colpo secco gli recide la giugulare, facendo zampillare il sangue sotto terra. Un vicino nigeriano, cristiano ma con una buona capacità di sezionare gli animali, si offre di occuparsi della macellazione. Amadou, stanco per la dura nottata e per l’uccisione, va a dormire. È senza soldi e senza un lavoro. Ma, almeno, la festa e la faccia sono salve.

Statue giganti made in North Korea

In Senegal c’è un’altra grande differenza rispetto al 2002. Allora, solido al comando, c’era Abdoulaye Wade, il cui regime era l’incubo degli investitori stranieri. Famoso il caso Millicom, con la multinazionale delle telecomunicazioni che per ottenere la licenza di operare nel Paese avrebbe dovuto pagare una tangente di 200 milioni di dollari al figlio del presidente, Karim, suo delfino designato.

Per 12 anni Wade ha governato in maniera megalomane. Le accuse di corruzione, nepotismo e restrizioni della libertà di stampa e di altri diritti civili passavano in secondo piano rispetto a grandi progetti di ingegneria civile e monumenti mastodontici promossi dal suo governo.

Su tutti, il Monumento al Rinascimento africano, una statua di bronzo alta 49 metri raffigurante un gigante muscoloso, una donna avvenente e un pargolo che indica l’oceano. Disegnata dall’architetto locale Pierre Goudiaby, la statua è stata realizzata da una ditta nordcoreana specializzata in grandi monumenti ispirati dal realismo socialista di Pyongyang. La proprietà intellettuale dell’opera, ça va sans dire, è stata reclamata da Wade, che ha anche preteso il 35% di tutti i profitti legati al monumento.

Il Monumento al Rinascimento africano è la statua più alta del Continente. Foto: Joshua Evangelista

All’interno della statua, che già prima dell’inaugurazione aveva fatto storcere il naso a molti intellettuali africani, stanze variopinte ospitano sculture donate dai capi di stato africani e oggetti-feticcio per celebrare gli incontri diplomatici di Wade. In più, una carrellata di fotografie di grandi personaggi neri, assortiti in maniera quanto meno discutibile: uno a fianco all’altro, troviamo infatti Sankara, Nasser, Obama, Malcolm X, Martin Luther King e l’ex dittatore dello Zimbabwe, appena deceduto, Mugabe. Chi vuole, può prendere un ascensore e sbucare sulla testa del bambino. Concept un po’ kitsch, forse, ma la vista sulla città è davvero suggestiva.

Wade era, ed è, un personaggio che divide. Tanti senegalesi lo rimpiangono, affermando che con Macky Sall il Senegal è tornato ad essere schiavo economico della Francia. Nonostante la sconfitta elettorale del 2012, le effigi raffiguranti Wade continuano a essere affisse davanti alle entrate di molte case. Per capire perché tanti senegalesi lo amano, bisogna andare a Touba, la capitale religiosa del Senegal.

Nel segno del Gran Marabutto

Marmo bianco di Carrara, marmo nero e alabastro egiziano, granito portoghese, ceramiche spagnole e volte rifinite e dipinte dai migliori mastri marocchini. Quella di Touba è una moschea mastodontica che, come la Sagrada Familia di Barcellona, è in continua espansione.

Moschea di Tuba, interni. Foto: Joshua Evangelista

I lavori avvengono attraverso i soldi dei fedeli, della confraternita sufi dei muridi. Non ci sono, ci tengono i locali a sottolineare, ingerenze da parte dei paesi della penisola arabica. Una volta l’anno, Touba ospita il Gran Magal, un pellegrinaggio che raccoglie più di tre milioni di fedeli (il secondo pellegrinaggio più grande dopo l’Haji alla Mecca). Ai pellegrini viene offerto alloggio gratuito dai residenti. Ad esempio, la griot Mariama, nostra ospite, accoglie ogni anno decine di persone a casa sua e per l’occasione fa uccidere una dozzina di montoni.

Il fondatore della moschea è lo sceicco Ahmadou Bamba, una figura altamente importante nella narrazione anti-coloniale, un sovversivo costretto dai francesi all’esilio prima in Gabon e poi in Mauritania. Durante il soggiorno gabonese avrebbe copiato a mano Corani per sette anni, sette mesi e sette giorni (tutti conservati nella biblioteca di Touba), e domato il leone al quale i francesi volevano darlo in pasto.

Nelle confraternite religiose senegalesi, i marabutti sono al centro del potere. Organizzati con gerarchie molto sofisticate, possono elevarsi fino allo status di califfo, che nel caso della Muridyya ruolo che spetta ai discendenti di Bamba.

Un incontro tra l’ex presidente Wade e l’allora capo dei muridi Serigne Saliou Mbacké

Da sempre sempre queste figure mistiche, che promettono guarigioni e ricchezze terrene e ultraterrene, hanno avuto un ruolo fondamentale nella politica senegalese. Se Touba continua a essere considerata una roccaforte del PDS, il partito di Wade, è perché lui – al contrario dei predecessori – ha sempre affermato la sua appartenenza alla fratellanza dei muridi, i seguaci di Bamba. Si stima che il 33% di tutti i senegalesi sia affiliato alla Muridyya.

Ma Wade è il passato, mentre i muridi continuano a essere il presente. E i loro voti sono indispensabili per qualsiasi candidato.

In piena campagna elettorale, nel 2018 Macky Sall disse che avrebbe stanziato molti fondi per le città religiose, qualora i senegalesi lo avessero rieletto. Detto in altre parole, se la confraternita dei muridi lo avesse sostenuto.

Serigne Mountakha Mbacké, da gennaio 2018 nuovo califfo dei muridi, è secondo la rivista Jeune Afrique uno dei 50 uomini più influenti d’Africa. Questa volta, il Grande Marabutto non ha emesso un “Ndigueul”, ovvero un invito formale a votare per uno dei candidati, come succedeva con Wade. Ma anche quando i leader religiosi decidono di tacere in pubblico, i loro seguaci ricevono segnali informali su chi votare. Consigli alquanto vincolanti, considerando che per molti credenti le guide religiose sono più importanti dei politici. In breve, ciò che dice il Marabutto diventa azione, almeno per i veri credenti.

Casamance, ribelli ed estrazioni

Potenzialmente la Casamance è la regione turisticamente più attraente dell’Africa occidentale. Gli isolotti incontaminati, le foreste di mangrovie, le passeggiate in piroga, le spiagge di Cap Skirring e il folklore dei Jola rende magica questa terra di confine, geograficamente e culturalmente distante dal resto del Senegal.

In attesa di uno sviluppo turistico che tarda ad arrivare, oggi la Casamance è un susseguirsi di checkpoint. Ogni manciata di chilometri, soldati muniti di kalashnikov fermano tutte le macchine e controllano i documenti. Fino a qualche anno fa, la strada che collegava Cap Skirring e Ziguinchor, la capitale della Casamance, è stato lo scenario di una guerriglia a bassa intensità che dal 1982 al 2014 ha ucciso cinquemila persone.

Nel 2014 i ribelli indipendentisti dell’MDFC e il governo di Dakar hanno firmato a Roma un accordo per il cessate il fuoco. Le tensioni non si sono mai completamente placate, visto che l’anno scorso 13 persone sono state trucidate nella foresta alla periferia di Ziguinchor. Se dietro queste morti ci sono i ribelli non è mai stato appurato, eppure la conseguenza diretta è stato un aumento massiccio dei controlli armati.

Salif Sadio, leader dell’MDFC (o almeno di una parte di esso), ha negato il coinvolgimento diretto, pur ammettendo che i suoi uomini continuano ad attaccare i camion dei taglialegna che estirperebbero alberi nelle aree protette sotto l’egida dell’esercito.

Periferia di Ziguinchor, Casamance. Una donna, vedova, trasporta dell’argilla raccolta vicino al fiume. Suo figlio è morto nell’esercito. Foto: Joshua Evangelista

Nel frattempo la società australiana Astron Zircon ha ottenuto i permessi per scavare dune di sabbia ed estrarre zircone, una pietra preziosa dalle mille applicazioni, utilizzabile per fabbricare convertitori di combustibile catalitico e sistemi di depurazione dell’acqua e dell’aria. I locali temono che le estrazioni possano provocare la salinizzazione dei terreni agricoli e dell’acqua potabile. Secondo Sadio “lo sfruttamento dello zircone rappresenta una dichiarazione di guerra”.

I limiti della democrazia

La Casamance non è il primo pensiero di Sall. O per lo meno non l’unico. Mentre voliamo da Zuiguinchor a Dakar con Air Senegal, le hostess ci porgono la rivista di bordo. L’articolo d’apertura e l’editoriale del direttore della compagnia sono un unico elogio al Presidente. Sfogliando qualche pagina, ecco un altro reportage sul viaggio aereo di “Sua Eccellenza” il Presidente Macky Sall (“un passager exceptionnel“) da Dakar a Parigi per assistere alla laurea del figlio.

Secondo Dirk Kohnert e Laurence Marfaing dell’Istituto di affari africani di Amburgo, le elezioni del 2019 hanno cambiato qualcosa nella “vetrina democratica” del Senegal. Durante le manifestazioni prima delle votazioni due attivisti sono stati uccisi e molti altri feriti. Molti giornalisti sono stati minacciati e, sebbene le elezioni sono state pacifiche, “molti scontri sanguinari sono stati evitati solo grazie all’intervento del 24 febbraio del Gran Marabutto dei muridi”.

In fin dei conti Sall è stato eletto democraticamente, con il 58% dei voti. Ma la generazione stanca di Amadou, i contadini impoveriti della Casamance e gruppi di attivisti ispirati dalle manifestazioni in Algeria e Sudan non aspetteranno un’altra legislatura prima di scendere, in piazza o altrove. Il Senegal ha davanti a se tanti bivi e non c’è tempo da perdere.


Profilo dell'autore

Joshua Evangelista
Joshua Evangelista
Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali

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