Tutta la storia di Mamudou, raccontata da Salvatore Borgese

Ospita a casa un giovane migrante e racconta su Facebook la quotidianità della loro convivenza. Un diario a capitoli, quello di Salvatore Borgese, che aiuta a riflettere al di là di ogni luogo comune sul significato di coesistenza interculturale. Riportiamo il racconto integrale, per gentile concessione di Salvatore Borgese.


Leggi qui la nostra intervista a Salvatore Borgese


Capitolo uno – Mamudou, una storia vera

Vorrei condividere con i miei amici e conoscenti una storia, vera, accaduta a me, anzi che mi sta accadendo.

Lo faccio perché ne sento profondamente il bisogno e perché tutti quelli che hanno e avranno contatti con me penso debbano sapere, per essere preparati al prossimo incontro.

Qualcuno di voi già sapeva che nell’inverno del 2017 ho seguito un corso di formazione organizzato dal Garante per l’infanzia della Regione Lazio per tutori volontari di minori stranieri non accompagnati. Me ne fu anche affidato uno albanese l’anno scorso dal Tribunale per i minori di Roma, ma il giorno stesso ebbi un incidente con lo scooter che mi bloccò per un mese quindi rinunciai all’incarico perché il ragazzo avrebbe raggiunto la maggiore età dopo poche settimane e non avrei avuto il tempo di adempiere adeguatamente al mio compito: i tutori decadono automaticamente nel giorno del diciottesimo compleanno dei ragazzi. Successivamente ho avuto dubbi sul proseguire su questa strada perché ho temuto di non essere sufficientemente disponibile con il tempo e competente da poter rappresentare una guida e un aiuto valido per i minori stranieri. Insomma ho avuto paura di non farcela e rischiare di essere dannoso.

Dall’associazione di tutori alla quale comunque appartengo (Officina 47, trae il nome dalla Legge 47/2017 che ha istituito la figura del tutore volontario di minori stranieri non accompagnati), a metà agosto 2019 è stata lanciata via gruppo WhatsApp interno una richiesta di aiuto per un neomaggiorenne che sarebbe uscito dalla casa famiglia per finire presumibilmente sotto un ponte e procacciarsi il cibo in qualche modo. Si stanno concretizzando infatti gli effetti criminogeni dei decreti salviniani che mi auguro vengano al più presto modificati.

Ne abbiamo parlato in famiglia, non a lungo, ma abbiamo dedicato una riunione a tre, mia moglie, mio figlio ed io, per discutere la cosa e abbiamo deliberato all’unanimità.

Adesso Mamudou, questo il nome del ragazzo, gambiano, che vive a casa mia, ha una stanza e un bagno, mangia e conversa con noi nel suo italiano un po’ stentato ma efficace, guarda i film la sera con noi sul divano: qualche sera fa ho selezionato Django enchained di Quentin Tarantino e Mamudou e mio figlio Francesco ne sono stati entusiasti, tanto da quasi rinunciare a chattare su WhatsApp come di consueto durante la proiezione.

Per farlo entrare a casa ho dovuto studiare, ricercare, chiedere pareri, raccogliere documenti, compilare moduli, fotocopiare atti di proprietà della casa, girare per la Questura dove ho trovato trenta persone in fila e ho rinunciato, perché così per dire… avrei anche qualche impegno lavorativo… così ho risolto con un’ora di fila alle poste e una raccomandata alla Questura. Il secondo decreto “sicurezza” del nostro ex Ministro degli Interni prevede che tutte queste pratiche debbano essere svolte entro sei ore dall’ingresso in casa del nuovo ospite.

Mamudou è un ragazzo sveglio, intelligente e curioso. Non ha studiato in Gambia, neanche alle scuole elementari, ma in qualche modo ha imparato a leggere, scrivere e far di conto. Lui sostiene di aver imparato osservando i fratelli minori e usando il suo cellulare. Qualche giorno fa gli ho insegnato a interpretare il mistero di un orologio analogico. Parla una lingua transnazionale dell’Africa occidentale, il pulaar, ma nel corso del viaggio fino a casa nostra ha imparato l’arabo e l’italiano.

È in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno, quindi è regolare sul territorio italiano, e ha due obiettivi: conseguire la licenza media e trovare un lavoro, magari come pizzaiolo, cameriere o meglio come meccanico di motorini, è questo ciò che ha fatto nel suo paese da quando aveva 10 anni fino a 14, quando è scappato di casa in cerca di un futuro migliore, attraversando da solo Gambia, Senegal, Mali, Burkina Faso, Niger e Libia per essere raccolto, insieme ad altri circa cento, nell’estate del 2017 in mezzo al Mediterraneo da una nave militare spagnola del progetto Frontex.

Il suo viaggio fino in Italia, durato due o tre anni, ancora non abbiamo capito, è stato avventuroso, ha lavorato per procurarsi il denaro per proseguirlo: pastore, innaffiatore di pavimenti sabbiosi, cameriere, incaricato degli acquisti per gli ospiti del centro di raccolta, ometto delle pulizie, venditore di carne, venditore di pane, commesso in pasticceria. Ogni tanto ricorda un nuovo episodio del suo viaggio e racconta, racconta, come se si fosse trattato di una gita scolastica. Raccoglieva il denaro, lo teneva nascosto fino a raggiungere la cifra per conquistarsi lo step successivo e poi pagava e veniva trasportato.

Gli è capitato (in Burkina Faso) di regalare parte dei suoi soldi a dei compagni di viaggio per superare uno step con loro, a volte invece li ha dovuti abbandonare per strada. Gli è capitato di ricevere aiuto inaspettato e addirittura di ricevere denaro da gente che inizialmente gliene aveva chiesto per dargli un passaggio. Gli è capitato di restare seduto nottetempo fuori di una casa affamato per poi esservi accolto come un figlio, con queste parole “io ti accolgo e Dio è testimone di come ti comporterai nella mia casa e con i miei figli”.

Una famiglia in Libia ha tentato di convincerlo a tornare a casa, gli avrebbero pagato il rientro con metà dei soldi che gli dovevano, ma lui si è allontanato e i soldi sono rimasti laggiù.

Di tutti i trasferimenti in Africa racconta di non averne pagati due: un viaggio dal Senegal al Mali con un signore che lo ha aiutato e poi accompagnato in auto per condurlo a pregare e poi il viaggio sul barcone dalla Libia; per quest’ultimo, a rischio della vita perché – si sa, con gli scafisti non si fa i furbi! – si è intrufolato nella fila di quelli che avevano pagato e approfittando della confusione all’imbarco, dovuta a una lite tra scafisti e Guardia Costiera libica, è riuscito a partire. Erano due i barconi salpati quel pomeriggio di giugno 2017: il primo è stato intercettato dai Libici e costretto a tornare, il secondo, quello con Mamudou, è passato miracolosamente approfittando dello scarso impegno dei militari libici e del buio incombente.

La nave spagnola lo ha sbarcato, presumibilmente in Calabria o forse a Salerno, lui non sa neanche la data, ricorda solo un viaggio notturno in pullman di circa mezza giornata fino a Boiano in Molise, non ricorda di aver passato lo Stretto di Messina.

A Boiano qualcuno si è accorto di avere di fronte un ragazzetto ossuto di neanche 17 anni e lo ha fatto trasferire in un centro per minori a Ciampino dove è restato per un anno, ha imparato l’italiano frequentando CivicoZero (un centro di socializzazione creato da Save the Children) e frequentato la scuola di un CPIA (Centro di formazione per adulti) fino al compimento dei 18 anni, gennaio 2019, quando è stato trasferito a Rieti perché maggiorenne. Ha continuato a frequentare la scuola e anche per due mesi un apprendistato in un ristorante fino al termine del progetto semestrale. È quindi uscito dal circuito dell’accoglienza ed è scattato l’allarme di Officina 47 grazie al suo più caro amico che è anch’egli ospite della Presidente dell’Associazione e mia amica Alessandra.

Dopo un paio di alloggi provvisori in attesa del mio rientro dalle vacanze in Val d’Aosta sono andato a prenderlo a casa di un’amica ed è così iniziata la nostra nuova avventura insieme. Al momento non abbiamo scadenze, solo curiosità e speranze. Anche qualche timore. Non ci chiedete “ma fino a quando resterà da te?”. Non lo sappiamo. Spero di aiutarlo con la mia famiglia a prendere il volo, ad assumersi responsabilità e rispettare impegni, a trovare un lavoro e diventare abbastanza libero e autonomo da riuscire a mandare qualche soldo a casa, il suo sogno generoso: aiutare la sua famiglia lavorando.

Testa bassa, silenzioso, evidentemente diffidente e, come dice una mia amica che lo ha ospitato, “poco propenso a investire in affetto”, Mamudou non ti guardava negli occhi e non sorrideva se non per compiacerti. Accettava che lo chiamassero con il nome di Mamadù, anche se il suo nome si pronuncia Mamúdu, per non stare a discutere. Non ha detto nulla neanche quando gli hanno registrato una casella di posta elettronica su Google con il nome sbagliato.

In poco pochissimo tempo le cose stanno cambiando, adesso ride e scherza, chiede chiarimenti, ti guarda negli occhi… Ho raccolto per strada un cagnolone che si era smarrito e l’ho parcheggiato in giardino in attesa di ritrovare i proprietari; Mamudou ci ha giocato tutto il tempo e Santiago (il cagnolone bianco che dopo poche ore ha ritrovato la sua famiglia) si fidava solo di lui. Avreste dovuto vederli…

Sorride spesso, lo ha divertito molto sentirmi pronunciare alcune parole in lingua pulaar, trovate su un dizionario online: “Jawali” per buongiorno, “Inde ma?” per come ti chiami, “Gorko” e “Debbo” uomo e donna, “Yumma” mamma, “Nange” e “Leuru” per sole e luna. Ha voluto l’indirizzo del sito.

Mamudou è un ragazzo pulito, dentro, ma anche fuori, fa la doccia ogni giorno e ha molto gusto nel vestirsi. Accosta i colori con un senso estetico innato. Non ringrazia, almeno non lo fa automaticamente, credo che lo faccia solo quando ne sente profondamente l’esigenza. Lo ha fatto, timidamente e senza guardarmi in faccia, quando si è girato verso di me, uscendo da un centro commerciale in Abruzzo, con un bustone con due paia di scarpe nuove che si sarebbero affiancate all’unico paio di scarpe che aveva. “Grazie, ehm”. E nulla più.

Siamo stati insieme a Rieti, nella casa in cui alloggiava, a prendere un borsone di abiti, tutto il suo guardaroba e abbiamo salutato i suoi ex coinquilini: un ragazzo bengalese e uno pakistano. Non ero mai stato in una casa famiglia, anche se tecnicamente quella era una casa progetto (dove vanno i ragazzi che escono dalle case famiglia per raggiunta maggiore età e possono permanere sei mesi grazie a progetti di inclusione finanziati). Una casa antica, nel centro di Rieti, un po’ malridotta e con mobili molto malandati, ma per quanto possibile trasudava dignità: i ragazzi ospiti stavano dormendo quando siamo arrivati, ma la lavatrice era in fase centrifuga e ho fatto pipì in un bagno pulitissimo e ordinato.

Con Mamudou, il secondo giorno a casa, abbiamo montato un armadio acquistato per lui da Leroy Merlin; quattro ore di lavoro, e più di una volta mi ha corretto nell’interpretazione della grafica delle istruzioni. Però qualche volta avevo anche ragione io.

Ha subito violenze? Non so durante il viaggio, non ho osato chiedere. È stato ripetutamente picchiato a 13 anni dal datore di lavoro, un meccanico di moto alcoolizzato di Banjul, la capitale gambiana, dove il padre lo aveva portato per acquisire esperienza con le moto, ma poi è fuggito tornando a casa sua. L’abbiamo cercata e trovata casa sua, su Google Maps, scorrendo dalla visualizzazione satellitare, perché il nome del villaggio non è censito. Così siamo partiti con lo schermo del tablet da una città vicina (io leggevo i nomi sulla mappa finché lui non ha detto “questa è vicina a casa!”) e poi abbiamo seguito la strada che percorreva per andare a lavorare fino a trovare una capanna di un villaggio… “Ecco questa è casa dei miei genitori, ma io andavo sempre a dormire da mio fratello, in quest’altra…”

A 14 anni ha chiesto ai genitori il permesso di partire per l’Europa, luogo magico di cui parlavano i suoi amici, e di fronte al loro diniego ha atteso raccogliendo un po’ di soldi con il lavoro e ha lasciato il paese senza neanche un cambio di biancheria, da solo, partendo direttamente dall’officina.

Ha raccontato bugie a volte, dice che glielo hanno suggerito… gira voce che se dici di aver fatto qualcosa di male nel tuo paese, i carabinieri ti lasciano passare per evitare guai. Per Mamudou i “carabinieri” sono gli uomini in divisa, in qualunque paese… quelli del Burkina Faso sono molto pericolosi.

Gli ho posto una domanda diretta una volta: “Perché sei partito?”. Dice di aver visto una volta un mendicante al suo paese seduto per strada, anziano, sporco e disperato, e aggiunge “Ma ne ho visti anche in Italia! Ecco, sono partito perché non volevo finire così, volevo fare qualcosa per la mia vita”. Vorrebbe anche aiutare la sua famiglia, il padre è anziano e non lavora più, la madre ha un negozio, vende pannocchie e prodotti da forno preparati da lei. Ha tre fratelli e tre sorelle, anche da madri differenti dalla sua, quasi tutti più piccoli di lui. Vivono con gli incassi del negozio.

Ha ricontattato la madre dopo tre anni, al suo arrivo in Italia, e mi racconta che lei gli ha raccomandato di prestare molta attenzione alle amicizie e non accompagnarsi mai con persone cattive. Quante ne avrà incontrate durante la sua odissea? Quanti lupi travestiti da agnelli? E quante volte c’è mancato un soffio per…

Mi raccontava delle bande che si incontravano per le strade. Di quelli che lo hanno rapito insieme a un amico trascinandoli dentro un’automobile, ad Agadez nel Niger, e gli hanno tolto tutto: denaro, cellulare… Ma sono usciti sani da quell’auto. E sono stati fortunati, altri vengono picchiati, uccisi o rapiti e ridotti in schiavitù. Quelle bande le definisce la mafia del Niger.

Mi raccontava di quando in Libia, su una spiaggia, ha finito i soldi per comprarsi da mangiare, è stato lì giorni e giorni in attesa di poter partire su un gommone e mentiva per vergogna ai suoi amici che gli offrivano qualcosa, dicendo di aver già mangiato. E sulla spiaggia toccava badare all’arrivo dei “carabinieri”, perché essere arrestati poteva essere la fine. Alcuni dei suoi amici non hanno saputo se non dopo mesi che lui era riuscito a intrufolarsi sul gommone giusto. Di altri non ci sono più notizie.

Fuma, purtroppo, compra le sigarette con i suoi soldi, quelli guadagnati facendo il tirocinio al ristorante, che però stanno finendo. Dice che ha deciso che smetterà presto. Il divieto di fumare in casa forse lo aiuterà, non so. Di certo è capitato male in una casa di ex fumatori. Mia moglie Antonella poi su queste cose è rigidissima: quando, una volta, ha visto che gli avevo comprato un paio di pacchetti, ci ha tenuto a impostare le regole etiche: niente soldi per i vizi!

Gli ho proposto di darmi una mano con i lavori in giardino e ha accettato volentieri, però ho chiarito che non si tratta di lavoro, ma di aiuto; in cambio, poi, gli ho regalato del pocket money, si dice così?, e un pacchetto di Camel blu, ma quest’ultimo di nascosto ad Antonella.

Gli ho dato un libro che mi aveva molto toccato, Non dirmi che hai paura, di Giuseppe Catozzella. Si parla di una ragazzina somala, di guerra, amicizia e migrazione. Mi ha detto che lo trova bellissimo e trascorre molto tempo in giardino con il libro in grembo e la matita in mano, gli ho suggerito di sottolineare le parole difficili, quelle sulle quali – così abbiamo concordato – dovrà poi approfondire con me, mia moglie o con Francesco. Prima mi ha chiesto “sabbia”, l’altro giorno chiedeva a Francesco “inno” e “spandere”.

Lo osservavo mentre leggeva il suo libro, seduto in giardino. Mi si stringeva il cuore, come ogni volta che vedo un adolescente con un libro in mano, no… di più.

I prossimi passi saranno rinnovare la tessera sanitaria e spostare la residenza, e mi gira la testa se penso che devo ancora informarmi su come fare. Ma intanto occorre anche cercare lavoro o fare un corso di formazione per imparare a fare la pizza.

In bocca al lupo per la tua vita Mamudou e crepino i razzisti.

Capitolo due – Perché l'ho fatto?

Ci sono state molte reazioni al mio racconto con un po’ della storia del viaggio di Mamudou, il giovane ospite gambiano della mia famiglia, ma anche un po’ della storia della nostra decisione di accoglierlo. Una pioggia di cuori e affetto, di complimenti, di messaggi commossi e commoventi, pubblici e privati da parte di amici assidui, ma anche diversi amici che non vedevo/sentivo più da tempo e perfino alcuni amici nuovi di zecca.

Mi sono commosso nel leggere alcuni commenti, ecco, dovevo dirlo. Ho anche deciso di continuare a parlare dell’esperienza di Mamudou a casa Borgese. Una testimonianza un po’ speciale e per questo forse interessante. Cercherò anche di essere più conciso, ci provo, anche se chi mi conosce meglio sa che mi piace lo stile lento e riflessivo (così dicevano i miei prof, ho sempre finto che fosse un complimento).

Mi ha fatto piacere tutto ciò, ma mi ha imbarazzato anche un po’, non che io non me l’aspettassi, ma insomma forse non così. Mi imbarazza in particolare ricevere tanti complimenti per una cosa che non mi pare, che non ci pare, così eccezionale. Avevamo dello spazio disponibile in casa, ci è stata segnalata una situazione di emergenza, il ragazzo ci è stato raccomandato da persone amiche e fidate precisando che si tratta di un bravo ragazzo e, anche se ho dovuto penare per risolvere un po’ di ostacoli burocratici, alla fine non è stato così complicato. E sì… lo so che la parte più tosta deve venire.

Non ho scritto il post per doparmi di endorfine da like, certo mi fa piacere ricevere una carezza e vedere tutti quei cuoricini, ma non era quello lo scopo: non sono alla ricerca di popolarità. Perché l’ho fatto, allora?

Voglio spiegarlo in quattro punti e mezzo (quando avevo iniziato a scriverli erano tre). E, chiedo scusa in anticipo, stavolta non si sfugge alla politica.

La prima ragione l’ho esposta in apertura. Si tratta di questioni logistiche. Avverto i miei amici e conoscenti che adesso siamo in quattro. Quindi cambia tutto, dai trasporti in auto, allo spazio a tavola. Oh… a proposito Mamudou è di religione islamica e anche se gli piace la birra, niente carne di suino! Antonella ha imparato a fare il polpettone interreligioso: il tritato è di manzo e vitello, ma nel cuore del polpettone, ad avvolgere l’uovo sodo c’è la zona cristiana con la mortadella e quella musulmana con l’arrosto di tacchino, accuratamente separate e contraddistinte dagli stecchini.

La seconda ragione è che sono convinto che ascoltare o leggere la storia di un migrante lo umanizza anche per le orecchie più distratte, molto più di quando lo stesso migrante era nascosto dietro un numero: 100, 500, 11.000, 80.000, 600.000. Mamudou è uno dei 100 sbarcati da una nave spagnola nel giugno 2017, ma detta così, magari durante un notiziario, resta solo uno dei 100; magari poteva essere uno dei 500 annegati nel 2013 al largo di Lampedusa o uno delle altre centinaia che stanno in fondo al mare perché nessuno ha ascoltato la richiesta di soccorso mentre il gommone si sgonfiava oppure uno degli 80.000 irregolari sul territorio italiano, che prima erano 600.000, poi hanno rifatto i conti quando sono diventati osti. Se nessuno si fosse interessato davvero a lui, sarebbe uno degli 11.000 irregolari creati finora dal primo decreto sicurezza, che restringendo a poche decine di persone il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, ha determinato di fatto l’illegalità della permanenza in Italia per i neomaggiorenni finora accolti, istruiti e curati nelle case famiglia. Dietro agli 11.000 che adesso in parte sono per strada e non sanno come mangiare c’è un disegno preciso volto alla generazione di disordine, microcriminalità e insicurezza. Per questo parlo di decreti criminogeni. Ma al di là della polemica politica voglio dire che le persone esistono quando si conosce la loro storia, quando cessano di essere statistiche, altrimenti diventa comodo ignorarle per continuare ciascuno a pensare al nostro “particulare”. E così esploro la miniera di episodi della breve vita di Mamudou non per strumentalizzarlo ma per consentire anche a chi gli sta lontano di conoscerlo (di “conòsserlo” come direbbe lui, a cui la pronuncia della “SC” non “riesse” proprio). Osservando da vicino ciò che ci è ignoto smettiamo di vedere nemici.

La terza ragione è connessa con le scelte di vita. Ho sempre pensato che, se è possibile farlo in sicurezza, si fa prima a togliere il ramo caduto sulla strada che a chiamare i vigili del fuoco. E gli altri? Gli altri sono tanti, alcuni capiscono e ringraziano, altri si fermano e ti aiutano a spostare il ramo, altri ancora passano, osservano e riprendono la conversazione con il cellulare in mano.

La quarta ragione è che Mamudou vorrei davvero aiutarlo e chiedo aiuto anche a voi e ai vostri amici per collaborare in rete a realizzare il suo sogno di lavorare onestamente, vivere in uno spazio tutto suo e poter inviare qualche soldo a casa. La priorità per lui adesso è trovare un lavoro e così non appena avrò in mano le referenze promessemi del ristorante di Rieti dove ha lavorato facendo le pulizie al mattino e sparecchiando i tavoli, e mi dicono che gli hanno voluto bene in quei due mesi, prepariamo un bel curriculum e via alla ricerca di lavoro a Roma, possibilmente Roma Nord zona Cassia.

E infine, l’ultimo mezzo punto non riesco proprio a tenermelo dentro, che dietro la decisione della mia famiglia c’è certamente anche una rabbia compressa da mesi e mesi di vergogna provata per essere cittadini di uno Stato che gioca a braccio di ferro con l’Europa lasciando dei poveracci in balia del Mediterraneo. Non voglio più vergognarmi di essere italiano quando vado all’estero, anzi vorrei tornare ad esserne orgoglioso. Non voglio più discutere con gente che non metta al primo posto la salvezza della vita. Prima salviamo i naufraghi e poi discutiamo di tutto il resto. Prima… poi… Priorità. Perché provare a fermare un flusso migratorio come quello che ci aspetta da adesso in poi con le emergenze climatiche ed economiche è possibile solo essendo criminali: mura, filo spinato, blocco navale e mitragliamenti per chi prova ad aggirarlo, un mondo in cui domina la violenza, la miseria e la paura e questo non è il mio mondo. Quindi? Il flusso migratorio va gestito. Come? Non lo so, certo non da soli, ci sono persone più preparate di me per studiare come. Lasciamole lavorare e diamo loro gli strumenti per farlo. Visegrad non li vuole i migranti? Paghi cara questa scelta o vada fuori dalla mia Europa. Io non sono pro migrazione, sia chiaro, mi piacerebbe che la gente viaggiasse, non migrasse.

Mamudou è un ospite, non un altro figlio, ma nonostante ciò al momento la famiglia si è allargata. Esigenze accresciute, comunicazioni da perfezionare, regole da stabilire, nuovi assetti: orari, abitudini, anche sciocchezze, ma importanti nell’economia di una famiglia. Ci sono delle difficoltà logistiche ma anche dei vantaggi reciproci, un posto in più a tavola ma una mano in più a far ripartire la caldaia bloccata o a smaltire il compost nella compostiera del giardino.

Ecco magari ne riparliamo: di darsi regole come salutarsi sempre quando ci si incontra e si esce, di imparare a mettere la sveglia, di restare connessi anche quando si sta lontano, ricordandosi di informarsi a vicenda. Mi ha mandato un messaggio Mamudou, adesso che abbiamo risolto anche il problema con il suo gestore telefonico può comunicare su WhatsApp anche quando gira per la città: “Ciao Salvatore io tornerò verso le 7 perché ero passato anche a Ciampino”. Già, dopo aver fatto dei lavoretti nel mio giardino per i quali ho dovuto insistere per regalargli qualche soldo, ha fatto la solita doccia ed è andato da CivicoZero e da lì con un vecchio (!) amico sono andati a salutare altri a Ciampino.

Nel frattempo abbiamo dichiarato il cambio di residenza al Municipio, per forza via email, perché gli uffici non lo fanno, almeno fino al 16 settembre. Chissà perché. Prossimi step: richiesta della tessera sanitaria, iscrizione al CPIA per la licenza media e redazione del curriculum.

In bocca al lupo Mamudou e… tanto amore con etnie miste ai figli dei razzisti!

Capitolo tre – Regole di convivenza

Quasi ogni giorno il nostro ospite esce. Al mattino resta in casa, spesso in giardino dove, mentre io lavoro per i miei editori, in questi giorni sta facendo manutenzione straordinaria rispettando con cura le indicazioni che ogni tanto gli fornisco. Dice che intende ricambiare l’ospitalità e io sono contento perché lo vedo attivo, è utilissimo e posso regalargli qualche soldino.

Una delle regole poste per la nostra convivenza è però che deve dirci dove programma di andare, con chi e a che ora prevede di rientrare, spiegando che non è perché vogliamo controllarlo ma siamo un po’ preoccupati dall’ambiente che ci circonda. I primi giorni, quando lo vedevo uscire con le sue chiavi di casa e il telecomando del cancello, iniziavo a preoccuparmi non appena spariva dalla vista. Anche per mio figlio Francesco mi preoccupo, quando torna da scuola percorre una strada stretta e senza marciapiedi in cui le auto transitano sempre troppo velocemente nonostante in alcuni tratti debbano fermarsi nel caso incrocino veicoli diretti nel verso opposto. Però, a parte i rischi stradali, Francesco è bianco e ha un fisico da pallanuotista che dissuade dalla provocazione solo a vederlo.

Esiste un’associazione di genitori di ragazzi adottati e appartenenti ad altre etnie che si chiama “Mamme per la pelle”; il loro focus è lottare contro le discriminazioni razziste per contribuire a un ambiente più sano per i figli. Ho partecipato, in primavera, a una loro manifestazione e li ho trovati simpatici, bellissimi e coloratissimi. C’era anche un gruppo di musicisti africani che allietava l’evento e invitava a danze etniche animate da adulti e bambini di ogni colore. Una signora senegalese era stata aggredita in quella piazza alcuni giorni prima, mentre passeggiava con i suoi due bambini piccoli. La signora era presente alla manifestazione, ma era timidissima ed è stata tutto il tempo in disparte. Ecco perché la riporto in questa foto di spalle insieme a una delle figlie vittime di quell’aggressione.

Lo scorso agosto leggevo una lettera a La Repubblica in cui la presidente di Mamme per la pelle, Gabriella Nobile, denunciava un’altra aggressione razzista, stavolta contro uno dei suoi due figli adottivi, reo di aver colpito con una pallonata una passante nella piazzetta di una marina ligure. Un ragazzino che colpisce una passante con una pallonata; oh!… un fatto disdicevole che merita un rimprovero esemplare e delle raccomandazioni educative, perbacco! Ma il ragazzino è nero e quindi il “tornatene a casa tua!” assume un altro significato. Ecco questo mi fa paura: che le conseguenze di qualunque cazzata compiuta da un ragazzo nero possono essere aberranti e le parole che volano si ingigantiscono e macchiano del più becero razzismo “negro di merda, perché non sei affogato con gli altri”, “dov’è il tuo permesso di soggiorno” e così via, un flusso fognario irrefrenabile stimolato dalle continue suggestioni di alcuni mezzi di comunicazione che penso sarebbero da sanzionare per la permanente istigazione all’odio diretta alla parte intellettualmente e culturalmente più fragile della nostra popolazione.

C’è un parco qui vicino, dove Mamudou va per incontrarsi con amici di tutte le etnie (Francesco dice che è una specie di Torre di Babele); spesso ci va con il suo amico Ibrahim, quello ospite della mia amica Alessandra, la presidente di Officina 47. Quando non va al parco, il nostro ospite gira per la città; sua meta preferita è CivicoZero, dove gli ho chiesto se una volta gli va di accompagnarmi; mi ha guardato con lo sguardo illuminato: “Sì, una volta ussiamo insieme!”.

Siccome al mattino fa lavoretti in giardino, al pomeriggio esce e la sera al rientro si connette su YouTube fino a cena, gli ho chiesto se legga ancora il libro di Catozzella. “Certo, mi piace. Lo leggo certe volte di notte. E poi lo leggo in treno”. Eh sì c’è un trenino che passa vicino casa e collega la stazione Termini, dove scende per raggiungere gli amici di CivicoZero, con Viterbo. E lui esce con il suo zainetto e la sua bottiglietta dell’acqua, rigorosamente liscia, che rifornisce dai nasoni di Roma. Su quel treno c’è Mamudou, che legge la storia della bambina somala che correva correva per andare alle Olimpiadi di Londra. Chissà… potrebbe capitarvi di incontrarlo.

Non va tutto liscio, non sempre. Bisogna parlarsi e chiarire. Ad Antonella non piace come Mamudou tiene in ordine la stanza e non sa come dirglielo senza rischiare di offenderlo, quindi viene da me. Alina, la signora che da un decennio ci aiuta nel riordino della casa, un’amica per noi, invece si lamenta perché Mamudou ha usato alla massima potenza l’aspirapolvere nella sua stanza e probabilmente ciò ha fatto intasare il filtro appena cambiato.

E poi le regole, tocca sempre chiarire, approfondire. “Mamudou, ma non avevi detto che saresti andato al parco? Che ci fai a Viterbo? Torni tardi perché hai perso il treno, non ti bastano i soldi che hai in tasca ma compri il biglietto con un euro che un ragazzo ti ha dato?” “È bella Viterbo, non ero mai stato. Ragazzo ha detto che sono fortunato che lui aveva” “Mi chiami dalla stazione così vengo a prenderti?” “Ti chiamo quando sono vicino”. E poi si presenta a casa a piedi alle dieci per non disturbare. Comunque, voglio ringraziarlo il ragazzo che fumava seduto sulla panchina della stazione di Viterbo. Grazie, di cuore, spero che ti riproduca molto e con soddisfazione, quando vorrai, of course.

Promemoria: ricordarsi di comprare quella piantana da lettura notturna, verificare se arriva un cenno di ricevuta dal Municipio XV sul cambio di residenza, chiedere alla ASL se possiamo fare la scelta del medico curante e ottenere la tessera sanitaria, sollecitare referenze ristorante, controllare se la Questura di Rieti ha terminato la trattazione del permesso di soggiorno, curriculum, nuove regole riordino stanza, aspirapolvere solo a media potenza. Verificare prezzo braccialetto geolocalizzatore (ma no, sto scherzando).

Capitolo quarto – Il viaggio Gambia-Italia e quei 7000 km di trafficanti, deserti e milizie

I ricordi di Mamudou affiorano uno a uno, come bollicine in un bicchiere di acqua minerale, stimolati dalle conversazioni e dal tentativo di ricostruire le tappe di un viaggio che continua ad apparirmi incredibile. “Ti va se proviamo a rivedere le tappe del tuo viaggio e le disegniamo su una mappa in Google? Francesco ci aiuterà, lui ha imparato a costruire gli itinerari su Google” “Sì, bellissimo, così io potrò ricordare”.

Così qualche sera fa ci siamo messi alla mia scrivania e con l’aiuto di Francesco abbiamo impostato l’itinerario del “Viaggio di Mamudou” e l’abbiamo salvato. Dall’officina meccanica dove lavorava in Gambia fino a Roma abbiamo stimato circa 7000 chilometri con tappe africane che vanno dalle poche ore fino a otto mesi. Arricchiremo di dettagli ogni tappa, magari col tempo. Non è facile: a volte i fatti e i luoghi si confondono, ma a quanto pare le persone no. Di quelle si ricorda molto bene, quelle che hanno preso e quelle che hanno dato.

Basta una fotografia per far riemergere le storie. Non ha riconosciuto la nave spagnola che lo ha raccolto in mare (stavo cercando di capire dove e quando è sbarcato), ma ha spalancato gli occhi davanti alla foto di un pick up carico di migranti e mi ha spiegato la storia del bastone. A ciascuno, quando si sale sul pick up, viene affidato un bastone per tenersi a bordo. Il vano di carico si riempie all’inverosimile di migranti e poi si parte per la traversata nel deserto; l’automezzo va veloce, molto veloce (ogni incontro potrebbe essere pericoloso… estorsori, milizie, altri trafficanti) e le piste del deserto del Ténéré, tra Niger e Libia, non sono esattamente tavoli da biliardo. Per restare a bordo ci si aggrappa al bastone con due mani e lo si appoggia sul pianale tra le gambe, così si possono mettere le gambe all’esterno, ma durante la corsa può non bastare. Tra spintoni di vicini che provano a guadagnare centimetri di spazio vitale e balzi improvvisi e inaspettati (il carico umano non vede la strada e i suoi dossi) può accadere che qualcuno finisca sbalzato fuori e anche quello è uno dei rischi mortali del viaggio; sì, perché in quei casi la sopravvivenza dipende da chi sta guidando, dal ritardo che la traversata può sopportare, dalle ferite riportate nella caduta. Spesso questi più sfortunati restano agonizzanti sulla pista, abbandonati muoiono di sete, mentre qualche volta l’autista, avvisato dai passeggeri, se è buono d’animo, torna indietro a vedere le condizioni del malcapitato e se non ha riportato fratture importanti lo carica nuovamente a bordo.

È capitato, sul pick up di Mamudou. Dice che è facilissimo che succeda. “Io ero piccolo, mi hanno aiutato due fratelli…” – gli amici li chiama “fratelli”, i militari “carabinieri”, le milizie “mafiosi”, quelli che gestiscono i trasporti dei migranti, se ho interpretato bene la parola, “coaster” – “tenevano mie braccia, uno da un lato e altro dall’altro. Tutti spingevano, le buche facevano male. C’era tanta polvere…”. Improvvisamente una buca più grande e un ragazzo è stato sbalzato fuori. Grida dei passeggeri. Il trafficante frena e torna indietro. Il ragazzo è solo ricoperto di polvere, non sembra avere ferite importanti, così torna a bordo. “Era autista bravo, quello che ci ha portato da Niger a Libia. Non come quello che ci ha portato a Sabrata. Quello era cattivo, correva forte per paura di mafiosi e ha detto se cadiamo non ferma”.

A uno dei pick up con Mamudou è accaduto anche di insabbiarsi e allora tutti giù a spingere. Poi tornare a bordo non è facile: sempre tutto correndo e gli spazi che sembrano essersi ristretti, soprattutto quando sei piccolo.

Il rischio più grande è stato quando sono stati abbandonati da soli nel deserto. A loro era stato detto che un automezzo staffetta sarebbe arrivato il giorno dopo a prenderli. Ma dopo un giorno sono finite le provviste di cibo e acqua; con solo un giorno di ritardo sono stati raggiunti per continuare il viaggio e attraversare il confine dal Niger alla Libia. La staffetta ha portato anche un bidoncino di cinque litri d’acqua per reidratarli.

Le staffette sono prepagate, il migrante paga il “coaster” con denaro o con lavoro (anche mesi di lavoro) e questi lo tiene rinchiuso in una casa, al riparo dalla curiosità delle forze dell’ordine e di altri estorsori finché i soldi non arrivino dalle famiglie o non vengano guadagnati sul posto. Una volta Mamudou è stato mandato dal mafioso libico di turno a rubare il rame dei cavi elettrici di una caserma distrutta dai combattimenti, ma spesso il suo lavoro era di uscire dalla casa del coaster per andare a comprare vettovaglie e cibo per i reclusi, con i loro soldi. Quando il mafioso ha deciso di aver guadagnato abbastanza con il lavoro del migrante, paga il vettore e il viaggio fino alla prossima tappa. Il migrante deve pregare che il meccanismo non s’inceppi, perché quando nella catena s’inserisce un nuovo anello a estorcere denaro può succedere di tutto, come quando dopo aver pagato le guardie di frontiera del Burkina Faso, per sé e per tre amici, quella notte di Capodanno tra 2016 e 2017, sono stati fermati pochi metri dopo dalle guardie del Niger che, anch’esse, chiedevano il pedaggio. Mamudou ha svuotato le tasche ed è passato pagando metà prezzo, ma i suoi amici sono rimasti lì e non ne ha avuto più notizia.

Il discorso cambia se il migrante è una donna, ma questa è un’altra storia.

Anche la tappa fino al mar Mediterraneo, a Sabrata, è stata gratuita. Con l’autista “cattivo”, a tutta velocità per sfuggire alle forze di polizia. Mamudou aveva del denaro guadagnato in un mese e mezzo di lavoro in pasticceria, ma non si fidava e ha detto che avrebbe pagato una volta scaricato sulla spiaggia. All’arrivo a Sabrata c’era un posto di blocco, così tutti giù e via di corsa a dileguarsi. Alcuni sono stati catturati. Dice che lì ha messo in atto una regola appresa durante il suo viaggio, che quando vede scappare qualcuno, lui deve correre più forte.

Gli piacerebbe poter ricontattare alcune persone che lo hanno aiutato durante la sua odissea. Vorrebbe rassicurarli che lui ce l’ha fatta, ecco, l’autista cattivo no. Lui no.

Capitolo cinque – Un giorno in questura (con una piccola deviazione)

Questura di Rieti. Giornata calda ed estiva. La ragazza è molto esile e riccia, dietro la vetrata si muove con decisione e sembra di casa, sparisce dietro una porta e ritorna; assiste, in borghese, il collega poliziotto che da solo gestisce lo sportello stranieri: lei dev’essere quella che mi ha risposto al telefono un’ora prima, quando le ho chiesto se sarebbe stato possibile ritirare il permesso di soggiorno nonostante un piccolo ritardo a causa di un incidente sulla Salaria. “Ma oggi è lunedì… noi consegniamo martedì e giovedì pomeriggio. Però se lei viene davvero da Roma ed è già a metà strada… mi dica il nome del ragazzo, quando arriva me lo ricorda e glielo consegniamo”. Grazie. Grazie. Avrebbe potuto essere una giornata disastrosa dopo l’esordio del mattino con le informazioni ricevute alla ASL, un viaggio a vuoto, per richiedere la tessera sanitaria occorre attendere la conclusione del trasferimento di residenza, la sua comunicazione dal Comune all’Agenzia delle Entrate e l’inserimento del codice fiscale nella ASL di competenza, quindi sarà possibile anche scegliere il medico di famiglia. E se nel frattempo il ragazzo si ammalasse? Si può sempre portare a Rieti, dove oggi risulta il medico curante. E già, naturalmente! Non ci avevo pensato. Almeno l’impiegata della ASL non mi ha risposto come quella dell’anagrafe: “Le medicine se le fa prescrivere a suo nome… E che sarà mai?”.

La ragazza riccia dell’ufficio stranieri della Questura di Rieti sprizza empatia e umanità in ogni suo atto; non appare indurita dalla consuetudine del lavoro. Al ragazzo dello Sri Lanka con permesso di soggiorno per rifugiati politici chiede di aspettare un momento perché sta ricordando il suo caso e vorrebbe capire perché non fosse stato possibile la volta precedente fare una certa cosa, poi ricorda e risolve dopo aver consultato il computer. Alla coppia con bambino nel passeggino – in tre arrivano a stento a 40 anni – deve purtroppo rimandare l’appuntamento; non ce la fanno oggi perché il personale dell’ufficio è stato comandato in servizi esterni (ma questo lo dice sottovoce al collega). Ci sono tutti i continenti della terra rappresentati in questa sala d’aspetto, esclusa l’Oceania. Sono tutti in attesa paziente, tranne la piccola rumena con il volto e le braccia devastati dalle zanzare, lei si agita e osserva tutta quella strana gente con l’impazienza dei suoi tre o quattro anni. Fissa soprattutto i ragazzi neri, con un po’ di soggezione. Forse è stata minacciata con le leggende dell’Uomo Nero.

Sono ammirato dal dinamismo della ragazza riccia, che si è affacciata dalla porta a vetri che dà in sala d’attesa per chiedere alle persone cosa debbano fare, mentre Mamudou è sceso nell’androne dell’edificio dove ha dato appuntamento a un suo amico afghano. Lo chiamo con un messaggio WhatsApp “Sali, tocca a noi”. Dopo qualche minuto risponde con un vocale (quanto li odio i messaggi vocali!): “Non posso salire… ehhh non posso salire, ha detto che è chiuso!”. La ragazza riccia mi chiama alla porta a vetri: “È maleducato il ragazzo” “Come?” “Ha avuto da ridire con la vigilanza all’ingresso e lo hanno fermato sotto”. Siamo pure fuori orario di apertura. Porca miseria.

Le chiedo di avere pazienza, scendo di corsa e lo trovo fuori dal portone ad apertura automatica, con l’amico afghano. “Che succede?” “Dice che non apre la porta”. Vado dalla poliziotta del corpo di guardia che controlla l’apertura. Dice che l’ha fatta infuriare perché voleva entrare per forza, lei gli ha detto che era finito il ricevimento e lui ha provato a intrufolarsi dalla porta a vetri approfittando di uno che usciva. Ecco. Così iniziano le guerre, con un pretesto, con un incidente, tra persone che sospettano una dell’altra.

Mi prostro umilmente alla poliziotta, colpa mia colpa mia, l’ho chiamato e lui aveva fretta di salire subito. Chiedo scusa, per me e per lui. A lui spiego che con l’autorità bisogna avere molto rispetto. Stanno facendo il loro lavoro, e se li fai indispettire non risolvi, puoi solo aggravare la tua posizione. Al piano sopra cerco di spiegare alla ragazza riccia, ma non serve, ha già capito. Prendono le impronte di Mamudou e finalmente si conclude la pratica e ottiene il suo tesserino elettronico di permesso di soggiorno. Grazie, ragazza riccia.

Il ragazzo afghano ci aspetta fuori, scambiano ancora due parole e si salutano; Mamudou mi presenta, saluto anch’io. Ha gli occhi grandi, espressivi. È uscito da casa solo per venire a salutare il suo amico gambiano. “Ciao bro”.

Ammetto la mia ignoranza, non sapevo che a Rieti, che vanta di essere l’ombelico d’Italia, scorresse un fiume: Il fiume Velino. Ci passiamo sopra, attraversandolo da un ponticello e Mamudou indica in fondo e dice che c’è uno spiazzo erboso dove è venuto a trascorrere il tempo libero con gli amici. “L’acqua è freddissima, ma abbiamo fatto bagno lo stesso”. Posso farti una foto? Si mette in posa e sorride. Mi sta guidando al ristorante dove ha lavorato: andiamo a prendere la lettera di referenze. Lavava i pavimenti e i piatti, aiutava a sparecchiare e qualche volta dava una mano a chi ne aveva bisogno. Il ristorante si chiama “Le tre porte”, si trova un centinaio di metri dopo il ponte, è gestito da una cooperativa sociale che promuove le eccellenze del territorio. Ha anche uno spaccio di prodotti locali all’interno, ma siamo fuori orario, così pranziamo con tagliolini cacio e pepe e ho acquistato un libro di ricette di un’associazione di donne di Amatrice. La presidente della cooperativa ci ha accolti con affetto e ha preparato una bella lettera di referenze per Mamudou. Le ragazze dello spaccio, della cucina e il cameriere che ci ha serviti, tutti quanti sono stati molto affettuosi con il ragazzo che lavava i pavimenti. “È buona Laura. Lei molto buona”.

Copio le parole di Laura dalla lettera di referenze “Mamudou ha fatto un’esperienza professionale con noi, occupandosi del mantenimento delle pulizie generali dell’intera struttura e del servizio di lavaggio piatti del nostro ristorante. Noi siamo un centro enogastronomico turistico e culturale nel centro storico di Rieti, di 600 mq su due piani, con un’osteria che è in guida, tra il resto, in Osterie d’Italia di Slow Food sin dalla sua apertura. Mamudou ha dimostrato sin dall’inizio un’ottima capacità di apprendimento, un’attitudine professionale legata al rigore e all’attenzione nell’eseguire il lavoro, una disponibilità importante nel venir incontro alle esigenze della nostra realtà, e assunzione di responsabilità e autonomia nello svolgere il proprio lavoro.”

Chissà… a chi legge ricordo che Mamudou sta cercando lavoro a Roma Nord.

Nel pomeriggio rientriamo a Roma, ho dedicato tutta la giornata a lui e vorrei far fruttare al meglio il tempo, così ho anche preso appuntamento al CPIA vicino alla Stazione Termini per l’iscrizione a scuola. Ci sediamo davanti a una commissione con quattro professori, e mentre lui affronta un difficile test d’ingresso mi fermo a parlare con una docente molto giovane che mi aveva fatto capire di volermi parlare.

Mamudou è seduto a leggere il test, a fianco a lui affronta la prova anche un ragazzo arabo che sembra più avanti con la preparazione. Si guardano e si salutano amichevolmente.

La professoressa mi racconta di ricordare bene Mamudou, perché proprio in questa scuola un anno fa aveva avuto un conflitto in classe con un compagno tunisino e per poco non si erano picchiati, ma che aveva reagito alzando la voce anche davanti alla dirigente scolastica davanti alla quale era stato portato. A seguito di questo fatto a Mamudou era stato suggerito il trasferimento in una scuola a Ciampino, meno affollata e quindi più tranquilla, vicino alla casa famiglia in cui viveva. Così in un giorno raccolgo due frammenti della vita di Mamudou, macchiati di difficoltà di gestire le proprie reazioni, ma so che non devo dimenticare che è un adolescente. E la giornata non è finita.

Rientrando a casa in auto, dopo avergli parlato della necessità di avere sempre pazienza davanti alle autorità, mi faccio raccontare la storia della lite. Il tunisino gli aveva sottratto le cuffiette per scherzo, lasciando che lui accusasse una ragazza che indossava un auricolare identico al suo e burlandosi di lui mentre recriminava con la compagna. Dice che a lui non piace essere deriso e così dalle parole sono passati agli spintoni e poi grida e tutti di corsa fuori dall’aula dove sono rimasti i due rivali quando sono sopraggiunti i professori.

“Era quello seduto accanto a te a fare il test?” “No, era un altro. Quello seduto era mio compagno egiziano di stanza a Ciampino. Eravamo in tre. Ho litigato anche con lui però” “Anche con lui? Mamudou?” “Fumava troppo e la stanza puzzava. Quando c’era l’altro nostro amico ubbidiva a lui, che era grosso e non voleva che lui fumava, ma quando chiedevo io di smettere lui non ascoltava. Abbiamo litigato e lui ha tirato il posacenere a terra e detto: Adesso pulissi!” “E allora?” “Tutto sporco per terra, poi è venuta la ragazza che comandava la casa e noi abbiamo fatto pace. Lui egiziano ha pulito per terra e quando ho visto, io ho aiutato, così siamo di nuovo amici!”.

Siamo arrivati a casa che ancora cercavo di parlargli di responsabilità, di impegni, di serietà, di crescita.

Capitolo sei – Il mare
“Forse non toccherò più la terra con i piedi.”

Questo è stato l’ultimo pensiero di Mamudou in Africa, mentre saliva sul gommone. Me lo riferisce sorridendo, durante una di quelle sessioni di dialogo che dedichiamo al suo racconto. Gli pongo domande e lui racconta, a volte dalla memoria riemergono episodi nuovi che lo stupiscono “Io questo avevo dimenticato”.

Sabrata è una città libica a ovest di Tripoli, a metà strada sulla costiera che collega la capitale con il confine tunisino. Conserva delle notevoli vestigia romane e bizantine tra cui spicca un sontuoso teatro ben conservato, a cento metri dal mare, con un maestoso proscenio con colonne, a tre piani, patrimonio UNESCO.

Mamudou è stato accampato per circa due settimane a due passi dal teatro romano, ma non lo ha visto, non era lì per turismo. Quando è arrivato nei pressi della città aveva ancora in tasca i soldi della pasticceria, conservati per pagare il viaggio in pick up fino al mare, ma li ha risparmiati per via del posto di blocco che ha costretto l’autista a fermare la sua corsa e ha consentito ad alcuni di lanciarsi fuori e dileguarsi; tra questi c’era il nostro sedicenne ossuto. Il denaro avrebbe dovuto consegnarlo nella casa di arrivo, al corrispondente del trafficante che aveva pagato il passaggio per lui.

Con i suoi compagni di fuga percepisce il profumo del mare e in pochi minuti lo raggiunge unendosi a un gruppo di altri profughi che si sono stabiliti sulla spiaggia. La notte e al mattino presto fa freddo. Per dormire ci si arrangia per terra, ci sono capannucce di fortuna costruite con pannelli e bidoni, ognuno trova una nicchia oppure dorme dove càpita. Per mangiare ci si organizza. Si compra qualcosa e a volte la si condivide, chi ha soldi, se vuole, offre. Sulla spiaggia si stringono nuove amicizie e legami, ad esempio fa conoscenza con un venditore di frittatine e ogni giorno va nel centro abitato ad acquistare pane e uova per lui. In pochi giorni i soldi della pasticceria finiscono; nel frattempo Mamudou osserva e registra che le imbarcazioni che partono al mattino quasi sempre tornano indietro, scortate dalla Guardia Costiera, e quelli che sbarcano vengono arrestati e portati via. Gli scafisti che procurano le imbarcazioni non ci salgono mai, incassano la tariffa, affidano i gommoni ai migranti e, dopo il varo, spesso spariscono. A volte scortano i gommoni con gli scooter d’acqua che precedono l’imbarcazione e la accompagnano verso il largo. I gommoni che salpano il pomeriggio sono più rari, ma spesso riescono a superare il check della Guardia Costiera che sembra ignorarli.

Sulla spiaggia Mamudou incontra un ragazzo gambiano del suo villaggio, anch’egli sta cercando di “passare”. “Ehi bro! Lo sai che la tua famiglia ti sta cercando. Tua madre è disperata. Pensano che tu sia morto. Chiamali” “Non ho il numero, era nel telefono che mi hanno rubato a Sebha; me lo dai?” “Non vuoi tornare?” “Adesso parto, se tu li vedi salutali”. Mamudou ha una memoria di ferro per i numeri, si è segnato sul palmo il numero di suo padre, ma lo ha memorizzato subito.

Per la cronaca, quella telefonata poi è partita dal centro di prima accoglienza di Bojano; grazie al numero ottenuto casualmente sulla spiaggia di Sabrata, Mamudou ha parlato con la mamma, che non lo ha riconosciuto (la voce del bambino partito dal Gambia si è trasformata molto arrivando in Italia) e ha voluto vedere su WhatsApp la foto di quel figlio perduto prima di commuoversi per la gioia e di raccomandarsi con lui perché si tenga lontano dalle cattive persone. Il suo conoscente, il ragazzo che gli ha dato il numero della famiglia, non è mai riuscito a “passare”; ha pagato diverse volte ma è stato sempre riportato alla base di partenza. Poi si è arreso ed è tornato in Gambia, adesso fa il commesso in un negozio laggiù. Ogni tanto Mamudou ci parla.

Sulla spiaggia di Sabrata ogni volta che un’imbarcazione parte c’è una gran confusione: grida, controlli, spintoni e botte. Bisogna fare in fretta, perché in ogni istante può arrivare una pattuglia della polizia o altri interessati al turbinio di denaro e oggetti preziosi che passa di mano in quei momenti. Gli scafisti pare negozino con le “forze dell’ordine” libiche quante e quali imbarcazioni ignorare, probabilmente in cambio di qualche “regalo“. I migranti pagano gli intermediari, spesso connazionali, e questi consegnano l’incasso agli scafisti ma non c’è una biglietteria, quindi ognuno decide la tariffa e si negozia anche sulla base del numero di viaggiatori ma soprattutto della loro provenienza. Si sa che alcuni possono pagare di più, e non sono quelli dell’Africa subsahariana. Poi al momento dell’imbarco avviene il “conteggio”, gli intermediari contano i migranti e danno l’OK agli scafisti.

Quel pomeriggio di giugno del 2017, in pieno Ramadan, nel suo ultimo giorno in Africa, Mamudou ha percepito che quella sarebbe stata la volta buona per lui. Dice proprio così: “L’ho sentito dentro”.

Il gommone è arrivato di mattina presto via terra, scaricato a pezzi sulla spiaggia e montato in fretta e furia, insieme a un altro. I passeggeri hanno pagato e sono stati “contati” dal trafficante dentro una sala. Tra loro c’era anche il venditore di frittatine che aveva abbandonato tutto il suo banchetto per partire. Due sono i gommoni salpati in mattinata, scortati dagli scooter d’acqua di due fratelli trafficanti e dei loro associati, armati di Kalashnikov. I fratelli arrivano in spiaggia sulle loro grandi macchine di lusso. Il primo gommone, quello che aveva il navigatore a bordo, è stato fermato al largo dalla Guardia Costiera libica che ha arrestato tutti i passeggeri; il secondo è andato un po’ avanti e poi si è fermato e ha iniziato una manovra di rientro, a loro, non dotati di navigatore, era stato detto di seguire il primo, ma adesso avevano paura di perdersi nel Mediterraneo. Uno dei due fratelli, sulla sua moto d’acqua lo ha raggiunto e ha sparato delle raffiche in aria minacciando i migranti e dicendo loro di dirigere subito a Nord verso il mare aperto, ma sull’imbarcazione c’era il panico. Temevano di essere catturati dai Libici e di smarrirsi in mezzo al mare e volevano rientrare. Il trafficante sparava e stava perdendo la pazienza, quando è stato raggiunto dal fratello che lo ha bloccato e disarmato abbracciandolo da dietro. Il gommone è approdato e molti sono scappati; i trafficanti e alcuni migranti lo hanno tratto in secca e Mamudou si è intrufolato nella pattuglia di quelli che osservavano sulla riva.

Il gommone era pagato, e probabilmente sarebbe stato difficile smontarlo e portarlo via, così i trafficanti libici hanno chiesto agli intermediari subsahariani di preparare un nuovo conteggio di centoventi per far ripartire subito il gommone appena approdato. Inizia il conteggio con quelli che stavano in spiaggia, e il ragazzetto gambiano rientra nel numero. Quelli contati devono caricare l’imbarcazione e rimetterla in acqua. Pesa tantissimo e Mamudou non arriva quasi neanche a toccarla, perché è un sedicenne bassino e ossuto, così finge di aiutare anche lui e finisce in acqua, bagnandosi fino al petto.

Fasi concitate, grida, ordini, numeri. Mamudou sente improvvisamente bruciare la schiena, ha maglietta e calzoncini bagnati mentre trascina il gommone in acqua. Un dolore bruciante, improvviso. Una frustata dagli scafisti per convincerlo a fare più in fretta.

Brucia, ma lui sorride e ricorda ancora oggi perfettamente di aver pensato “Questa è l’ultima. È l’ultima frustata che mi danno in Africa”. Adesso il mezzo è in acqua e lui ci salta sopra. Per primo. Vengono imbarcate circa centoventi persone e lui è riuscito a salire per primo, con la schiena che brucia, e obbedisce a tutto ciò che gli dicono. È seduto a prua, immobile assiste al carico dei compagni di viaggio che si dispongono secondo le indicazioni dei trafficanti fino a riempire completamente ogni spazio possibile. Seduto al suo fianco c’è il suo amico venditore di frittatine.

Presto, presto! A tutti viene chiesto di liberarsi degli indumenti bagnati. Bisogna fare presto. Si toglie i pantaloncini e resta in mutande. Il motore ruggisce e si forma la scia bianca, sono partiti.

“Forse non toccherò più la terra con i piedi.” Quasi ride oggi mentre mi ripete questa frase, il suo ultimo pensiero africano. Qualche volta interrompo il suo racconto e chiedo di precisare qualcosa che non riesco a capire. Lo faccio anche stavolta, anche se avevo capito perfettamente ciò che intendeva.

Quel giorno di giugno la costa libica è piena di migranti; da Sabrata partono diverse imbarcazioni.

Cala la sera e il gruppo di Mamudou è scortato da diversi aquascooter dei trafficanti. Girano intorno, vanno avanti e indicano la via libera. Sul gommone alcuni, quelli che potevano permetterselo, indossano il giubbotto salvagente, ma la maggioranza ne è priva. Pochi sanno nuotare.

La scia di schiuma non la vede più nessuno, quasi tutti gli occhi sono puntati verso l’orizzonte del mare aperto, alla ricerca di natanti al largo, anche se ormai si vede poco. È trascorso poco tempo dalla frustata d’addio e finalmente dalla semioscurità appare lontana una nave militare europea, spagnola. Gli scooter d’acqua dei trafficanti tracciano larghe scie e rientrano. È Ramadan e si torna a casa per cena. C’è emozione, qualcuno vorrebbe alzarsi per segnalare, ma no, non si può, è pericoloso. Giù… tutti giù, seduti!

Il gommone procede avvicinandosi lentamente verso la nave spagnola, che resta immobile sull’orizzonte. Presto i militari spagnoli arrivano anch’essi sui loro aquascooter a due posti, chiedono in inglese se tutti sul gommone stanno bene e controllano a occhio che l’imbarcazione tenga il mare. “Tutto a posto. State tranquilli, indossate i giubbotti che adesso vi porta la nostra barca d’appoggio, torniamo tra poco. C’è una barca che sta affondando qui vicino e dobbiamo andare prima da loro” La cacciamine spagnola li osserva da lontano, mentre da essa partono diverse imbarcazioni. Una di queste affianca il gommone e rifornisce di giubbotti salvagente i migranti alla deriva. Poi si allontana, non è sicuro effettuare le operazioni di trasbordo con una sola barca, c’è il rischio di ribaltamento.

Finalmente si avvicinano due barche, inizia il trasbordo dal gommone alle barche, disposte ciascuna su un fianco della barca di Mamudou.

Le luci della nave si avvicinano. Uno a uno vengono trasbordati sulla cacciamine, arrampicandosi sulla scaletta e seguendo gli ordini degli Spagnoli. A bordo finalmente acqua e cibo. Cibo da ospedale, ricorda Mamudou, convinto che contenesse qualche farmaco. A bordo dignità ed Europa.

“Forse non toccherò più la terra con i piedi.” E invece, caro Mamudou, hai ancora tante scarpe da consumare.

Capitolo sette – Bro…
I due amici, Ibrahim e Mamudou, s’incontrano spesso alla stazione dei pendolari. Si conoscono dai tempi della casa famiglia di Ciampino, quando da coinquilini hanno stretto amicizia, nell’autunno del 2017. Entrambi parlano la stessa lingua transnazionale dell’Africa occidentale: il pulaar. Oggi frequentano la scuola al pomeriggio, il primo va in un istituto tecnico, mentre il secondo frequenta il CPIA che prepara per l’esame di terza media.

Qualche volta con lo scooter accompagno Mamudou alla stazione dell’Olgiata dove spesso incrocia Ibrahim e percorrono parte della tratta ferroviaria insieme, sia all’andata che al ritorno. Si salutano davanti all’ingresso della stazione, vivacemente decorato da murales variopinti: i due ragazzi si scambiano quei saluti sorridenti che fanno tanto american bro: pugni che si toccano, palmi che si battono tra loro e gestualità rituali da giovani. Sono vestiti bene, puliti e ordinati, a volte anche troppo profumati.

Ibrahim o “Ibra”, come lo chiamano tutti, è molto socievole; Mamudou, che è invece piuttosto timido, mi racconta di lui che ha tantissimi amici. È un po’ più basso di lui, non fuma ed è molto sveglio. L’ho visto qualche mese fa parlare al microfono con una discreta disinvoltura in una sala della Camera dei Deputati a testimoniare delle esperienze e delle difficoltà dei ragazzi migranti che superano i diciotto anni.

Siamo stati convocati a casa di Alessandra, che ospita Ibra ormai da diversi mesi: una giornalista vorrebbe incontrare ospitanti e ospitati e raccogliere le loro storie per un suo progetto di inchiesta sulla realtà dei migranti neomaggiorenni in uscita dal sistema di protezione dedicato ai minori e sugli effetti dei famigerati decreti sicurezza.

L’incontro è fissato per le 10 di mattina e con Mamudou arriviamo in anticipo. La casa nella quale Alessandra si è trasferita da poco tempo è stata scelta proprio per disporre di uno spazio dedicato per Ibra e si trova all’interno dell’Olgiata, un comprensorio chiuso e dagli ingressi vigilati, dove non è neanche tanto facile orientarsi percorrendo viali tortuosi e funestati da dissuasori di velocità che attentano alle colonne vertebrali di residenti e visitatori motorizzati. Mamudou c’è già stato in bici, in visita dal suo amico, così è in grado di guidarmi in pochi minuti diritto al portone. Mentre Alessandra mi mostra la casa, bellissima nella sua concezione da architettura contemporanea, i due ragazzi escono per andare ad accogliere la giornalista alla sbarra dell’ingresso del comprensorio.

Per la casa si aggirano due cani e diversi gatti che hanno trovato un equilibrio pacifico invidiabile; dopo pochi minuti i ragazzi arrivano con la giovane giornalista e ci accomodiamo in soggiorno.

Laura è bresciana e si è appena trasferita nella capitale, lascia fluire le testimonianze a turno mentre registra con il suo cellulare; ha un portatile sulle ginocchia e ogni tanto domanda e annota qualcosa. È empaticamente coinvolta dai racconti, sia quello delle famiglie ospitanti, che quello dei ragazzi. Insieme riviviamo alcuni momenti anche tragici, soprattutto quando Ibra fa riemergere con dolore il racconto della perdita del padre e del fratello, con cui aveva intrapreso il viaggio dalla Sierra Leone; alla partenza dalla Libia la sua famiglia è stata separata: gli scafisti libici hanno disposto Ibra su un gommone e i suoi familiari su un altro. Quando la nave di soccorso lo ha raccolto, l’altro gommone era naufragato e solo alcuni dei corpi sono stati recuperati. Nonostante le ricerche successive, anche da parte di Alessandra negli archivi disponibili, non si è avuta più nessuna notizia e il papà e il fratello maggiore di Ibra sono stati dati per dispersi. Non è facile parlarne, ma Ibra con dolore prosegue nel racconto mentre Laura annota. Ogni tanto ci scambiamo degli sguardi sorprendendoci con la bocca socchiusa a cercare un’aria che ci manca; è una verità che fa male, ci lascia senza fiato, il classico pugno sullo stomaco. Per fortuna ci sono i cani a creare qualche momento di distrazione: raccolgono un gesto di affetto e subito se ne approfittano con l’invadenza che li caratterizza.

Il viaggio di Mamudou ha la caratteristica di essere un’odissea solitaria: migliaia di chilometri macinati a tappe da un bambino solo, che si procurava il modo di arrivare alla tappa successiva grazie al lavoro o alla benevolenza di qualcuno. Nella sua narrazione mentre lo spazio appare definito il tempo sembra liquefarsi: ci sono tappe di otto mesi e tappe di poche ore, ma per lui non sembra importante definirne i limiti temporali, anzi a volte non riesce a ricordare se in un posto è rimasto una settimana o tre mesi. Non sa esattamente quando è partito, ricorda che mancavano pochi giorni alla fine del Ramadan, ma non sa di quale anno, e per capire quando è sbarcato in Italia dobbiamo rifarci alla relazione della casa famiglia.

Dopo oltre quattro ore l’intervista finisce; Ibra è già uscito per non perdere la giornata scolastica, mentre Mamudou è rimasto a raccontare alcuni episodi della sua esperienza e salta per la prima volta un giorno di scuola. Riceve anche la telefonata di un amico egiziano che s’informa sulla sua assenza. Ne sono contento e per nulla stupito, non avevo dubbi sulla sua capacità di stringere amicizie e legami significativi, sia per averlo visto alle prese con Francesco, sia per aver letto la relazione sociale della casa famiglia che lo disegna con un buon carattere e disponibile. La conferma me l’aveva fornita il brillio dei suoi occhi quando mi ha raccontato della gioia di aver reincontrato alla stazione Termini il suo amico venditore di frittatine di Sabrata, quello seduto al suo fianco sul gommone quando “sono passati”.

Capitolo otto – Inshallah

Stavo tagliando il prato in giardino, di sabato pomeriggio, quando si è affacciata Antonella chiedendomi di spegnere il tagliaerba per potermi parlare.

Mamudou è in giro con i suoi amici, da qualche parte nei dintorni, Francesco è in giro anche lui con amici e sta per rientrare per la solita partita di pallanuoto di allenamento. Qualcuno ha chiamato al telefono di casa, chiedendo del nostro ospite. Uno dei curriculum distribuiti ha colto nel segno.

Lunedì scorso Mamudou era molto giù di morale. “Tra due mesi cade il permesso, se non ho contratto faccio lavoro nero per due mesi e poi vado dalla polizia e mi faccio mandare al mio paese, con duemila euro apro la mia officina e lavoro”.

Niente, sembrava così demoralizzato da non aver voglia di far nulla. Tratteneva le lacrime asciugandosi gli occhi con l’onnipresente fazzolettino di carta in mano. Non voleva andare a scuola, né uscire a consegnare curriculum e girare alla ricerca di lavoro. Un’ora di colloquio, lui seduto sul margine del suo letto e io in piedi sull’ingresso della sua stanza. “Il tuo lavoro adesso è cercare lavoro, devi uscire e incontrare persone, presentarti e lasciare il curriculum”. “Ma io non voglio perdere tempo. Così mi sembra di non trovare”. Come dargli torto?

“Dio decide per me. Io vedo la mia vita come in uno specchio. Per tutto c’è un tempo giusto, devo solo aspettare. A Rieti sapevo che non finivo per strada. Dio mi ha aiutato. Io non voglio essere aiutato, io voglio aiutare”.

“Ma Mamudou, Dio non decide per te. Tu decidi per te. E Dio benedice le tue azioni se sei buono. Tu non devi aspettare che Dio decida per te. Hai superato tante prove e attraversato tanti paesi e adesso ti fermi e aspetti? Alzati e vai a fare il tuo lavoro di cercare lavoro, e poi a scuola, che serve per capire il mondo che ti circonda e non farti fregare”.

Mamudou si è convinto e per tutta la settimana si è alzato presto e andato alla ricerca di lavoro e poi a scuola al pomeriggio.

C’è in giro il virus influenzale, Antonella lo ha preso. Ha la febbre ed è piuttosto debilitata. Anche Francesco tossisce e Mamudou è molto raffreddato e ha la voce nasale.

Sta diventando sempre più importante la questione del lavoro. A gennaio scade il permesso, e tra un mese scade il termine per presentare la richiesta del rinnovo, il famoso kit da presentare alle Poste, pagando tra tasse e diritti circa 100 euro; sarebbe fondamentale riuscire ad arricchire la domanda con un contratto di lavoro vigente.

Mamudou è stato convocato per domenica mattina alle 10 in un ristorante nei pressi di piazza della Repubblica per una prova da lavapiatti, e anche se Alessandra, incontrata casualmente al supermercato, ci ricorda che statisticamente il primo lavoro gli immigrati africani lo perdono quasi subito perché hanno difficoltà nell’allinearsi ai ritmi lavorativi che ci si aspetta da loro, abbiamo ugualmente fiducia e incrociamo le dita.

Prima di andare a letto, vado a trovare Mamudou nei suoi quartieri per parlarci un po’… Si sta rollando qualche sigaretta in attesa di mettersi in pigiama. È tranquillo come sempre. Ne approfitto per dargli qualche consiglio per l’indomani, solo tre, non voglio che vada dispersa la sua attenzione: attenzione appunto innanzitutto, fa’ con cura ciò che ti dicono e il più rapidamente possibile; certezza della comprensione, ricordati di chiedere sempre se non hai capito qualcosa, non dire di sì se non hai capito bene; e in ultimo gli occhi, lo so che non ti riesce naturale ma devi cercare di farlo, tieni gli occhi fissati negli occhi di chi ti parla, ricorda che questo apre il tuo cuore e quello della persona che ti parla, se guardi una persona negli occhi questa può capire se può fidarsi di te, può vedere nel tuo cuore che sei una persona buona e tu capirai se lei è sincera.

“Sì, Salvatore, anche mio padre sempre mi ha detto questo, solo io non riesco, ma adesso provo” e nel frattempo mi fissa negli occhi.

Buonanotte, e gli do una pacca sulla spalla. Credo molto nel contatto fisico, lui non osa farlo mai. Si ritrae sempre anche quando a tavola ci passiamo qualcosa.

L’appuntamento è in un ristorante al centro di Roma, tra via Veneto e la stazione Termini, ci arriva mezz’ora prima grazie a una fortunata coincidenza treno/metro. Inizia quasi subito a lavare pentole e piatti, in piedi alla sua postazione, in cucina. Si è cambiato nello spogliatoio, un ragazzo egiziano gli ha spiegato i rudimenti: come muoversi e dove trovare gli strumenti; lava qualche pentola rimasta dalla sera prima e poi lavora ininterrottamente e sempre più intensamente dalle 11 fino alle 16, quando lo liberano chiedendogli di rientrare per il turno serale dalle 19 in poi. Ha mangiato una fettina di carne e delle patatine fritte, e una Fanta, acquistata in un bar adiacente. Con tre ore di pausa non ha possibilità di riposarsi da nessuna parte. Farebbe appena a tempo a tornare a casa per poi dover ripartire immediatamente.

Ci scambiamo dei messaggi durante il giorno. È domenica e noi abbiamo dei parenti ospiti a casa. “Come va?”. Le sue prime risposte sono tranquille, “Tutto bene”, “Va bene, OK”, “Finisco alle 16, così gli altri giorni posso anche andare a scuola”… Con il calare della sera discutiamo il problema del rientro: la metro chiude alle 23,30 mentre il trenino dei pendolari addirittura alle 22. Dovrà rientrare a casa con il 201, un bus che non ha nessun punto di contatto con la metro quindi dovrà raggiungere a piedi da piazzale Flaminio il capolinea del 201 a piazza Mancini, tre chilometri e mezz’ora di passeggiata notturna. Dice che dovrebbe finire a mezzanotte ma i suoi messaggi vocali virano dal tono rassegnato a uno più deciso: “Non ce la faccio io questo lavoro, troppo duro” “Adesso dico al capo che vado via alle undici” “Io questo lavoro non posso fare, troppo duro, no no no…”.

Ha lavorato sei ore di giorno e quattro la sera. Sempre in piedi a lavare pentole e stoviglie. Non era in forma perfetta, quando è uscito era piuttosto raffreddato. Naturalmente non sa né quanto verrà pagato né quale sia il suo reale orario di lavoro. Mica il giorno della prova il capo viene a spiegarti certi dettagli. Mamudou è uno dei tanti che si avvicinano al lavoro vero e restano scottati.

Finalmente arriva il capo, un secondo capo, non quello del colloquio del mattino, questo è un trentacinquenne che durante la serata era già entrato in cucina e aveva fatto un giro in silenzio, osservando i lavori in corso e dedicando dieci secondi del suo occhio taciturno anche a Mamudou. Il capo lo osserva, silenziosamente, mentre lui dice che non ce la fa a svolgere questo lavoro, troppo faticoso, e che vuole andar via prima di perdere l’ultima metropolitana. Racconta Mamudou che trascorrono due minuti in silenzio, ma credo che si tratti di una sua interpretazione dilatata del tempo, fin quando il capo gli consegna 40 euro e gli dice “Buona fortuna!”.

Manca mezz’ora a mezzanotte quando mi arriva il vocale con la richiesta di aiuto. “Sono a Valle Aurelia, non so come tornare e sto molto male”. “Ma che ci fai a Valle Aurelia? Dovevi scendere a Flaminio per prendere il bus. Va bene esco subito. Ti chiamo appena arrivo”.

Mi racconterà che non è sceso a Flaminio perché ha il cellulare scarico e Google Maps lo fa spegnere, così non avrebbe mai raggiunto a piedi il capolinea del 201. Quindi si è avvicinato il più possibile a casa e poi ha chiesto aiuto.

A Valle Aurelia ci sono diverse uscite, ci arrivo in mezz’ora, ormai è mezzanotte, provo a chiamarlo, risponde la segreteria. Scendo dall’auto e chiedo a un tizio se ha visto un ragazzo nero; mi indica una direzione, naturalmente è l’altra uscita. Devo risalire in auto e percorrere un chilometro e mezzo per fare il giro e portarmi dall’altro lato. Non riesco a vederlo. Improvvisamente sento bussare sul lunotto posteriore. È lui, con uno sguardo scuro come mai sale in auto e dice “Scusa Salvatore, no, io non ce la faccio questo lavoro”, aggiunge di essere molto stanco e di sentirsi male. Gli consegno il termometro e ripartiamo per casa.

“Hai lavorato più di dieci ore. Hai fatto due turni, praticamente il lavoro di due persone. È normale che tu sia stanco“.

“No, io non posso fare questo lavoro, troppo duro per me”.

“La prossima volta, dai retta a me, non metterti a consegnare il tuo curriculum nei ristoranti del centro, prova con quelli vicino a casa e adesso che sai che lavoro è, quando fai il primo colloquio chiedi informazioni sui turni”.

Il termometro dice trentasette e due e – dice Mamudou – “Non ho febbre, solo sono stanco”.

Mi racconta che dopo l’incontro con il capo è andato nello spogliatoio a cambiarsi ed è stato raggiunto da un bengalese che gli ha detto “Tu qui non puoi stare, ci sono le nostre cose”. “Va bene – ha risposto – adesso esci e mi fai rivestire. Quando ho finito, chiami tutti gli altri e controllate se manca qualcosa, io non sono ladro”.

A casa prende una pillola per il raffreddore e va mesto a riposare.

Capitolo nove – Che Guevara… il cantante?
La prima volta che ho visto Mamudou è stato in un bar vicino casa, intorno a metà agosto 2019, quando l’ho incontrato insieme ad Antonella per un appuntamento fissato dalla nostra amica Alessandra. In quell’occasione ci aveva raggiunti insieme al suo amico Ibra con cui erano andati a passeggio. Avevamo trascorso appena dieci minuti insieme seduti al tavolino, giusto per confermare a noi stessi che accogliere quel ragazzo in difficoltà non sarebbe stato un grande problema.

La seconda volta che l’ho incontrato è stato a casa di un’amica di Officina 47, una persona piuttosto impegnata socialmente e politicamente. Sono andato a prenderlo per accompagnarlo nella sua nuova abitazione, da noi. Quando sono arrivato c’erano, esposti ad asciugare sul lavello, i pentoloni da ristorante nei quali la mia amica aveva preparato pasta e tè per Baobab, l’organizzazione di volontari che offre assistenza ai migranti che orbitano intorno alla Stazione Tiburtina, in attesa di partire alla volta di Francia o Germania. Era andata da loro la sera precedente e si era fatta accompagnare da Mamudou.

Al telefono mi aveva detto che questo ragazzo le sembrava poco propenso a investire nei rapporti personali; non che fosse asociale, ma in qualche modo doveva aver imparato, durante la sua odissea, che è meglio non esporre troppo il cuore. Quindi un taciturno che restava molto sulle sue.

Mi è sembrato tranquillo in quella casa a due passi dal Colosseo, di quel tipo di tranquillità di chi sa che sta per cambiare treno e si trova in anticipo e con tutti i bagagli in ordine davanti al predellino. Uno che attende l’esito del destino che lo mette alla prova.

Mentre lo osservavo, ha ricambiato solo uno sguardo, di sfuggita; quando prendevo il caffè con la nostra amica lui era impegnato a reperire le ciabatte; era stato, in precedenza, un paio di giorni da altri amici, anche questi allertati dalla rete di Officina 47, che gli hanno regalato un paio di braccialetti colorati di caucciù, di quelli con la scritta UNHCR, l’agenzia dell’ONU che si occupa di rifugiati. E prima ancora aveva trascorso una notte in un alberghetto nei pressi della stazione Termini, dove aveva fatto tappa appena uscito dalla casa progetto di Rieti.

Il progetto di sei mesi che lo aveva visto trasferire, neomaggiorenne, nel gennaio 2019 dalla casa famiglia di Ciampino alla casa progetto di Rieti, si era appena concluso: si trattava di un progetto finanziato dal Ministero dell’Interno e gestito dal Comune e dall’ARCI di Rieti, per cui ha lavorato da tirocinante nella cittadina laziale e percepito anche una piccola paga che a lui è sembrata un patrimonio, purtroppo subito disperso per la sua scarsa capacità di gestire il denaro. Gli 800 euro caricati su una carta di debito si sono volatilizzati con l’acquisto di un cellulare usato da un amico, un paio di magliette e un pantaloncino, un money transfer di 80 euro alla famiglia in Gambia, tre notti pagate in anticipo in albergo (due delle quali non fruite), un abbonamento ai trasporti pubblici e le immancabili sigarette. Nessuno gli aveva spiegato che ogni volta che effettuava un prelievo avrebbe pagato due euro di commissione. E così, a forza di microprelievi da 50 euro, nel giro di un mese i soldi sono spariti.

Ha raccolto le sue poche cose in una borsa sportiva, inclusa la bella maglietta rossa con raffigurato Che Guevara, dono del figlio della sua ospite, e siamo partiti alla volta della sua nuova casa alla periferia di Roma Nord, pieni di curiosità. Durante quel viaggio, durato oltre due ore per via del traffico, abbiamo iniziato a conoscerci parlando di musica e solo marginalmente della sua situazione.

A casa l’impatto è stato morbido, giusto le presentazioni, la visita della casa e della sua stanza, le primissime regole, una cena insieme e un film in TV, prima di mettersi al lavoro il mattino successivo per montare il portabici sull’auto, caricare i bagagli e partire per l’Abruzzo, dove trascorriamo ogni anno gli ultimi giorni delle ferie estive, insieme con la famiglia di mia cugina, con cui facciamo a gara a chi raccoglie più more per realizzare la confettura di fine stagione: un appuntamento familiare immancabile.

I ragazzi, Francesco e i due figli di mia cugina, Fabio e Silvia, hanno stretto facilmente amicizia con il nuovo arrivato; è stato un piacere vederli mentre cercavano di insegnare a Mamudou a giocare a scopa. I ragazzi non sono razzisti, lo diventano solo quando gli marcisce l’anima per la vicinanza con persone marce. Tutti e quattro hanno riso e scherzato per tutta la settimana e si sono rispettati reciprocamente, innatamente attenti a lasciarsi anche spazi di autonomia.

Prima ancora di cimentarci con la raccolta delle more siamo passati a Ovindoli per una passeggiata in bici sull’altopiano con pic-nic nel bosco e al rientro ci siamo fermati al centro commerciale per acquistare qualche vestito, scarpe e un po’ di abbigliamento intimo per il nostro ospite che ne aveva urgente bisogno. È stato lì che mi ha detto per la prima volta “Grazie”, mentre usciva da un negozio con due scatole di scarpe nuove.

Nei tre giorni successivi ci siamo dedicati alla raccolta delle more. Alla pesa finale il campione è stato Mamudou, che ha ampiamente superato i due chili. Con mia cugina Emanuela si scherza sempre sulle quote di confettura spettanti a ciascun nucleo. Ogni anno noi eravamo in tre a raccogliere, e loro in quattro, ma stavolta noi avevamo lo straniero in squadra che ci ha reso imbattibili!

Un po’ meno imbattibili con il gioco delle bocce, che gli è piaciuto moltissimo ma almeno inizialmente è stato proprio lui la palla al piede per la nostra squadra; sembrava avesse una particolare capacità nello sbocciare solo le bocce che avevamo appena piazzato, per l’ilarità generale, ma dopo le prime figuracce ha appreso bene regole e strategie e adesso non dico sia diventato un campione, ma fa la sua porca figura anche se cerchiamo di farlo giocare per primo.

Durante una passeggiata ha anche avuto un incontro ravvicinato con i cervi del parco nazionale e si è divertito molto insieme ai cugini a nutrirli con il nostro pane raffermo. Dice di non aver mai visto dal vivo animali del genere; a casa sua la deforestazione ha causato l’estinzione dei grandi animali selvatici. Gli unici che racconta di aver visto sono i coccodrilli che andava a osservare dal ponte sul fiume vicino casa. Il giorno successivo alla passeggiata aveva cambiato il suo profilo WhatsApp con la foto che gli ho scattato mentre si avvicinava guardingo al cervo.

Al rientro a Roma i ritmi si sono assestati con gli impegni lavorativi, il disbrigo delle pratiche amministrative per Mamudou e la fine dei compiti delle vacanze per Francesco.

La prima domenica siamo andati a casa dei miei cognati Barbara e Massimo, pranzato a bordo piscina e giocato anche lì a bocce. Mamudou ha fatto conoscenza con i cugini di Francesco e giocato con loro. A un certo punto Diletta, che studia al Liceo Artistico, ha anche cercato di insegnargli un po’ di tecnica del disegno: hanno realizzato una casa, un Maggiolino Volkswagen e un cagnolino.

Mi è sembrato molto sereno quando l’ho visto insieme con gli altri ragazzi. Pensavo a quella normalità familiare di una domenica d’estate e ai pensieri che potevano passargli per la testa, a lui, che ha iniziato a lavorare in officina a 9 anni e ha attraversato da solo mezza Africa.

“Ma, una domanda, Mamudou… Tu lo sai chi era Che Guevara, quello della tua maglietta rossa?”

“Un cantante?”

Capitolo dieci – Il tempo sta per scadere

E così siamo arrivati al decimo capitolo di una storia in cui una normalissima famiglia come la nostra si sta trovando a percorrere sentieri nuovi e inaspettati, ad approfondire temi e questioni pratiche fino a oggi appartenenti a realtà da telegiornale o da articolo letto di sfuggita sul web. Ma è stata una nostra scelta e non vogliamo né possiamo lamentarcene.

Sulla poltrona letto che fa da comodino a Mamudou campeggia ancora un foglietto con la scrittura di Antonella: ci sono elencati in colonna i nomi dei mesi dell’anno, quando entro nella sua stanza sorrido nel vederlo. È stato scritto durante la seconda settimana dal suo arrivo. Ogni giorno ci stupivamo che gli mancassero le basi della misurazione del tempo. In quei giorni io gli ho insegnato a leggere l’ora sul quadrante, sui diversi orologi da muro che arredano le pareti di casa, ma anche nelle stazioni ferroviarie. Ci sono delle conoscenze che tutti diamo per scontate ma sono retaggio della scuola di base e se non l’hai frequentata puoi anche essere un gran conoscitore del mondo dei rapper ma poi non riesci a leggere che sono le dieci meno un quarto se hai il cellulare scarico. Tra le cose che non ti aspetteresti mai di fare c’è appunto il dover aiutare un giovane adulto a recuperare questo tipo di conoscenze di base o ancora trovarsi a cercare di smentire notizie riferite come assolute verità, come ad esempio quella secondo cui si debba far attenzione a certe persone cattive, che sono state inviate addirittura dall’Africa in ragione di una sorta di maledizione, esseri malefici che se ti si avvicinano possono introdurre nel tuo corpo un organismo che inizia a divorarti a poco a poco da dentro, fino alla morte. “Ma che dici, Mamudou? Chi ti racconta queste cose?” “Sono vere, Salvatore! Sono vere!”. E allora mi trovo a cercare di discutere con lui attaccandomi allo studio, a dire che certe idee svaniscono se si studia e si impara a riconoscere una leggenda dalla realtà. Ma poi penso ai terrapiattisti che si sono riuniti a Palermo qualche settimana fa, a quel libro di Ernesto Di Martino “Sud e Magia” letto per caso quando lavoravo in libreria a Napoli, al fatto che ancora oggi in tutta Italia e nel mondo prosperano chiromanti, astrologi, guaritori e cartomanti approfittando di certa sottocultura. Mi consola solo sorridere dei terrapiattisti quando Francesco mi mostra qualche meme particolarmente arguto sull’argomento.

Molte persone hanno letto la storia di Mamudou e alcune continuano a leggerla, attendono gli sviluppi e tifano per il nostro amico e per la famiglia che lo ospita. La realtà quotidiana è fatta di piccole e grandi difficoltà, di momenti di sconforto, per noi e per lui, e di gioie inattese.

Siccome lo scopo di questa cronaca è anche di registrare le complessità quotidiane e le emozioni di un’esperienza un po’ originale, continuo a raccontare anche se a volte devo confessare che la voglia di farlo si affievolisce. Gli episodi di razzismo si moltiplicano e in quest’ambiente dobbiamo comunque muoverci per trovare un contratto per Mamudou. Tra poco, pochissimo, scade il suo permesso e sono angosciato perché per ottenere il rinnovo deve trovare un lavoro con un contratto regolare.

Se da un lato il morale non è effervescente, dall’altro ci sono episodi che lo rianimano: sono arrivate diverse offerte di aiuto da parenti e amici, persone a cui la lettura di questa storia ha aperto il cuore e vorrebbero fare qualcosa di concreto: chi ha espresso solidarietà e calore; chi da artigiano offre i suoi servigi; chi ha proposto di pagargli un abbonamento stagionale per fare sport, dato che Mamudou è comunque un ragazzo; chi si rammarica quando sente che la sua taglia per le scarpe è il 45 o che è alto 1,87 e indossa solo pantaloni stretti o con elastico in fondo ed è complicato trovargli abiti adatti perché è alto ma molto magro; chi vorrebbe aiutarlo in qualche modo ma non sa come. Ve lo dico subito, non chiederò nulla per lui. Ciò che gli serve lo acquistiamo già insieme alle nostre spese alimentari e di abbigliamento. Non ha tempo di praticare sport, tra scuola e impegni vari. Sì, perché oltre alla scuola media tra poco Mamudou, se ha superato il test di italiano di qualche giorno fa, inizierà anche un corso di scuola guida, offerto gratuitamente da un’organizzazione, Prime Italia, che abbiamo conosciuto a un evento dei salesiani.

L’evento dei salesiani, già. Siamo andati, Mamudou ed io, un sabato pomeriggio all’open day dei salesiani sul tema dell’immigrazione, alla basilica del Sacro Cuore nei pressi della stazione Termini, e abbiamo avuto modo di conoscere diverse iniziative di aggregazione, formazione e inclusione, tra cui questa bellissima della scuola guida (la patente è molto importante per chi cerca lavoro, anche se non si dispone di un automezzo proprio). Le ragazze presso le quali si è iscritto per affrontare il test introduttivo di italiano avevano anche una piccola esposizione di collane di legno fatte a mano in Kenia. Siccome quelle collane erano un po’ nascoste dietro al banchetto e mi sembravano proprio belle, ho detto alle ragazze che, se ci avessero autorizzati, insieme a Mamudou avremmo fatto un giro del cortile in cui si teneva l’evento per tentare di promuoverne le vendite. Era così… per scherzare, ma anche per mettere alla prova la faccia tosta del nostro amico. E così, un po’ lui e un po’ io, abbiamo indossato le collane e sfilato tra la gente ridendo e scherzando e proponendo l’affare, insomma due vucumpra’ a un evento sull’accoglienza. Certamente in quel cortile di razzismo non ne serpeggiava un granché.

Abbiamo avuto un certo successo, dico “abbiamo” anche se in realtà le collane le ho vendute tutte io perché Mamudou è molto timido, dice che ha preso questa caratteristica da sua madre. Io abbordavo le signore e Mamudou, non finendo mai di schermirsi per la vergogna, faceva da modello. Esibivamo così le collane suggerendo quella che secondo noi si addiceva di più all’abito, agli occhi, o al carattere della potenziale cliente e poi, ma senza esagerare, cercavamo di convincerla che quella era proprio la collana per lei. Mentre Mamudou era intento a intascare l’incasso, io già cercavo nel cortile la prossima “bella signora” a cui presentare la premiata ditta e l’ineguagliabile mercanzia.

Siamo tornati dopo neanche quindici minuti dalle ragazze dello stand con 70 euro e le facce allegre. “Ma come avete fatto? Da stamattina non ne avevamo venduta neanche una!” “Eh… è il mio lavoro, io sono un venditore nella mia vita professionale” “Ma che lavoro fai?” “Ehm. Vendo libri e banche dati sulla sicurezza sul lavoro, diciamo che le collanine di legno non sono proprio il mio settore ma, se ci credi, con il sorriso si può vendere tutto e Mamudou quando sorride è convincente”. Poi una delle collane l’ho comprata per regalarla a mia moglie e un’altra le ragazze l’hanno regalata a Mamudou che, anche lui, a casa ne ha fatto dono ad Antonella.

Tra gli aiuti offerti, ho apprezzato molto quello di una mia amica che ha una società di comunicazione e si sta facendo in quattro per escogitare un contratto, anche un apprendistato, per lui. So che è andata a parlare anche con i titolari del ristorante di fronte casa sua per cercare un’opportunità. Ma le cose sono ancora in pieno divenire e ne parlerò un’altra volta, magari se si concretizza qualcosa.

La notizia triste è che Mamudou sembra aver perduto l’entusiasmo di girare per il quartiere con il suo curriculum. Mi ha detto un’altra volta quella cosa del tempo: “Io so che c’è tempo per tutto, io dentro me so che la soluzione arriverà Inshallah quando sarà tempo giusto, per questo non esco più”.

Così al mattino mi capita anche di dover fare la voce grossa per indurlo ad alzarsi e quando mi dice “Perché? È inutile” gli rispondo che deve andare in giro a distribuire il suo curriculum e a presentarsi personalmente.

Siamo usciti insieme una mattina perché volevo portarlo in alcuni ristoranti vicino casa ma li abbiamo trovati chiusi. In auto mi ha confessato che gli è passata la voglia di presentarsi e portare il curriculum perché un tipo gli ha intimato a brutto muso di non entrare nel suo locale e lo ha trattato come un ladro. “Eppure – dice Mamudou – ero vestito bene, con la felpa arancione che mi hai comprato”. Da un altro locale è stato cacciato senza poter neanche aprire bocca. Insieme abbiamo trovato un ristorante potenzialmente interessato e consegnato il curriculum, poi uscendo si è accorto di aver consegnato una busta vuota; nella fretta di uscire di casa accompagnato da me ha preso il pacchetto delle buste vuote… Pazienza, ci tornerà.

“Mi dispiace Mamudou, c’è molto razzismo in giro, ma tu non devi deprimerti. Non rispondere e allontanati. Il tuo lavoro per adesso è cercare un lavoro, non farti distrarre da questo. Ci sono persone molto incattivite, ma la maggior parte di loro non è davvero cattiva, solo ignorante e poco intelligente e ha paura di tutto ciò che è diverso; non ci devi litigare. Se dicono che il lavoro preferiscono affidarlo agli italiani va bene, che lo dessero agli italiani allora, intanto tu non ci devi litigare con questi, continua per la tua strada”.

Invece mi deprimo io, perché questo è il mondo in cui dovrà vivere anche mio figlio e io non ho più voglia di lottare contro queste vittime dell’ignoranza e di una propaganda politica priva di scrupoli. Persone con cui penso che non valga più la pena di parlare, persone che non leggono e se lo fanno non capiscono più. Mi ricordano i terrapiattisti a cui accennavo prima. Vivono nella loro bolla, in una verità parallela costruita su notizie distorte, costruita appositamente per loro, come cavie di laboratorio. I razzisti credono al loro dio in terra, non vogliono metterlo in discussione, qualunque cosa faccia, per me sono la peste del nostro secolo, la cui epidemia si diffonde sui social media e il cui unico vaccino penso sia la cultura, la socialità, i viaggi.

Ma adesso devo cercare di infondere coraggio e fiducia in sé e nel mondo a un ragazzo di neanche 19 anni che va tutti i giorni a scuola e mi dice che “Se cade il permesso, io scappo da Italia, vado in Germania”. “Che dici Mamudou? Non è una soluzione. Non avrai più un tetto e neanche il cibo, rischi di finire alla Caritas o peggio in galera per un panino o nei guai se ti coinvolgono nella droga”. Ma lo so che non riuscirei a fermarlo e non ne ho diritto, se dovesse succedere, e se accadesse la sentirei come una mia sconfitta.

Capitolo undici – Cinema, cultura e conoscenza reciproca

Pioveva molto forte a Roma quella mattina di fine settembre, e dopo la pioggia una fitta grandinata, tanto che il giardino di casa si è imbiancato. Siamo usciti, Mamudou ed io, con l’auto invece che con lo scooter per andare al CAF della CGIL per ottenere il certificato dell’ISEE di Mamudou. Reddito zero, naturalmente, ma occorre il certificato per poter avere il prezzo speciale per l’abbonamento ai trasporti pubblici in città: sedici invece di trentacinque euro. La frequenza scolastica e gli spostamenti quotidiani esigevano l’abbonamento.

Quando siamo usciti di casa indossava un K-Way rosso sgargiante che non gli avevo mai visto e che faceva anche un elegante contrasto con il colore della sua pelle. Mi ha raccontato di come quel giubbotto glielo avesse regalato Teresa, una signora anziana che lavorava per la casa famiglia di Ciampino. “Era buona Tresa. Sono andato da lei quando è morta”. “Al funerale?” “Sì, al funerale, c’erano tanti, era buona lei.”

Così durante lo spostamento in auto abbiamo chiacchierato e Mamudou, ispirato dal fenomeno atmosferico, mi ha raccontato di quando era piccolo e aveva il compito di curare le pecore della famiglia e una volta, mentre giocava con gli amici, sono stati sorpresi da una fitta grandinata e ha notato un agnellino dei suoi fuggire verso la foresta. La pioggia nel suo paese è piuttosto frequente e non sgradita: quando piove i ragazzini si tolgono gli abiti, restano in mutande a cantare, danzare e correre come degli scugnizzi in un film neorealistico; ma la grandine non è divertente, fa male e così mentre gli amici fuggivano a casa, lui è corso addentrandosi nella foresta insieme al suo migliore amico per catturare e ricondurre all’ovile l’agnellino. Mi spiegava come non avesse paura dei grandi animali selvaggi, perché non se ne vedevano più da quando una parte della foresta era stata abbattuta per recuperare terra da coltivare.

Giorni fa abbiamo visto insieme un bellissimo film francese sul Senegal “Il viaggio di Yao” del 2018 diretto dal regista Philippe Godeau con il franco-senegalese Omar Sy e l’affascinante cantante maliana Fatoumata Diawara. Il protagonista è un famoso attore francese di origini senegalesi, il cui nonno era un migrante che lavorava in fabbrica alla Peugeot, che incontra un ragazzino suo fan che ha marinato la scuola e viaggiato per 400 chilometri per procurarsi il suo autografo. L’attore e il ragazzino trascorrono insieme un paio di giornate imbattendosi in due donne speciali e in luoghi, usanze e ritmi senegalesi. Bel film davvero.

Vale la pena parlarne perché la visione è stata molto apprezzata da Mamudou che commentava riscoprendo con entusiasmo oggetti, abitudini o personaggi della sua terra. Per esempio il carretto a trazione animale: in diverse scene ce ne sono e lui mi ha raccontato di quello che aveva comprato suo padre, nuovissimo, trainato da un asino. E poi Dakar con la sua confusione non lo ha meravigliato e ha sorriso davanti alla scena della BMW bloccata dalla folla di fedeli che pregavano compatti, ordinatamente allineati in mezzo alla strada. In un’altra scena c’è una famosa ballerina e coreografa senegalese, Germaine Acogny, che interpreta credibilmente una maga alle prese con rituali e dialoghi con gli antenati del protagonista: allora Mamudou mi ha confermato che ce ne sono tante di quelle maghe dalle sue parti e fanno proprio quelle cose lì. Anche la stazione dei bus ha attirato la sua attenzione, mentre ha riso forte quando ha visto che i viaggiatori salivano su un treno in movimento che aveva solo molto rallentato nei pressi della stazione: “Sì, sì. È proprio così”. E infine la piazza con l’albero, luogo di riunione quando tutti escono di casa per il caldo. “Ah, ho capito. Il mercato?” “No Salvatore, è una piazza dove vanno tutti ma non c’è mercato. È un posto per incontrarsi e parlare. Bello questo film. Ho visto tante cose come nel mio paese”.

La ricerca del lavoro finalizzata ad ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno continua. Sono aperte diverse strade: al momento potrebbero concretizzarsi alcune possibilità, quasi tutte discorsi aperti ma non finalizzati: badante notturno per un anziano vedovo malato di Parkinson, uomo delle faccende di casa, accompagnatore di cani, colf, giardiniere…

C’è anche in vista un progetto con il Centro Astalli sull’inclusione dei neomaggiorenni che sta per partire, ma ancora non ne sappiamo nulla. Spero di trovare anche da questo centro, specializzato nell’assistenza ai migranti, qualche aiuto e qualche soluzione sostenibile per Mamudou e per quelli come lui. Non cerchiamo assistenza ma solo tranquillità e la possibilità di permettere a Mamudou di iniziare ad assumersi delle responsabilità in proprio con un lavoro e nel tempo possibilmente anche un alloggio autonomo, anche se condiviso. La questione dei neomaggiorenni è piuttosto seria e temo se ne parli ancora troppo poco. Si tratta di una frazione del popolo migrante presente in Italia, ma particolarmente fragile perché come Mamudou sono ex minorenni inseriti in programmi di accoglienza, gli è stata insegnata la lingua e un po’ della cultura europea, a volte sono stati iniziati tirocini per avviare i ragazzi al mondo del lavoro ma il numero di quelli che sta superando la maggiore età ed esce dal sistema della protezione cresce di giorno in giorno e non sembrano esserci soluzioni strutturali. Ci sono diversi casi di ragazzi e di ragazze che hanno anche trovato lavoro ma non hanno alloggio e per loro quello è un ostacolo quasi insormontabile perché è difficile trovare soluzioni abitative anche condividendo un appartamento.

Il tempo in Africa ha una dimensione diversa da quella che conosciamo noi. Poco comprensibile per gli Europei, è la prima complicazione per i migranti, che oltre a dover imparare la lingua hanno necessità di apprendere la cultura del tempo europeo. In quel film a cui accennavo in precedenza – “Il viaggio di Yao” – c’è in proposito una scena molto significativa: il protagonista chiede all’autista di un bus di Dakar l’orario previsto per la partenza del mezzo e il suo interlocutore lo guarda stupito con aria interrogativa. Allora il primo insiste: “Quando parte l’autobus?” e per tutta risposta riceve un sorrisetto ironico e la risposta “Quando sarà pieno”. Nel mondo rurale africano un orario e il concetto di puntualità non esistono, fa parte della filosofia locale; con questa significativa frase si chiude il film: “il tempo africano è quello che non passa mai, è diverso da quello europeo, arriva direttamente dal deserto e non ha nessuna fretta perché trascina l’eternità”.

Capitolo dodici – Il mio villaggio

Il villaggio dov’è nato e viveva Mamudou si chiama Darsilameh Sega; il nome è introvabile su Google Maps, ma si può osservare dalle foto satellitari, sapendo dove si trova, a circa 200 chilometri dalla capitale Banjul e a 30 dalla città più vicina Bansang dove c’è una stazione dei bus.

Alloggiava a casa di una zia il cui marito vive e lavora in Spagna, perché già a 14 anni Mamudou non viveva più con i genitori, probabilmente per il difficile rapporto con il padre e il proprio carattere un po’ ribelle e molto autonomo. In precedenza aveva provato un’altra volta la fuga, si era pagato il viaggio fino a Banjul vendendo di nascosto il gruppo elettrogeno dello zio. Nella capitale è stato notato, piccolo com’era, e riportato a casa, dove la famiglia ha recuperato dall’acquirente il gruppo elettrogeno restituendogli l’importo pagato. Nonostante nel corso della sua infanzia abbia ben conosciuto la cinghia, quella volta è stato graziato.

Ogni mattina, da casa dello zio, percorreva a piedi la strada verso l’officina di moto attraversando il ponte sul fiume Sandougou, affluente del grande fiume Gambia, chissà forse la sera al rientro si fermava sul ponte per osservare i coccodrilli che con la loro minacciosa immobilità avevano attirato la sua attenzione fin da bambino.

L’officina si trova presso un distretto artigianale e commerciale con dei capannoni che abbiamo spiato su Google Maps. Nel giugno 2015, quando è partito, era il mese di Ramadan. Nel suo racconto il ragazzino con la tuta sporca di grasso doveva riconsegnare in una città vicina un mezzo riparato e si è fatto accompagnare da un collega. Quella notte, dopo aver consegnato lo scooter al cliente e salutato il suo collega, Mamudou ha trovato alloggio in una capanna di pescatori sul fiume Gambia, dove si è lavato, lo hanno rifocillato e gli hanno regalato un cambio di vestiti.

Il mattino seguente ha raggiunto la stazione degli autobus di Bansang e ne ha preso uno per Banjul, attraversando da est a ovest quasi tutto il Gambia. Il biglietto lo ha pagato con la metà dei soldi incassati dal cliente a cui hanno riconsegnato lo scooter; l’altra metà l’ha trattenuta il collega dell’officina.

Non ricorda molto di quei primi giorni di viaggio, solo il cambio di abiti e l’ambiente di festa nella capanna dei pescatori. Ride sempre quando riferisce di quella capanna e chiama “mare” il fiume Gambia.

Dev’essere stato allora che ha iniziato a realizzare di non avere più un tetto e un pasto sicuro. Nel corso del suo viaggio in Europa si è adattato. Ha dormito ai margini del sentiero nella foresta, nel deserto, nelle case delle famiglie e nei retrobottega, in magazzini, accampato in spiaggia, in centri di reclusione e nelle stalle. Ha mangiato disordinatamente ma aveva in testa il suo piano di fuga, in cui tutto era predeterminato da una sorta di destino, Inshallah, e nella sua prospettiva lui era solo una pedina mossa dal volere di Dio. Da ogni tappa del suo viaggio è ripartito quando ha capito che il tempo era scaduto, non era più possibile per lui rimanere, come se un timer avesse fatto scattare l’allarme: la tua casa è più avanti.

Quando è arrivato a Banjul, dov’era già stato la volta in cui era scappato di casa e anche per un breve periodo di lavoro presso un meccanico dedito all’alcool e dalle mani pesanti, ha cercato lavoro e ne ha trovato subito uno imbarcandosi come acquaiolo su un peschereccio senegalese; a bordo distribuiva acqua ai pescatori e si trovava bene, il lavoro non era duro e il capo simpatico. Doveva solo portare da bere quando glielo chiedevano e aiutare a preparare il tè. Il carico di pesce dopo due settimane è stato sbarcato a Mbour, cittadina a sud di Dakar, da dove era salpato l’equipaggio. Mamudou ha così approfittato del passaggio del peschereccio per attraversare il suo primo confine di stato via mare.

Il proprietario del peschereccio gli ha proposto di andare a pregare con lui per la fine del Ramadan, quindi metà luglio 2015; dopo la preghiera ha incassato la sua paga e raggiunto la capitale senegalese. Dalla sua partenza erano trascorsi circa venti giorni e non aveva dato notizie a casa, non sapeva come farlo né probabilmente voleva. La sua idea era di seguire le orme dello zio che dalla Spagna inviava rimesse in denaro alla famiglia o forse come altri suoi amici che inviavano denaro dalla Germania e dalla Francia, uno di loro lavora in un albergo vicino Bari e si sono sentiti al telefono tempo fa.

Ha provato a cercare lavoro a Dakar ma è stato sopraffatto dalla confusione metropolitana, non si sentiva a suo agio e così lo stesso giorno del suo arrivo ha trovato un furgone per l’est, di quelli del trasporto privato di migranti, e raggiunto Thiès dove ha trovato un lavoretto per un mese e da lì, con i soldi guadagnati, ha chiesto a un automobilista di passaggio di aiutarlo ad attraversare il confine tra il Senegal e il Mali. Il viaggio era lungo ma lui aveva i soldi e, fiducioso, li ha esibiti al suo interlocutore.

È difficile ricostruire con esattezza la durata di queste tappe: il lavoro sulla nave un paio di settimane circa, quello a Thiès forse un mese secondo il racconto di Mamudou… ma ho la sensazione che risponda un po’ a caso quando provo a chiederglielo; con certezza sappiamo solo che è arrivato in Italia nel giugno 2017 ed essendo partito durante il Ramadan suppongo fosse il giugno 2015.

A Thiès Mamudou è arrivato privo di documenti, affamato, sporco e in cerca di lavoro. Si è seduto di sera sul muretto di recinzione di una casa e ha provato a riposare. Qualcuno lo ha notato da dentro casa e il giovane proprietario è uscito per cacciarlo. Quando ha scoperto un ragazzino affamato lo ha accolto in casa offrendogli una doccia, degli abiti e il cibo e quando, portato in Municipio, le autorità hanno mostrato indisponibilità a qualunque forma di accoglienza, l’uomo della villa gli ha offerto un letto a casa sua invocando Allah a testimone della sicurezza dei propri figli sotto lo stesso tetto con il ragazzo sconosciuto.

Il giorno dopo Mamudou ha trovato un lavoretto da guardiano in una villa disabitata. Lo pagavano e gli fornivano vitto e alloggio per controllare che operai e giardinieri arrivassero puntuali per i lavori in corso e che non andassero via prima del tempo. Un mese o forse due di questa vita noiosa e ha deciso che non faceva per lui.

Il dio di Mamudou aveva però un disegno più ampio e non voleva che il ragazzino si riducesse, come tantissimi gambiani, a svolgere un lavoro umile in Senegal. Il tempo giusto era arrivato e così ha incassato la sua paga e si è appostato in una stazione di servizio a chiedere un passaggio, a pagamento s’intende, ai camionisti per sconfinare in Mali, come stava facendo una vera e propria onda umana di migranti in quel periodo, spinti dalle ragioni più diverse: dalla fame, dalla guerra, dalla violenza, che però tutte insieme possono essere riassunte in una sola parola: disperazione.

L’uomo che si è fermato per Mamudou viaggiava da solo e in un’auto stracarica di bagagli, all’interno della quale era difficile trovare posto, ma Mamudou era ancora piccolo anche di corporatura e si è adattato; l’uomo era titolare di una ditta di trasporti e proprietario di alcuni camion. Gli ha chiesto di mostrargli il denaro per il passaggio e quando ha visto il rotolino di banconote lo ha caricato a bordo.

Capitolo tredici – Il viaggio continua

Durante il lungo viaggio da Thiès a Bàmako, Mamudou ha raccontato all’uomo che gli ha dato il passaggio di essere partito per raggiungere un fratello emigrato nel Mali, per giustificare il fatto che viaggiasse da solo. Si sono fermati a mangiare e, nonostante gli accordi non lo prevedessero, l’automobilista gli ha pagato la cena. Nessun problema poi alla frontiera, dove pur senza documenti, è stato dichiarato come “fratellino”.

Arrivati a Bàmako, capitale maliana, il “fratello maggiore” non ha più voluto il denaro pattuito, anzi gliene ha regalato un po’ del suo per aiutarlo a raggiungere il fratello. A volte accadono i miracoli.

La tappa in Mali è stata molto lunga: forse otto mesi, durante i quali Mamudou ha svolto due lavori nella capitale, precisamente nel quartiere di Sebenìkoro: inizialmente vendeva i prodotti per un forno, dormendo nel magazzino, guadagnava pochissimo ma era piuttosto bravo, così ha conosciuto il proprietario di una gelateria, uno che parlava la sua stessa lingua pulaar, che gli ha fornito delle indicazioni per procurarsi dei documenti maliani; aveva imparato così bene la lingua locale da riuscire a ottenere dalla polizia dei documenti da cittadino maliano. Per la gelateria guidava un carrettino refrigerato e rivendeva il gelato ai passanti, trattenendo la metà degli incassi.

Quando il suo timer gli ha detto che era giunto il momento, nel dicembre del 2016, ha intrapreso nuovamente il suo viaggio, insieme a due amici. Stavolta il mezzo di trasporto era collettivo: furgoncini per il trasporto di persone stracarichi di migranti diretti in Europa. Non si trattava di trasporto pubblico ma privato e organizzato da gente che Mamudou non ha problemi a definire “mafiosi”.

Nella seconda parte delle sue tappe africane, dal Mali in poi, passando per Burkina Faso, Niger e Libia, dal suo racconto traspare come lui e i suoi compagni di viaggio sembrassero trascinati e coinvolti in un flusso umano: una specie di gregge eteroguidato in cui non contava più la volontà di ciascuno ma si realizzava una sorta di necessità collettiva di quello che continua a chiamare il “passaggio” (sottintende in Europa) controllato dai gruppi mafiosi, da persone senza scrupoli che agevolano e sfruttano la migrazione clandestina per trarne vantaggi economici. La volontà dei singoli migranti appare quasi annullata e resa collettiva, controllata dalla rete degli sfruttatori che guidano il flusso generando attrazione dalle tappe successive: una specie di flusso elettromagnetico con interruttori attivati per gruppi di migranti.

Aveva accumulato il denaro necessario a proseguire percorrendo la frequentata ma pericolosa rotta del traffico di migranti clandestini che lo ha visto attraversare il confine con il Burkina Faso e poi quello del Niger la notte di capodanno. Mi ha raccontato di aver pagato il “pedaggio” anche per i suoi amici per uscire dal Burkina Faso verso il Niger, ma di non avere tutti i soldi per entrare in Niger e quindi di aver dovuto lasciare al confine i due compagni di viaggio per proseguire da solo e grazie allo sconto praticatogli dell’estorsore di turno.

Mamudou mi ha parlato di una breve tappa a Niamey nel Niger, un mese, forse due in un centro di reclusione: si tratta di case private dove i trafficanti detengono, lontano dalla vista della polizia e di altri estorsori, i migranti in attesa del momento giusto e del denaro sufficiente per trasportarli alla tappa successiva. Nel centro di reclusione lavorava sfruttando la sua giovane età per uscire indisturbato ad acquistare sigarette e quanto gli chiedevano gli altri reclusi. In quelle case c’erano anche donne tra i detenuti in attesa di partire per la Libia.

Da Niamey il percorso a tappe è più o meno lo stesso per tutti, dapprima su furgoncini fino ad Agadez e poi pick-up, come raccontato in precedenza. I nomi delle località sulla mappa sono sinistri perché ricorrono nei resoconti più terribili: Agadez, poi Madama, poi l’oasi di El Gatrun, finalmente in Libia, a pochi chilometri da Sebha.

Precedentemente ho già raccontato della traversata del deserto del Ténéré dalle postazioni dei trafficanti alla periferia di Agadez fino all’oasi libica di El Gatrun dove Mamudou è rimasto poche ore in una casa insieme ai compagni di viaggio. Il trafficante, una volta giunti in quella casa privata, ha distribuito cibo da cucinare e ha detto che sarebbe tornato poche ore dopo per portarli alla tappa seguente. Dopo essersi lavati e nutriti sono stati trasportati da El Gatrun a Sebha dove ha lavorato due mesi in un altro centro di reclusione alla mercé del trafficante locale per il quale svolgeva piccoli lavori e quando era libero si rendeva disponibile in un’area della città dove le famiglie e le ditte andavano a pescare manodopera alla giornata.

Anche in quella casa c’erano diverse donne; in seguito gli è stato riferito che nessuno del gruppo di reclusi di quei primi giorni in Libia è sopravvissuto al viaggio o al mare. E proprio in quella città gli è accaduto di essere stato rapito e rapinato insieme a un “fratello”, quando sono stati minacciati con le armi e costretti a salire su un’auto dalla quale hanno avuto la fortuna di uscire derubati di tutto, cellulare, denaro e perfino il documento del Mali, ma miracolosamente vivi.

Per un mese, sempre a Sebha, ha poi lavorato per una famiglia, occupandosi del giardino: doveva innaffiare periodicamente per impedire che la sabbia del deserto entrasse in casa. Mi racconta che questo lavoro lo ha trovato casualmente, una di quelle volte in cui attendeva proposte a giornata al margine di una strada. Non ha aderito alla proposta del proprietario di casa di essere rispedito in Gambia dai suoi genitori ed è scappato trovando per un mese un lavoro in una pasticceria per poi confluire nuovamente nel vortice del traffico di migranti fino a raggiungere la costa mediterranea a Sabrata da cui ha poi intrapreso la traversata per l’Italia.

A volte penso ai suoi racconti frammentari, spesso interrotti dalla mia curiosità di dirimere il filo dal garbuglio. Penso al lavoro che faccio per fissare sulla carta la sua storia avventurosa, un lavoro di ricostruzione di un puzzle, che richiede spesso passi indietro, precisazioni e nuove richieste di chiarimenti mai negati da Mamudou. Penso che tutta la sua storia avrà modo di raccontarla ai suoi figli e nipoti un giorno, se avranno voglia di sentirla e se la curiosità sarà più forte dell’urgenza degli affari quotidiani, ma sarebbe una cosa intima, familiare e preclusa ad altri che dovessero essere interessati a conoscerla. E quindi forse è utile questo mio lavoro di raccoglierla e riportarla nel suo svolgimento, di segnalarne i risvolti che, almeno a mio modo di vedere, sono più significanti per raccontare che questo migrante, questo ragazzo è una persona e non un numero, che non è un aggressore dei nostri confini da cui dobbiamo difenderci, ma un uomo libero pieno di difetti come tutti noi, ma con un sogno e un obiettivo in fondo al cuore, che forse non ha ancora del tutto scoperto.

 

 


1 Comment

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potresti apprezzare anche

No widgets found. Go to Widget page and add the widget in Offcanvas Sidebar Widget Area.