Verso gli Stati Popolari: “Ho visto la morte in Libia. Il dl sicurezza non va rivisto ma annullato”

Costretto a fuggire dal Mali, dove era dirigente di uno dei principali partiti di opposizione, Soumaila ha vissuto sulla sua pelle la brutalità dei lager libici. Oggi vive a Roma, ha scritto due libri di poesie e cura una pagina fb molto seguita attraverso la quale si batte per i diritti dei migranti.

Intervista di Luca La Gamma al poeta e attivista Soumaila Diawara


“Non sono pericoloso, sono in pericolo”. Per celebrare la Ventesima giornata mondiale del rifugiato, indetta dall’Onu nel 2000, credo che nessuna frase possa farci riflettere al meglio sul perché ogni anno milioni di esseri umani (80 nel solo 2019) sono costretti a lasciare la propria casa e attraversare insidie che molti tra noi, sdraiati comodamente sui divani di casa nostra, non possiamo minimamente immaginare. Né possiamo immaginare le battaglie per i diritti a cui vengono sottoposti molto spesso quelli che raggiungono l’Europa.

Eppure, mentre in tutto il Continente si continua a navigare nel mare dell’incertezza e della retorica, senza trovare una quadra su politiche condivise soddisfacenti e mentre un leader politico di casa nostra si ingozza di ciliegie e diventa ogni giorno di più lo zimbello di sé stesso, millantando in maniera confusa l’importanza di mantenere i porti chiusi, c’è chi si impegna per far arrivare la voce dei braccianti e dei migranti nei palazzi che contano.

In molti hanno letto del sindacalista ivoriano Aboubakar Soumahoro, che si è incatenato a Villa Doria Pamphilj (Roma), annunciando lo sciopero della fame durante gli Stati generali del governo e ottenendo un incontro con il premier Giuseppe Conte. Bene, Soumahoro è solo la punta di un iceberg composto da molti rifugiati che lottano sul territorio e sui social per far valere i propri diritti. Uno di questi è Soumaila Diawara, malese di 32 anni e in Italia dal 2012 che ci spiega perché dopo l’incontro con Conte ci si sta preparando per una nuova grande manifestazione che chiameranno gli “Stati Popolari”.

Durante la sua attività politica, Diawara è stato costretto a fuggire da Bamako perché accusato ingiustamente di aver partecipato a un’aggressione ai danni del Presidente dell’Assemblea Legislativa. A seguito di tali accuse, molti suoi compagni hanno incontrato la morte, mentre lui è fuggito prima verso la Libia per poi raggiungere l’Italia su un gommone grazie al salvataggio di una nave della Marina Militare. Oggi vive a Roma dove fa molti lavori e ha scritto due libri di poesie (qui una selezione dal suo libro Sogni di un uomo).

Soumaila, insieme a Soumahoro sei in prima linea affinché vengano aboliti i decreti sicurezza del governo e ci sia una regolarizzazione effettiva dei braccianti. A che punto siamo dopo le proteste di Villa Doria Pamphilj?

Dopo le proteste di Villa Pamphilij stiamo preparando una manifestazione prevista per i prossimi giorni che si chiamerà gli “Stati Popolari”. A seguito dell’incontro tra Soumahoro e il presidente Conte ci hanno garantito che rivedranno il decreto sicurezza. Noi, però, chiediamo l’abolizione del decreto, perché non vediamo nulla da modificare, è un decreto che va abolito e in fretta. Pretendiamo la regolarizzazione dei braccianti, ricordando a gran voce che sono esseri umani e non oggetti o braccia da usare.

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Il movimento Black Lives Matter si sta sviluppando in tutto il mondo con forza. Che ne pensi delle manifestazioni che ci sono state in Italia?

Dopo l’uccisione di George Floyd era doveroso denunciare ciò che è successo. È inammissibile morire per mano di chi dovrebbe difenderci. E sappiamo che non è il primo caso. Serviva un segnale forte in tutto il mondo per sconfiggere definitivamente questi gesti folli. E non c’è differenza tra bianchi e neri. Non è solo una questione di colore della pelle. Dobbiamo denunciare tutte le ingiustizie perpetrate da agenti in divisa.

Sei fuggito dal tuo paese nel 2012, ormai otto anni fa. Credi che nel frattempo sia aumentata la consapevolezza verso i rifugiati?

In Italia non si è ancora arrivati a una consapevolezza soddisfacente su chi sono i rifugiati e perché arrivano qui. Banalmente, non si è capito molto bene che non fa piacere a nessuno abbandonare la propria casa, la famiglia, tutto, andando alla ricerca della speranza di vivere meglio. La gente deve avere il coraggio di domandarsi cosa sta succedendo in alcune parti del mondo e informarsi. Perché le persone rischiano la vita per attraversare il mare, e troppi non sono in grado di empatizzare con loro per cercare di capire i problemi che li muovono a fuggire. Ma dando addosso alle persone senza permettere loro di capire non aiuta a risolverà le cose: in questo modo ci saranno sempre diffidenza e indifferenza.

Raccontaci del tuo impegno politico nel “Solidarité Africaine pour la Démocratie et l’Indépendance” (SADI), che ti ha costretto a fuggire dal Mali.

Ho militato nel partito per sei lunghi anni. Mi occupavo della comunicazione. Poi a seguito dell’aggressione ai danni del Presidente dell’Assemblea Legislativa, di cui mi hanno accusato ingiustamente, sono stato costretto ad abbandonare tutto e fuggire.

Una volta giunto in Libia dopo essere fuggito dal Mali sei stato arrestato dai miliziani. Qual è la tua esperienza nei lager libici?

Sono condizioni disumane, non auguro a nessuno di finire in un lager a vivere sulla propria pelle violenze di ogni genere o assistere persone che non hanno fatto nulla subirle ingiustamente. Donne costrette a prostituirsi e subire violenze fisiche. I trafficanti di esseri umani sono persone che fanno soldi sulla pelle di disperati, lo trovo disumano. L’Europa ha due grandi colpe: permette questi trattamenti e finanzia la Libia.

Ti sei fermato in Italia per caso. Anzi, per il Regolamento di Dublino. Ma l’obiettivo era raggiungere la Svezia. Che ti aspettavi dall’Italia? Come l’hai trovata?

Mi sono trovato bene fin da subito in Italia. Quando sono arrivato la situazione era diversa da quella attuale. Oggi c’è più consapevolezza sulla destinazione finale della maggior parte dei migranti, che non è l’Italia ma altri paesi europei. Gli italiani hanno capito che ai migranti vengono impediti gli spostamenti e per questo devono rimanere qui. Io ero diretto in Svezia, ma poi ho deciso di stare in Italia per non perdere tempo in un altro paese, che avrei raggiunto con molte difficoltà.

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Durante il periodo pandemico, l’emergenza migratoria sembra essere sparita magicamente dall’agenda dei politici. È così? Cosa ne pensi delle politiche europee sull’immigrazione?

L’Europa e le sue politiche sono sbagliate, soprattutto in questo periodo di pandemia. Si sono trovate scuse per abbandonare i migranti al loro destino, facendo finta che non stia succedendo niente dall’altro lato del Mediterraneo. Questa è la cosa peggiore che l’Europa ha fatto in questo periodo. Anche l’Italia, chiudendo i porti, ha commesso un grave errore.

Parlaci delle tue poesie, che hai raccolto in due volumi, “Sogni di un uomo” (2018) e “La nostra civiltà” (2019).

All’inizio era per me un modo di sfogarmi e tirare fuori ciò che avevo dentro. Poi, parlando con amici, ho deciso di pubblicare la raccolta “Sogni di un uomo” [qui una selezione di poesie], rendendomi conto che le informazioni che arrivano in Europa sull’Africa sono troppo spesso distorte ed errate. C’è scarsa comunicazione, mi sono accorto che spesso in Italia, ma anche in Europa, non capite chi è l’immigrato. Ho tradotto i miei pensieri in poesia, raccontando una realtà che si fa ancora troppa fatica a comprendere.

Cosa fai oggi? Come impieghi il tuo tempo?

Vivo a Roma, faccio diversi lavori e continuo a scrivere. Mi piace molto. Collaboro, inoltre, con diverse associazioni e realtà che si occupano di diritti umani e accoglienza.

Sei lontano da casa dal 2012. Come vedi il Mali oggi?

La situazione è drammatica e la realtà maliana viene raccontata poco e male. Per interessi le persone cercano di nascondere quello che succede realmente. Il problema del paese è che si è creata una guerra nel centro sud, dove i territori sono occupati da terroristi (sono presenti nel 70% del territorio maliano). Basti pensare che i territori occupati coprono una superficie tre volte più grande dell’Italia. Non si può ignorare questo problema. Sono stati rapiti, addestrati bambini e costretti a combattere. Ci sono attacchi alla capitale e nelle regioni del sud, dove da sempre ha regnato l’instabilità. Anche al nord non c’è controllo da parte dello Stato.

Questi terroristi sono arrivati dalla Libia in conseguenza ai disagi causati dalla guerra. Lo Stato non sta facendo niente, cerca di nascondere organizzando elezioni. Cercano di darsi una credibilità nella gestione, ma se ne fregano della sofferenza delle persone. I politici non fanno nulla per far capire all’opinione internazionale che c’è un problema concreto in Mali. Circa due mesi fa, nel periodo delle elezioni, nel nord del paese è stato rapito un leader del partito di opposizione, ad esempio. Non è una cosa normale, lui si trova ancora nelle mani dei suoi rapitori che chiedono un riscatto.

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I rapitori sono persone conosciute che, non si sa come, sono riuscite a scappare da un carcere federale americano e si sono ritrovate in Mali. I problemi del Mali sono molteplici, trascurati dalla politica e dall’opinione internazionale, e diffusi in maniera poco chiara.

Come mai dedichi così tanto a diffondere storie sui social? Non credi che sia difficile creare un dibattito costruttivo? Sei vittima di hate speech?

Sì, mi è capitato tante volte di ricevere insulti. Cerco di comunicare con la gente sui social perché è più facile non avendo, in questi tempi, modo di organizzare dei dibattiti pubblici. Ci saranno sempre delle persone che non sono d’accordo con te, ma comunicare con tante persone è importante. Molte di queste non conoscono i temi di cui parlo, serve diffondere la verità. Cosa succede realmente in Mali, perché le persone fuggono. Non vengono mai raccontate le cose come stanno realmente.

Ricorre la giornata mondiale del rifugiato: che messaggio vorresti dare a chi ci legge?

È importante continuare a parlare di migrazioni e raccontare la realtà dei rifugiati. È importante che le persone cerchino di capire ed empatizzare con chi migra. Noi vogliamo essere parte integrante di questo paese, la gente può capire che non siamo privilegiati e che un nero non è un nemico, ma un amico con cui costruire insieme una società migliore.


Profilo dell'autore

Luca La Gamma

Luca La Gamma
La sua formazione giornalistica inizia a 20 anni quando avvia una serie di collaborazioni con piccole testate romane occupandosi di sport e sociale. A 25 anni diviene giornalista pubblicista e a 26 decide di partire per la Spagna, tappa fondamentale per la sua crescita personale. Laurea in Lingue e letterature moderne alla Sapienza di Roma e in Editoria e giornalismo alla Lumsa di Roma. Attualmente consulente per la comunicazione in INPS. Viaggiatore, sognatore e amante della vita in tutte le sue sfumature, si identifica in Frontiere News perché è la voce fuori dal coro che racconta quelle storie che non vengono prese in considerazione dall’élite giornalistica.

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