Mentre il modello Orban dei muri anti-migranti tiene banco in Europa e dodici membri hanno scritto a Bruxelles domandando di finanziare “in via prioritaria” ed in “modo adeguato” le barriere fisiche ai confini, c’è chi si chiede se l’abbattimento delle frontiere sia un passaggio imprescindibile per ottenere una diffusione capillare dei diritti umani.
Foto in copertina di Nikolai Ulltang
In un mondo affetto da una patologia securitaria, è possibile immaginare una società diversa, che vada oltre muri e confini militarizzati?
Che si tratti di fenomeni di portata mondiale come flussi migratori, crisi climatica o pandemica, la prima soluzione a portata di mano è sempre la stessa: l’innalzamento di muri. Anche di fronte ad una crisi come quella afghana, dalla Grecia alla Polonia il muro europeo anti-migranti, che già supera i mille chilometri, non ha fatto che allungarsi voltando le spalle alla disperazione di un popolo tradito. Così abbiamo fatto anche nel Mediterraneo dove, seppur non vi sia un vero e proprio muro fisico, è stata creata una barriera militarizzata attraverso il sostegno a torturatori, ora diventati al contempo “salvatori”, che ha comportato la perdita di un incalcolabile numero di vite: secondo l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni soltanto nella prima metà del 2021 almeno 1.146 persone sono morte cercando di attraversare il Mediterraneo.
Se controlli più rigidi alle frontiere possono moderare i flussi verso il nostro continente, i muri di certo non fermano il fenomeno; semmai le frontiere sono mobili e i muri producono più morte e violenza. Basti pensare alla vicina rotta balcanica che, nonostante gli accordi tra Unione Europea e Turchia del 2016 e la costruzione del muro ungherese, è mutata nel suo percorso creando un vero e proprio limbo europeo al confine tra Croazia e Bosnia, dove violenza e tortura contro i migranti è divenuta prassi quotidiana.
Costruire i muri, il grande paradosso dei nostri tempi
È così che, pian piano, in questi decenni abbiamo completamente dimenticato, se non cancellato, una storia di comuni contaminazioni generando enormi incomprensioni e dando il via ad una vera e propria guerra culturale. Uno scontro, quello odierno, basato sulla demonizzazione dell’altro ed ove opposti fondamentalismi alimentano la tendenza a preferire il muro.
In questa fase storica caratterizzata da processi di apertura globale, in cui le frontiere non sono mai state così porose e aperte alla libera circolazione, la costruzione di muri si configura come uno dei più grandi paradossi del nostro tempo. In tale contesto c’è chi afferma, come la filosofa statunitense Wendy Brown, che i muri siano diventati spettacolarizzazione e rivendicazione di un potere e di una sovranità irrimediabilmente smarriti innanzi alla forza della globalizzazione.
E così la securizzazione è diventato il processo in cui minacce costruite servono ad enfatizzare il ruolo degli stati come baluardi di sicurezza e la loro tradizionale missione di sicurezza nazionale. Una situazione esacerbata da un crescente stato di eccezione in cui, per far fronte a queste presunte minacce, lo stato di diritto e i diritti umani sono temporaneamente, se non permanentemente, sospesi.
Cittadinanza e diritti umani: quando lo stallo è una questione economica
Il conflitto tra universalità e pretese di sovranità non riguarda solo la dimensione territoriale, ma anche quello che Hannah Arendt chiama il “diritto di avere diritti” che di fatto oggi dipende da un preciso status giuridico: la cittadinanza. Seppure, per sua stessa natura, questa contenga un valore costruttivo e di inclusione, è diventata anch’essa confine e metodo per escludere gli individui dalla comunità politica situandoli al margine. Non dimentichiamo infatti che oggi in Italia vivono oltre un milione di ragazzi e ragazze qui nati e cresciuti che parlano la nostra stessa lingua, ma che per lo Stato sono ancora stranieri.
Oggi cittadinanza e diritti umani sono di fatto materia discrezionale di ogni singolo stato. Così i migranti una volta attraversata la frontiera vengono condannati a un’indeterminatezza legale che ne limita le prospettive di vita e li espone alle peggiori forme di sfruttamento. Questo di certo non vale per i super ricchi del mondo che possono permettersi di pagare per diventare cittadini europei: secondo il Sole24 sono centinaia di migliaia i passaporti europei venduti a oligarchi, miliardari e uomini d’affari nell’ultimo decennio.
La frontiera però non è solo quel confine tangibile che ci separa fisicamente dall’altro. Questa si è estesa interessando tutti gli aspetti della nostra quotidianità: dall’accesso all’assistenza sanitaria e all’alloggio al diritto di voto, all’istruzione e al lavoro.
C’è chi di fronte a tutto questo difende una politica no-borders spesso derisa in quanto considerata mera utopia. Innanzitutto, portare avanti istanze alternative radicali all’esistente ha un ruolo critico fondamentale per fare spazio alla “possibilità” nella vita sociale e politica contemporanea e che, al contrario, lo stato di acritica adesione porti all’impossibilità del cambiamento.
Indagare il “possibile” come un mondo senza frontiere non è necessariamente esercizio di pura fantasia. Battersi per questa causa oggi può significare innanzitutto agire qui e ora per estendere la frontiera della democrazia attraverso una cittadinanza più inclusiva. Invocare un mondo senza confini non abbattendo quei muri invisibili, ma terribilmente impattanti che ci distinguono da chi vive accanto a noi, risulterebbe un’idea di scarsa concretezza.
Liberalizzazione dei diritti umani: la sfida allo stato-nazione
L’idea di un mondo senza confini si trasforma in realtà a partire dalle pratiche e dalle lotte quotidiane di chi è escluso dalla cittadinanza; se oggi c’è un mondo che urge liberalizzare è sicuramente quello dei diritti umani. I ragazzi e le ragazze di seconda generazione che scendono in piazza costituendo nuove soggettività politiche sfidano l’ordine dettato dallo stato-nazione, ed è proprio qui il potenziale emancipatorio e rivoluzionario di un’idea più inclusiva di cittadinanza: smuovere le coscienze a partire da un’inclusione che va oltre la dimensione di appartenenza territoriale per un più ampio progetto di convivenza oltre i confini.
La politica del no-borders è già concretezza nelle lotte quotidiane di chi dimostra solidarietà come Mimmo Lucano o di chi lotta in prima linea per rivendicare appartenenza e riconoscimento come il movimento “Italiani senza cittadinanza”. Quella della cittadinanza è una lotta di tutti e di tutte perché non c’è nulla di più distopico che pensare a degli Stati chiusi ermeticamente, nutriti da un fittizio ideale di purezza e da vecchie logiche coloniali dove i diritti vengono conferiti sulla base del colore della pelle e del Paese di provenienza.
Schierarsi dalla parte di una riforma della cittadinanza significa riconoscere l’esistenza dell’altro, un passo in più per i diritti umani e per una cittadinanza globale. L’invito è quello di riscoprire il potenziale emancipatorio dell’idea di un mondo senza confini a partire dalla fondamentale lotta per una cittadinanza più inclusiva, condizione indispensabile oggi per il godimento di diritti.
Battersi per un mondo senza frontiere non significa semplicemente sfondare dei muri, ma ispirarsi ad un tipo di società dove non esistono persone illegali; significa sostituire uno stato di sicurezza e di emergenza permanente con un tipo di organizzazione istituzionale volta alla cura e al rispetto reciproco e, infine, significa rispettare la logica fondamentale dei diritti umani: i miei diritti si rafforzano se i tuoi vengono rispettati, e non viceversa.
Profilo dell'autore
- Appassionata di Balcani, sono attivista per i diritti umani con Amnesty International e seguo i movimenti dal basso. Dopo essermi laureata in Relazioni Internazionali e Cooperazione allo Sviluppo a Perugia, mi sono specializzata in Democrazia e Diritti Umani nel Sud Est Europa a Sarajevo. Credo fermamente nella possibilità e nella necessità di immaginare e realizzare un sistema diverso da quello attuale che ha generato una ricchezza enorme per pochi a discapito dei molti e a danno del pianeta. Su questa linea, mi sono interessata alle lotte per il bene comune, o commons, per il potere trasformativo che queste lotte possono avere, non solo nel rimodellare la nostra relazione con la natura, ma anche all'interno delle comunità stesse innescando nuove forme alternative di cooperazione e solidarietà. Attualmente mi occupo principalmente di tematiche legate all’ambiente, ed in particolare ai conflitti ambientali nei Balcani, perché un ambiente salubre è parte integrante e fondamentale per il pieno godimento dei diritti umani. Sono convinta che tutti gli esseri viventi sulla terra debbano avere gli stessi diritti e le stesse possibilità per difenderli, per questo motivo mi definisco anche un'attivista per i diritti della natura.
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