Essere donna, tra Italia e Subcontinente indiano

Katiuscia Carnà e Sara Rossetti presentano ai lettori di Frontiere News la loro seconda opera, “Corpi e identità – donne dal Subcontinente indiano all’Italia” (Villaggio Maori, 2021). Un viaggio nei “segreti della bellezza” delle donne del Subcontinente indiano, per comprenderne a fondo i dettagli, ma anche le strutture sociali, l’egemonia maschile e l’eventuale controllo nelle comunità che vivono in Italia. Le fotografie di questo articolo (presenti anche nel libro) sono di Stefano Romano.

Un viaggio non è necessariamente qualcosa di fisico, non serve obbligatoriamente acquistare un biglietto e preparare una valigia. Un viaggio può essere anche introspettivo e lo si può fare comodamente anche stando seduti in casa, sul divano, sfogliando le pagine di un buon libro. Come Corpi e identità – donne dal Subcontinente indiano all’Italia (Villaggio Maori, 2021), scritto a quattro mani da Katiuscia Carnà e Sara Rossetti, che ci proietta verso la cultura delle donne del Subcontinente indiano per comprendere quanto la cura del sé e l’apparire siano condizionati dalla cultura di appartenenza. E cosa accade quando quest’ultima si fonde con quella del paese di approdo?

Nel loro ultimo lavoro, le scrittrici focalizzano l’attenzione sulla consapevolezza delle donne del Subcontinente indiano di essere e di decidere di essere in un determinato modo, ma anche sui condizionamenti esterni che le portano a scegliere un particolare abbigliamento o un modo di porsi rispetto alle due culture di riferimento (quella d’origine della propria famiglia e quella italiana). “Non è sempre facile, perché spesso ci si immerge in una cultura senza avere la consapevolezza del percorso che ha portato a certe scelte o stili di vita, ci si trova lì, ora e adesso, e si va avanti, spinte da condizionamenti socio-culturali”, spiegano.

Per queste ragioni, Katiuscia Carnà e Sara Rossetti hanno deciso che l’argomento principale del lavoro sarebbe ruotato intorno a questa domanda: in che modo le strategie di esteriorizzazione possono intersecarsi con le modalità di ridefinizione identitaria nel paese di residenza? L’obiettivo, come da loro anticipato, “non è quello di narrare in maniera esaustiva, né di descrivere tutto lo scibile sulle pratiche di bellezza millenarie tramandate in quattro paesi tra i più popolosi dell’Asia centro-meridionale, altrettanto eterogenei per tessuto culturale e religioso, sebbene condividano una radice storica comune. L’idea è quella di fornire uno spaccato di quanto di tutto ciò sia giunto in Italia e abbia resistito, sia sparito o si sia ridefinito alla luce di incontri tra popoli e culture differenti, in sincretismi culturali e religiosi, alla prova della diaspora e del divario intergenerazionale”.

La ricerca sociale alla base del lavoro

Corpi e identità – donne dal Subcontinente indiano all’Italia è un libro che nasce dopo un’attenta ricerca, iniziata dalle due autrici nel 2019 e indagata in Italia in un momento di difficoltà come quello che tutti stiamo attraversando a causa della pandemia. Una ricerca complessa, ma decisamente interessante, che evidenzia degli aspetti molto importanti per comprende al meglio le pagine del libro. Le quattro collettività del Subcontinente indiano prese in esame, sebbene non siano tra quelle più rappresentative numericamente sul territorio, rappresentano una fetta rilevante dell’universo migratorio in Italia. Dati 2020 del rapporto del Centro studi e ricerche Idos evidenziano come ognuna delle quattro comunità prese in esame superi le centomila presenze in Italia, con un incremento generale a fine 2019 rispetto all’anno precedente: i bangladesi 148.000 (+5,7%), i pakistani 127.000 (+3,9%), i cittadini srilankesi 115.000 (+3,5%), gli indiani 161.000 (+2,0%). La distribuzione sul territorio è eterogenea e segue spesso reti migratorie di lunga durata.

Dai paesi del Subcontinente arrivano prevalentemente giovani uomini, a testimonianza di un tipo di migrazione che spesso precede la creazione di un nucleo familiare e che diventa espressione di un progetto migratorio interno soprattutto alla famiglia d’origine. Qui entra in gioco la presenza femminile, che vede solamente una porzione della presenza comunitaria, il 29,5% delle bangladesi, il 31,4% delle pakistane e il 41,8% delle indiane, mentre solo lo Sri Lanka ha una percentuale di poco inferiore al 50%. Molte delle donne provenienti da Bangladesh, India e Pakistan giungono in Italia in seguito a ricongiungimento familiare e una volta approdate intraprendono l’attività di casalinga.

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“L’interesse crescente per i percorsi migratori femminili ha fatto sì che siano stati approfonditi diversi aspetti delle donne in diaspora, ma mai viene dato risalto a un aspetto fondamentale nella ridefinizione della donna: la cura del corpo e della bellezza”. Con questo libro e attraverso le interviste fatte alle donne delle comunità del Subcontinente indiano residenti a Roma, le due autrici si ripropongono di “abbattere il muro dell’ignoranza e del pregiudizio, offrendo una lettura diversa della realtà, per riprendere ad apprezzare e ammirare la bellezza, al di là dei personali canoni culturali, con il fine ultimo di aprirsi all’altro, al bello e comprenderlo fino in fondo”.

Per farlo hanno intervistato quaranta donne a campione, fra i diciotto e i cinquantacinque anni, residenti in Italia e provenienti da India, Pakistan, Bangladesh e Sri Lanka, di due generazioni differenti.

Come nasce questo volume?

Il volume nasce come risultato di più influenze di tipo personale e professionale. Siamo entrambe operatrici da anni nel settore delle migrazioni (mediatrice, insegnante L2) e abbiamo svolto ricerca nello stesso campo. Inoltre, e qui arriva il punto su cui più volte ci soffermiamo, siamo portatrici di un posizionamento privilegiato, essendo entrambe mogli di uomini nati nel Subcontinente indiano. Tutto ciò ci ha portato a pubblicare nel 2018 un primo volume (Kotha. Donne bangladesi nella Roma che cambia, Ediesse) nel quale approfondivamo storie di vita di donne di varie età e generazioni che dal Bangladesh si sono stabilite a Roma. Le reti nate durante quella ricerca, l’osservazione di pratiche e rituali di bellezza durante l’osservazione partecipante di celebrazioni laiche, religiose, feste, incontri politici ecc. ci hanno portato nuove domande. Quali di queste pratiche resistono alla migrazione? Quali cambiano o spariscono? Come reagiscono le donne agli occhi della comunità e a quelli di italiani e italiane sul loro abbigliamento, la loro pelle, il loro modo di acconciare i capelli? Tutto questo, insieme a letture di natura sociologica e storica sui canoni di bellezza, sull’importanza dell’esteriorizzazione di simbologie e della presenza di corpi “altri” ci ha portato a produrre questo nuovo lavoro.

Le donne del Subcontinente indiano residenti in Italia sono al centro del vostro studio. Non è un semplice viaggio nella cultura, negli usi e nei costumi di queste donne. Ci dite di più?

Ci piace l’idea del viaggio, ma secondo noi è molto di più, perché in un viaggio spesso osserviamo quello di più caratteristico, visitiamo i luoghi più importanti, conosciamo la lingua e la cultura gastronomica ma non riusciamo ad analizzare da vicino il “vissuto”, tantomeno quello femminile. Noi come donne abbiamo avuto il raro accesso alle comunità femminili, alle loro storie di vita, al loro intimo e siamo privilegiate per questo posizionamento da insider, quasi, ma non è facile affatto.

Quando si parla di cultura si comprendono due aspetti fondamentali, uno a livello micro e uno macro, uno a livello individuale e uno a livello comunitario. Quali sono le scelte che intercorrono tra l’essere e il voler essere, tra il controllo sociale e il desiderio di denuncia politica? Sono solo alcuni aspetti che abbiamo analizzato. Ancora di più, in che modo l’educazione religiosa influisce nella crescita delle nuove generazioni e quanto tutto ciò rimane anche nella crescita in Italia? Quale la relazione con il paese di origine e quello di residenza e la questione identitaria di chi si sente continuamente chiamato a rispondere di auto-definirsi, “carne” o “pesce”, come se fosse necessariamente un obbligo. Quali le ribellioni, le azioni politiche che anche nel semplice agire di una ragazza possono fare la differenza per generazioni in nome della libertà di scelta della quale tutti dovremmo averne pienezza.

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Com’è stato fare ricerca sociale in un momento storico come questo, di pandemia mondiale?

È stato interessante, ovviamente “nuovo”. Crediamo che la ricerca sociale debba fare i conti con questo, con modi di fare ed esserci che sono inevitabilmente cambiati. E che, forse, porteranno per ancora molto tempo i segni di questi ormai quasi due anni.

L’idea della ricerca è nata prima della pandemia, a ridosso, e tutta l’indagine si è svolta proprio dal 2020, attraversando anche i periodi di lockdown più stringente. Dobbiamo dire che il fatto di poter raggiungere molte donne è stata una bella novità. Semplicemente dalla nostra postazione di lavoro casalinga (in smart working!) abbiamo potuto raggiungere testimoni da tutta Italia e ci siamo rese conto di come anche le comunità in diaspora si fossero già attrezzate in questo senso. Naturalmente, soprattutto pensando a kotha – la nostra prima ricerca sul tema – è mancato altro, in modo primario i corpi, tema portante di tutto il lavoro. Incontrarsi, vedersi, attraversare i luoghi delle donne, sarebbe stato probabilmente un valore aggiunto o, sicuramente, diverso. Tuttavia ci riteniamo soddisfatte di aver esplorato questa nuova modalità, che ci ha dato molto e molto ha dato al volume. L’abitudine a un certo tipo di incontro, a distanza, si è fatta nei mesi quasi normalità. Di certo, qualunque sia il parere di ognuno, va fatta una riflessione su questo – e riteniamo soprattutto tra chi si occupa di ricerca sociale.

Vi siete domandate quanta libertà di scelta hanno le donne del Subcontinente indiano nell’indossare un abito rispetto a un altro e quanta coercizione esercita una cultura, una religione o la comunità in cui vivono queste donne nell’esteriorizzazione della bellezza. Che risposte avete trovato?

Il modo di abbigliarsi ed esteriorizzare simbologie religiose e/o appartenenza culturali sono alcune delle modalità secondo cui la donna decide di autorappresentarsi nello spazio pubblico e in quello comunitario. I condizionamenti sono molti e a volte anche inconsapevoli di tali influenze. Primo tra tutti il fattore educativo, l’educazione familiare, religiosa e scolastica incidono sulla bambina – futura donna – sin da molto piccola; secondo fattore la costruzione identitaria che attraversa simbologie (religiose e non), tessuti/modelli, modalità di bellezza; ultimo fattore – anche se non di importanza – il condizionamento dell’ambiente circostante, il rapporto-giudizio con la comunità di appartenenza – anche nella diaspora – e la relazione con il patriarcato della cultura di origine.

In questo scenario la religione è trasversale ai vari fattori perché influenza ogni ambito della vita della fedele, della sua famiglia e della comunità, andando a incidere sulle scelte quotidiane, come quella dell’abbigliamento, fino ad arrivare a questioni anche più profonde come le scelte matrimoniali e l’educazione familiare da impartire alle nuove generazioni.

Quello che abbiamo analizzato nel corso della ricerca è che ogni donna compie le sue scelte in funzione dei condizionamenti, ma anche a seconda delle varie fasi della vita che spesso coincidono con cambiamenti importanti secondo vari aspetti: il matrimonio, la migrazione, diventare madri, ecc. Questi e molti altri fattori influenzano i movimenti identitari, non solo quelli riguardanti il proprio corpo, ma anche quelli più interiori.

All’interno del libro parlate di viaggio delle donne e viaggio della bellezza. Potete spiegarci meglio questo concetto?

Ci piace molto l’idea del viaggio, in generale. Crediamo nel potere che i viaggi hanno: per le persone, per le comunità, anche per chi resta.

Nel caso specifico parliamo del viaggio delle donne, ossia della migrazione, e di come con loro viaggiano anche tutte quelle pratiche tradizionali di cura e di bellezza dei corpi. Questi rituali che lasciano il Subcontinente e raggiungono l’Europa sono proprio il fulcro della nostra indagine. Si tratta di un viaggio nello spazio, evidentemente, con tutto quello che comporta: l’abbandono delle pratiche, il riemergere, il resistere per farle vivere, il modificarle. Si tratta poi di un viaggio nel tempo, tra “un prima” e “un dopo” della migrazione, ma anche tra le generazioni. Abbiamo infatti “viaggiato” tra le diverse ondate migratorie, intervistando donne diventate nonne in Italia e donne nate in Italia e già madri. Questa è la parte della ricerca alla quale forse teniamo di più, quella che mette in risalto il passaggio di generazioni, il modificarsi di identità e il persistere di alcune modalità tradizionali e culturali. Il nostro è un viaggio tra i saperi femminili, che va dalle madri alle nipoti, mettendo in risalto il ruolo in particolar modo sociale di quello che ognuno di noi interpreta.

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Da sinistra: Stefano Romano, Sara Rossetti, Katiuscia Carnà

Avete trascorso molto tempo con donne pakistane, indiane, bangladesi e srilankesi. Che impressioni avete avuto di queste comunità a Roma e che esperienza vi riportate con voi?

Il periodo pandemico ha coinciso con quasi tutto il percorso della ricerca e pertanto ci siamo anche poste la domanda sulla fattibilità e scientificità di una ricerca empirica “a distanza”. Non è facile fare un lavoro sul campo di questo tipo, perché è come se il “campo” non ci fosse realmente, viene meno o comincia ad essere meno “reale”, diventa virtuale. Ma la caratteristica fondamentale che viene meno è la creazione dei rapporti interpersonali, fondamentali per la costruzione di una rete e di soggette che abbiano fiducia in noi ricercatrici. Come abbiamo ovviato a tutto questo? Prima di tutto, la nostra conoscenza delle comunità ha facilitato il nostro accesso anche a “distanza di sicurezza”; secondo il nostro background formativo, lavorativo e personale ha favorito questa ricerca sociale anche in tempi pandemici e l’aver scritto e svolto altre precedenti ricerche tra e per le comunità ha favorito i legami, aprendo nuove piste di indagine.

Le comunità analizzate, sebbene diverse per cultura, tradizione, lingua e cibo, hanno tutte un substrato culturale che le accomuna e anche una gerarchia interna di tipo patriarcale dalla quale molte delle donne intervistate cercano – quelle che hanno le possibilità – di prendere le distanze.  Alcune di loro, al di là della nazionalità, “utilizzano” l’esteriorità come arma politica e sociale, come atto di denuncia di un controllo sociale comunitario del quale sono spesso stanche, altre ancora lo subiscono consapevoli di tutto ciò. A livello più macro, abbiamo notato una maggiore “libertà” nella comunità delle donne srilankesi, forse dovuto a un legame meno forte con la religione e i dogmi che ne derivano.

Tratti comuni con quello che era il grande continente indiano e quindi Bangladesh, India e Pakistan. anche per ovvi motivi storico-culturali.


Profilo dell'autore

Luca La Gamma
Luca La Gamma
La sua formazione giornalistica inizia a 20 anni quando avvia una serie di collaborazioni con piccole testate romane occupandosi di sport e sociale. A 25 anni diviene giornalista pubblicista e a 26 decide di partire per la Spagna, tappa fondamentale per la sua crescita personale. Laurea in Lingue e letterature moderne alla Sapienza di Roma e in Editoria e giornalismo alla Lumsa di Roma. Attualmente consulente per la comunicazione in INPS. Viaggiatore, sognatore e amante della vita in tutte le sue sfumature, si identifica in Frontiere News perché è la voce fuori dal coro che racconta quelle storie che non vengono prese in considerazione dall’élite giornalistica.

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