Dimenticato in un centro di detenzione per migranti

Illustrazione di Francesco Ciampa

EPISODIO 1

Hidden è una serie cofinanziata dai lettori di Frontiere.
Scopri come poter contribuire.


A causa della pandemia il tunisino Nadhimi Touir ha perso il lavoro e il permesso di soggiorno. Arrestato lo scorso novembre, è stato mandato al centro di detenzione per migranti situato a Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia. La sua cella non aveva né materassi né coperte e il vento invernale entrava da una finestra rotta. Il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca è stato riaperto nel gennaio 2020 dopo tre anni di chiusura a causa di una sommossa. Da allora due ospiti del centro sono deceduti. Touir è ancora in attesa di essere deportato o rilasciato. “Questo posto ti fa impazzire. Non siamo più umani”. (English version)

L’8 novembre 2020 Nadhimi Touir, 21 anni, è uscito da un appartamento a Piacenza dove viveva con i suoi due coinquilini. Ha camminato fino al supermercato più vicino e ha comprato latte, biscotti e un pacco di pasta. Sulla via di casa degli agenti di polizia lo hanno fermato e gli hanno chiesto di esibire i documenti. È stato in quel momento che Touir ha capito di trovarsi nei guai.

Il suo permesso di soggiorno era scaduto da un anno e per rinnovarlo avrebbe avuto bisogno del lavoro che aveva perso. In un paese dove la disoccupazione giovanile è stabilmente attorno al 30 per cento, il lockdown imposto dalla pandemia di COVID-19 aveva reso la sua ricerca impossibile.

“Sapevo che il mio permesso era scaduto, ma non avevo nessun altro posto dove andare. In Tunisia ho solo brutte cose ad aspettarmi”, mi ha detto al telefono.

Touir è cresciuto a Zeramdine, una cittadina di 16mila abitanti nel Sahel tunisino. È arrivato in Italia a 15 anni dopo aver attraversato il Mediterraneo illegalmente, pagando il viaggio con i circa tremila euro che aveva messo da parte lavorando come benzinaio a Tripoli, in Libia. Fino alla maggiore età ha vissuto in un centro per minori non accompagnati a Reggio Emilia dove si è abituato al cibo e alla cultura italiani.

Lo scorso agosto Touir aveva già ricevuto, e ignorato, un primo ordine di espulsione. In quel periodo l’Italia si stava avvicinando alla seconda ondata di COVID-19 e le autorità invitavano le persone a rimanere a casa e limitare gli spostamenti. Touir invece avrebbe dovuto lasciare il paese entro quindici giorni.

Dopo averlo fermato per la seconda volta con i documenti scaduti, gli agenti hanno deciso che sarebbe stato opportuno mandarlo nel centro di permanenza per il rimpatrio di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, in una delle sette strutture di questo tipo attualmente operative in Italia.

“Non mi hanno dato nemmeno il tempo di prendere qualche vestito di ricambio. Perché tanta fretta?”

Rivolte, autolesionismo, aggressioni. E morti

Una volta a Gradisca, Touir ha trascorso venti giorni in isolamento in un’area del Cpr conosciuta come zona blu, adibita a zona quarantena per contenere il rischio di diffusione di COVID-19. Nella stanza non c’erano mobili né lenzuola e da una finestra rotta entrava un vento gelido. Durante l’inverno le temperature a Gradisca scendono sotto lo zero e il riscaldamento del centro era spesso spento, come riportato dal garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà che ha visitato la struttura lo scorso dicembre.

“Ci stanno lasciando morire di freddo”, mi ha detto Touir, lamentando anche la mancanza di vestiti di ricambio. “Puzzo. Mi puzzano i vestiti. Tutto puzza qui dentro”.

Touir – un ragazzo estroverso con capelli sfumati ai lati e una passione per la musica trap – è uno dei circa ottanta migranti che hanno trascorso l’inverno nel Cpr di Gradisca d’Isonzo, a pochi chilometri dal confine sloveno.

Per proteggere la salute di migranti e comunità locali lo scorso maggio le Nazioni Unite hanno chiesto alla comunità internazionale di sospendere i rimpatri forzati. Ciò nonostante, le autorità italiane hanno continuato a chiudere cittadini stranieri in strutture simili a prigioni, pensate per trattenere e deportare i migranti in situazione di irregolarità.

Isolati dalla società e in precarie condizioni fisiche e mentali, i cittadini stranieri che si trovano reclusi nei Cpr sono sprovvisti delle protezioni riservate ai detenuti del sistema carcerario. Rivolte, autolesionismo e aggressioni sono frequenti e la trasparenza dei privati che gestiscono le strutture è scarsa. Nella maggior parte dei casi, queste detenzioni si rivelano poi del tutto inutili. Errori procedurali, mancanza di accordi internazionali e accoglimenti di richieste d’asilo fanno sì che meno della metà delle persone trattenute nei Cpr venga effettivamente rimpatriata.

LEGGI ANCHE:   La guerra dei portuali genovesi contro le armi saudite

Ma per i più sfortunati l’esito può essere ben più tragico del rimpatrio. Tra giugno 2019 e luglio 2020, cinque persone sono decedute mentre si trovavano in detenzione amministrativa, di cui due nel centro di Gradisca dove si trova Touir.

Sebbene situazioni di degrado e scarso rispetto della dignità umana nei centri detentivi per migranti siano note da tempo, la pandemia ha aggiunto nuove problematiche a quelle preesistenti. L’allungamento dei periodi di detenzione è coinciso con l’impossibilità di uscire dalle celle, maggior isolamento e perdita dei rari momenti di socializzazione, come i pranzi nelle sale comuni.

I responsabili delle organizzazioni che gestiscono questi centri sostengono di star onorando i loro contratti nelle circostanze più avverse avendo introdotto test per il COVID-19, assunto nuovo personale e facilitato le comunicazioni da remoto tra i migranti e le loro famiglie con la messa a disposizione di telefoni cellulari.

La gestione del Cpr

Uno dei più grandi operatori nel sistema dell’accoglienza in Italia era la cooperativa Edeco di Padova (di recente diventata Ekene cooperativa).

Edeco ha in gestione il Cpr di Gradisca dalla sua riapertura a gennaio 2020. Secondo i documenti del bando, per la gestione del centro la cooperativa riceve poco più di 26 euro al giorno per persona, più un massimo di 41mila euro l’anno in kit di primo ingresso comprensivi di cuscini e lenzuola.

Quando Edeco ha ottenuto la concessione, il centro avrebbe dovuto ospitare 150 detenuti e generare un introito per la cooperativa di circa un milione e mezzo di euro l’anno. Ma questo era prima della pandemia. Oggi il margine di guadagno è crollato di circa la metà, dato che le autorità hanno imposto un limite massimo di 60 persone – soltanto di recente aumentato a 80.

(Curiosamente, il contratto include una parte di “pocket money” pari a 2,50 euro al giorno a persona – fino a un massimo di 135.000 euro l’anno. Edeco assicura che quei soldi sono usati per coprire i bisogni extra dei detenuti – come le sigarette – e che quello che avanza viene consegnato al loro rilascio. Non è chiaro però se questo avvenga anche qualora la persona venga deportata.)

“Dal punto di vista economico, si è trattato di un anno molto deludente”, mi ha detto Simone Borile, responsabile di Edeco. Quando a inizio della pandemia la prefettura ha imposto la riduzione della capacità massima del centro a sessanta persone, le previsioni di entrate per la cooperativa sono crollate di almeno la metà”.

Borile – un uomo sulla quarantina, con un marcato accento veneto, che si riferisce ai detenuti come “i nostri ospiti” – assicura che la riduzione delle entrate non ha avuto alcun impatto sulla qualità dei servizi forniti dalla cooperativa, che prevedono orientamento legale, assistenza medica e psicologica, servizi di traduzione e assistenza sociale.

“Non ci sono problemi. Da parte nostra cerchiamo di avere un approccio corretto verso i nostri ospiti”, mi ha detto.

In riferimento alle umilianti condizioni di vita che Touir e altri due detenuti mi hanno descritto, Borile ha declinato ogni responsabilità, affermando che riparazioni e fornitura del mobilio sono in carico alla prefettura, gli infissi danneggiati vengono sostituiti in tempi rapidi e le necessità dei detenuti assecondate. Si dice poi sicuro che i detenuti diano all’esterno un’immagine non veritiera della vita nel centro.

“Le persone che fanno i video delle finestre rotte sono le stesse che le hanno spaccate” mi ha detto Borile.

Attualmente Borile si trova sotto processo per frode in forniture pubbliche in relazione alla gestione di un centro di accoglienza in provincia di Venezia. Secondo quanto riportato da Il Mattino di Padova, la cooperativa da lui gestita avrebbe sovraffollato un centro di accoglienza in provincia di Venezia, impiegando molto meno personale di quanto previsto dal contratto e acquistando materiali scadenti. Le pessime condizioni della struttura sarebbero state nascoste grazie alla complicità di tre funzionari della prefettura locale, a loro volta sotto processo per rivelazione di segreto d’ufficio.

La lunga tradizione italiana dei centri di detenzione per migranti

L’Italia ha introdotto i centri di detenzione amministrativa nel 1998 all’interno di una più ampia riforma delle leggi in tema di migrazione nota come legge Turco-Napolitano. All’epoca i centri si chiamavano centri di permanenza temporanea e la durata massima del periodo in cui una persona poteva esservi trattenuta era di trenta giorni.

LEGGI ANCHE:   Il modello Riace è un'occasione persa e Lucano è stato tradito dalla sinistra

Negli anni, i governi che si sono succeduti l’hanno estesa fino ad arrivare a 18 mesi nel 2011, poi ridotti a 90 giorni nel 2014 e innalzati nuovamente a 180 giorni nel 2018. A ottobre 2020, un decreto legge ha riportato il limite a 90 giorni, oltre i quali la persona deve essere deportata o rilasciata.

Con l’allungarsi delle detenzioni amministrative i Cpr hanno assunto sempre più la funzione di surrogato del sistema penale, di fatto rendendo possibile l’allontanamento coatto dalla società di una classe di individui senza dover passare per il sistema penale.

Nel 2019, meno della metà dei circa seimila migranti irregolari trattenuti nei centri di permanenza per il rimpatrio sono stati deportati, secondo il rapporto annuale 2020 del garante nazionale per le persone private della libertà. Questa percentuale è rimasta stabile per almeno gli ultimi dieci anni ed è lecito aspettarsi che sarà più bassa in un anno in cui la pandemia ha imposto severe limitazioni agli spostamenti.

“Oggi i Cpr sono luoghi vuoti e sordi. Vuoti di tutto, di materiali, di qualsiasi attività. Sordi perché isolati dalla società civile”, ha scritto il garante nazionale Mauro Palma nel suo rapporto. A differenza delle carceri, i centri non sono pensati per ospitare persone per lunghi periodi di tempo. Mancano le aree dedicate alla cura personale e alla vita spirituale, così come qualsiasi attività ricreativa o formativa. Secondo il Ministero dell’Interno, la colpa di queste mancanze sarebbe da imputare ai migranti e alla loro “carenza di interesse alla partecipazione in attività di qualsiasi genere”. 

“Preferirei il carcere”

“Preferirei tornare in carcere dieci volte piuttosto che passare un altro giorno in un Cpr”, mi ha detto Mohamed Daoudi, 35 anni, un migrante proveniente dal Marocco. Daoudi ha trascorso due mesi nel centro di Gradisca dopo aver scontato una pena al carcere di San Vittore di Milano, per reati che ha chiesto di non divulgare. A San Vittore Daoudi ha lavorato come addetto alle pulizie per una paga di circa 300 euro al mese, di cui un terzo viene trattenuto dallo Stato. In carcere ha sviluppato un’ernia del disco che gli ha permesso di uscire dal Cpr per motivi medici. Ora un’udienza dovrà decidere se le sue condizioni sono sufficienti a fargli ottenere un permesso di soggiorno per motivi medici. Almeno fino ad allora, il suo status migratorio non lo farà arrestare.

Questo sistema fatto di detenzioni arbitrarie e prolungate, dagli esiti incerti e in contesti alienanti fa sì che i crolli mentali siano frequenti. Durante il suo secondo mese di detenzione, Touir ha iniziato a dare i primi segnali di disordine mentale. I suoi discorsi sono diventati più confusi. I suoi pensieri più oscuri.

“Questo posto ti fa perdere la testa. Ci sono persone che si tagliano le braccia con dei vetri per la noia. Altre si portano i materassi fuori, nel cortile, al freddo,” mi ha detto. “Sto impazzendo. Non ce la faccio più”.

I medici gli hanno prescritto medicine per aiutarlo a dormire: venti gocce ogni sera dopo le otto. Ma le urla che arrivano dalle stanze vicine sono più forti dei farmaci. La notte nel Cpr si sentono le grida di chi cerca di attirare l’attenzione degli assistenti sociali. In altri casi, le urla sfociano da liti tra i detenuti.

Nel gennaio 2020 un cittadino georgiano, Vakhtar Enukidze, 38 anni, è morto due giorni dopo essere stato coinvolto in una rissa, poi sedata dal personale di sicurezza. Sebbene le indagini siano ancora in corso, secondo quanto riportato dal garante, un giorno prima della morte Enukidze aveva lamentato forti dolori e chiesto l’intervento del personale sanitario che però non però non lo avrebbe assistito.

“Le persone non hanno niente da perdere, sono come animali in gabbia”

Giovanna Corbatto, Garante per i diritti delle persone private della libertà

Due mesi dopo la morte di Enukidze, il sindaco di Gradisca, Linda Tomasinsig, ha nominato Giovanna Corbatto garante locale per i diritti delle persone private della libertà. Oggi Corbatto è una delle poche persone, oltre alla polizia e ai funzionari di Edeco, ad avere accesso alla struttura e tra le sue funzioni c’è quella di vigilare sul rispetto della dignità delle persone private della libertà sul territorio comunale. Il suo compito però è reso difficile dalle particolari normative che regolano i Cpr.

LEGGI ANCHE:   Essere donna, tra Italia e Subcontinente indiano

“Quei luoghi sono peggio di prigioni”, mi ha detto Corbatto. I diritti riservati ai carcerati non si applicano infatti a chi si trova in un centro per il rimpatrio, e la privatizzazione del sistema rende difficile per la società civile monitorare quanto succede all’interno. Le regole poi non sono sempre chiare e variano da centro a centro, come ad esempio la messa a disposizione dei telefoni cellulari. Soltanto il centro di Gradisca sembra permetterne l’utilizzo.

Per protestare contro quella che percepiscono come un’ingiusta privazione della libertà e una violazione della dignità umana, in alcuni casi i detenuti intraprendono azioni disperate. Nel 2016 una rivolta ha danneggiato gravemente la struttura di Gradisca, facendola chiudere per quattro anni. Ad agosto 2020, una nuova protesta si è conclusa con tentativi di fuga e incendi.

“Le persone non hanno nulla da perdere. Sono come animali in gabbia,” mi ha detto Corbatto. In quelle condizioni, anche la gestione del sistema sanitario si è rivelata problematica.

Il 14 luglio, Orgest Turia, un ragazzo albanese, è morto mentre si trovava nel centro di Gradisca. Secondo quanto riportato dai giornali locali, la causa della morte sarebbe stata overdose di metadone, un farmaco usato per trattare dipendenze da narcotici. Mentre le indagini sono ancora in corso, la garante ipotizza che l’alto ricambio dei medici potrebbe aver creato le condizioni per la morte di Turia.

“La gestione della sanità all’interno del Cpr è un argomento spinoso,” mi ha detto Corbatto. I medici all’interno del centro sono tutti contrattati esternamente e cambiano di frequente. “Non possono avere molto controllo su quale medicamento riceve un paziente, in quale quantità e quanto spesso”. 

Decessi a parte, è impossibile sapere quanti incidenti hanno luogo all’interno dei Cpr italiani. I centri infatti non sono tenuti ad avere registri degli eventi critici e, quando ci sono, non vengono aggiornati. Ma è comunque lecito pensare che se i periodi di detenzione fossero più brevi, limitati alle deportazioni realmente in essere e le condizioni di vita migliori, gli incidenti sarebbero più rari.

A dicembre 2020 la conversione in legge del decreto legge 130 ha ridotto il periodo massimo della detenzione amministrativa da 180 a 90 giorni, estendibili di un mese nel caso in cui la persona provenga da un paese con cui l’Italia ha firmato accordi di estradizione. “Ma se viene fatta richiesta di asilo, la detenzione può protrarsi fino a un anno,” mi ha detto Caterina Bove, l’avvocata di Touir.

Touir se n’è andato dalla Tunisia dopo che i suoi genitori sono morti in un incidente d’auto e suo zio lo ha cacciato di casa. Da lì è andato in Libia, dove era in atto una guerra civile. Quando è arrivato in Italia nessuno gli aveva detto che avrebbe potuto fare richiesta di asilo e, quando l’ha fatta, ormai era troppo tardi. Dopo cinque mesi di attesa, la sua richiesta è stata respinta.

“Quando sei in Italia da così tanto tempo e non hai mai fatto richiesta di asilo, è difficile che la tua richiesta venga presa sul serio”, mi ha detto l’avvocata Bove. “Se qualcuno gli avesse parlato di questa possibilità quando è arrivato, probabilmente la sua vita sarebbe stata diversa.”

Con la negazione dell’asilo, i giorni di detenzione di Touir nel Cpr sono ricominciati da zero. Davanti a lui ora ci sono altri quattro mesi di reclusione entro i quali dovrà essere rimpatriato o rimesso in libertà. Touir però non sembra rassegnato.

“Non mi rimanderanno in Tunisia”, mi ha detto al telefono. “Prima dovranno uccidermi”.

Hidden è una serie cofinanziata dai lettori di Frontiere.
Scopri come poter contribuire.


Profilo dell'autore

Marco Dalla Stella
Marco Dalla Stella
è un giornalista freelance di base a New York, dove ha da poco completato il master in giornalismo della Columbia University.
Approdato al giornalismo dopo un percorso nel volontariato e nella cooperazione allo sviluppo, si interessa di migrazioni, diritti umani e movimenti sociali. Nel curriculum ha un master in studi interculturali, una laurea magistrale in relazioni internazionali e una triennale in traduzione e interpretariato. Oltre al veneto parla cinque lingue, gli piace fare sub e il mojito lo preferisce con l’angostura.

3 Comments

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Potresti apprezzare anche

No widgets found. Go to Widget page and add the widget in Offcanvas Sidebar Widget Area.