Intervista ad Aysar Al-Saifi di Ludovica Iaccino
Nato e cresciuto nel campo profughi di Dheisheh, uno dei più grandi in tutta la Cisgiordania, Aysar Al-Saifi ricorda ancora gli aneddoti raccontati a tavola; parole sussurrate, sguardi complici, intere generazioni accomunate dalla voglia di libertà e dalla speranza di un futuro migliore. La paura, la sofferenza di famiglie dilaniate dal dolore, la pena di madri che piangono figli uccisi dai militari o dimenticati in prigioni che è impossibile visitare, sono ricordi lucidi nella sua mente.
Tuttavia, Aysar – che ora vive in Italia – ricorda anche la resilienza del suo popolo, le amicizie indissolubili, i primi amori, i giochi di ombre alla luce di candele, l’amore di sua madre, la lotta per mantenere viva la memoria di un popolo martoriato dalla guerra, dall’occupazione israeliana, dalla segregazione. Con il suo ultimo libro, Foglie di gelso (Prospero Editore, 2020), Aysar ha voluto raccogliere questi ricordi e dar voce a chi non può parlare e rischia di essere dimenticato. Attraverso la scrittura, ha voluto rendere omaggio alla perseveranza di intere comunità che lottano per tramandare la propria cultura, di generazione in generazione, per mantenere vive se stesse.
Che cosa ti ha spinto a scrivere Foglie di gelso?
Foglie di gelso è fatto di racconti, alcuni divertenti, altri dolorosi. Parla di persone con cui ho vissuto e ho condiviso alcune storie e, in un certo senso, è un modo per dare voce alle persone che vivono lontane, perché nessuno sente le loro voci. Ho cercato di non focalizzarmi sulla questione politica, ma sull’aspetto umano. Perché, in fondo, si tratta di persone.
È stato anche un modo per rispondere ad alcune domande sul mio passato. “Cos’è un campo profughi?”, “Com’era la tua vita prima, com’era la tua infanzia?” È importante condividere quello che mi è successo con la gente che amo, così ho voluto creare un ponte; perché credo che i libri siano un ponte culturale tra le nazioni. Allo stesso tempo, questo libro è un modo per curare me stesso, tutti i problemi psicologici che ho perché ho vissuto sotto occupazione per tanti anni. La scrittura è un modo per togliermi un po’ il peso di questa esperienza, che sta pesando sulle mie spalle.
Nei ringraziamenti dedichi il libro anche ai prigionieri palestinesi “che hanno combattuto e stanno combattendo per raccontare le loro storie”. Perché è importante raccontare la resilienza di un popolo oppresso?
Per dare loro una speranza, per non farli sentire soli. Parlo con molti prigionieri e so quanto possa essere bello sentirsi dire che ci sono state delle dimostrazioni in loro supporto. Immagina quanto possa essere lungo e pesante un intero minuto per chi ha trascorso tanti anni [in prigione], o per le persone che muoiono in prigione.
Quando hanno arrestato mio fratello, per un anno non abbiamo avuto notizie su di lui. Israele usa questo metodo per separarti da te stesso, per separare le persone.
Chi non ha vissuto la prigionia e l’occupazione di cui parli nel libro può comprendere a pieno la condizione dei palestinesi?
Il 70% della popolazione palestinese – soprattutto i giovani tra i 17 e i 25 anni – viene arrestato almeno una volta nella vita. La chiamano “detenzione amministrativa”, il che significa che il governo israeliano ti arresta perché pensa che potresti fare qualcosa in futuro. In passato, le persone potevano essere uccise a causa di un libro. Tra gli anni ’80 e i ’90, libri e giornali, romanzi e poemi erano vietati e se ti trovano un romanzo normale in casa, ti potevano arrestare e punire a causa di attività culturali.
Noi [palestinesi] non abbiamo mai vissuto a pieno il concetto di “essere liberi”, mentre altre persone sì. Quindi alcune persone non capiranno, ma dipende dalla loro esperienza. Credo sempre che se sei una persona libera e credi nella libertà, devi essere in contatto con chi è ancora alla ricerca della propria libertà.
L’attivista palestinese Issa Amro una volta mi disse che l’occupazione israeliana stava, progressivamente, derubando i palestinesi della loro identità. Ti ritrovi in queste parole?
Sì, condivido pienamente. Questo è un altro obiettivo di Israele: non solo per spezzarti, ma anche per rubare la tua identità, la tua lingua, la tua cultura. Questo è quello che, purtroppo, Israele sta facendo ai palestinesi, distruggendo la loro cultura e isolandoli dal resto del mondo. La nostra esistenza consiste nel mantenere viva la nostra cultura e la nostra felicità e creare nuove generazioni che siano in grado di vedere il proprio futuro, che va ben oltre la soluzione politica, che rimane complicata.
In uno dei racconti del libro, Messaggi nella posta, una ragazza vive il suo arresto come se fosse inevitabile. Come i suoi familiari, lei “era stata chiamata a pagare una tassa per conto della patria”. Questa ragazza, spieghi, non era stata in grado di assaporare la sua infanzia. Com’è, per i bambini, nascere e crescere in questo clima?
Penso che non ci sia nulla di più pericolo e di più spaventoso che vivere la tua vita come se fosse un gioco nel quale – in ogni momento – potresti essere arrestato, o potrebbero spararti. La tua vita è, totalmente, nelle mani degli altri, ma, allo stesso tempo, ti convinci ogni giorno che tutto questo sia normale.
La domanda è: cosa è normale e cosa non lo è? I bombardamenti e gli arresti per me erano normali finché non ho iniziato a viaggiare e ho capito che la vita non è così. Ho capito che i bambini possono – per esempio – andare al mare. Era il mio sogno, quello di andare al mare. Forse molte delle persone [che vivono sotto occupazione] diventavano combattenti per amore, per poter fare quello che non possono fare.
Nei racconti, i protagonisti parlano spesso di “patria”. Che cosa rappresenta la patria per i palestinesi?
Da quando vivo qui [in Italia] ho capito che un paese è un luogo, un’area geografica dove nasci, mentre una patria simboleggia il rapporto che si crea tra una persona e la sua terra. Per noi è iniziato come un sogno: i nostri genitori ci raccontavano di questi luoghi meravigliosi, di questa sensazione di mancanza, del rapporto umano con quel luogo, un rapporto d’amore. Ecco perché i palestinesi, da più di 80 anni, stanno ancora combattendo per questo sogno, il sogno di riavere la loro patria.
Che ricordi hai del campo di Dheisheh e come lo descriveresti a chi non c’è mai stato?
Il campo è tutto e niente. Tutto ciò che amo e che odio allo stesso tempo. Vivere nel campo ti fa porre tante domande e cercare le risposte fa di te un combattente, una persona politica, anche se non lo vuoi. Nonostante la fatica, il dolore e la povertà, ci sono bei ricordi. Ricordo le corse nelle stradine del campo, i primi amori, i ragazzi che donavano mazzi di fiori alle ragazze. Ricordo che, quando nevicava, mia mamma ci avvolgeva dei sacchetti di plastica attorno alle scarpe, per tenere i piedi asciutti. Questo, secondo me, mostra la vera umanità delle persone.
Quando ero bambino, durante l’inverno l’elettricità andava spesso via e usavamo delle candele per farci luce e un po’ di legna per riscaldarci. Alla luce delle candele, mio padre usava il gioco delle ombre per raccontarci delle storie. Ogni sera ci raccontava del suo passato, di quando era stato imprigionato, di come era diventato un calciatore, del suo futuro. E queste storie giocavano con la mia immaginazione e mi hanno dato la possibilità di viaggiare, con la mia mente, oltre i confini del campo, oltre l’oscurità… e c’era una luce per me.
Ci sono anche ricordi dolorosi: durante gli attacchi israeliani e durante la prima e la seconda Intifada, ho perso molti amici. Ricordo ancora che con la mia famiglia mi nascondevo nelle case, lontano dai bombardamenti. Una volta stiamo stati quasi 40 o 50 giorni in una casa. Oggi parliamo di quarantena, a causa del coronavirus, e ogni tanto mi viene da sorridere. Perché ho già sperimentato qualcosa del genere. I ricordi del campo sono tanti. Alcuni mi fanno sorridere, altri mi fanno provare dolore, ma mi rendono quello che sono oggi.
Vivi in Italia da due anni. Come sei arrivato qui?
Prima di arrivare in Italia, viaggiavo per attività culturali e presentazioni sulla Palestina. Ho conosciuto una ragazza italiana, ci siamo sposati e abbiamo deciso di vivere in Italia, perché sarebbe stato più semplice che stare insieme in Palestina.
Sei mai ritornato a Dheisheh? E se sì, com’è stato?
Sono andato una volta, a trovare la mia famiglia, che vive ancora lì. È stato strano tornare, perché per quanto mi manchi e lo adori, lo odio ancora. Lo odio per non essere in grado di cambiarlo e non avere la possibilità di creare il futuro che vogliamo. Ho avuto la possibilità di separarmi dalla vita nel campo e spesso mi sento tra due vite. Adesso ho la possibilità di scegliere, ma allo stesso tempo vedo che molti palestinesi non possono scegliere per loro stessi.
I tuoi amici e la tua famiglia come hanno reagito al libro?
Sia la mia famiglia che i miei amici sono inclusi in Foglie di gelso e ne sono stati felici. Questo libro li rende felici e li fa sorridere perché finalmente sanno che qualcun altro potrà leggere le loro storie.
Cosa speri nel futuro?
È uno dei problemi del popolo palestinese: abbiamo un piano per il futuro solo a breve termine, perché abbiamo perso la speranza che Israele, un giorno, se ne andrà e noi saremo liberi di costruire quello che vogliamo.
Come scrittore ti posso dire che sono stati scritti pochi libri che ci aiutano a parlare di questa immaginazione, che ci aiuta a vedere il futuro. Tutti i libri e romanzi parlano del passato e noi siamo attaccati al passato. Non ci alleniamo mai a pensare al futuro. Vorrei viaggiare, senza tutti questi controlli e queste limitazioni, e vedere posti che non ho mai visto. Amo viaggiare liberamente e vorrei poter visitare la mia famiglia liberamente. In futuro, forse deciderò cosa fare, o forse non lo deciderò. Il punto è che ho la libertà di decidere. Perché la libertà è anche questo: poter scegliere di fare ciò che vuoi.
in copertina: Una veduta del campo profughi di Dheisheh, nei pressi di Betlemme [fonte: masteremergencyarchitecture.com]
Profilo dell'autore
- Per diversi anni Ludovica Iaccino ha lavorato come redattrice per le testate inglesi IBTimes UK e Newsweek UK e – attualmente – per l'ong World Vision. Si occupa di diritti umani, migrazione e sviluppo internazionale e scrive per varie testate (tra cui Nigrizia, Frontiere News, Words in the Bucket e JusticeInfo). Nel 2011 ha pubblicato con Alcyone "Il silenzio di Nyamata", un romanzo storico sul genocidio del Ruanda, e nel 2021 "Datemi libri" (Edizioni ensemble), in cui raccoglie interviste e incontri - principalmente con bambini e bambine - avvenuti nell’arco di cinque anni da inviata speciale.