di Camilla Hawthorne e Pina Piccolo
In questi giorni che ci vedono testimoni della recrudescenza di aggressioni, sia verbali che fisiche anche con esito fatale, dirette ai neri, sia in Italia che negli Stati Uniti, come evidenziato dai fatti di Fermo e dalle uccisioni di afroamericani da parte della polizia statunitense, crediamo che sia di cruciale importanza arrivare a un’analisi complessa delle cause di questo stato di cose, sia per capire la portata del fenomeno che per trovare i mezzi adeguati per contrastarlo.
In questo articolo scritto a quattro mani, vorremmo avviare un discorso su alcune pericolose carenze, tendenze e confusioni che entrambe percepiamo nel modo di affrontare il fenomeno razzismo in Italia. Lo spunto ci viene fornito in particolare dall’articolo di Gassid Mohammed “Non uccidete l’umano” apparso in Frontiere News il 17 luglio. Mentre quell’articolo si focalizza sui sentimenti che possono aver mosso la mano dell’assassino di Emmanuel Chidi Nnamdi, il nostro obiettivo è invece di mettere in evidenza i rapporti di potere, la non staticità del concetto di razza, gli aspetti sistemici ed istituzionalizzati, le narrazioni anche storiche su chi viene compreso nel concetto di umano, i processi di delegittimazione di chi è oggetto del razzismo quando si vuole a tutti i costi evitare di parlare di razza, perché riteniamo che chiarezza su queste cose sia della massima importanza in un paese che continua a rifiutare di fare i conti con il suo passato coloniale e il presente neo-coloniale. In più, un paese in cui, a differenza di altri, non si è ancora sufficientemente sviluppato un movimento di resistenza dal basso contro il razzismo a opera dei diretti interessati e si continua quindi a reagire con movimenti anti-razzisti improntati alla solidarietà ma prevalentemente in mano a italiani bianchi, e, almeno in passato, soggetta a forti pressioni partitiche e sindacali, per la storia specifica dell’Italia negli ultimi decenni che vede una confluenza della questione razzismo con quella della migrazione. Istruttiva nel senso del peso degli interessi politici la semi assoluzione del Partito Democratico a Calderoli che aveva chiamato Cecile Kyenge “orangutan”- per tutti i partiti da destra a sinistra passando per il centro trattavasi semplicemente di diffamazione e non di discriminazione razziale.
Nell’articolo “Non uccidete l’umano” l’autore utilizza un linguaggio altamente evocativo e afferma che “non è la morte di un essere umano che mi terrorizza, ma la morte dell’umano dentro le persone” identificando inizialmente ciò che a suo parere sta al centro della questione: cioè non tanto l’uccisione di un essere umano, seppur fatto gravissimo che deve però essere districato dagli addetti alla giustizia, ma piuttosto capire l’origine di quel “sentimento” che l’uccisore aveva nei confronti della vittima. Già nella parte iniziale dello scritto l’autore approda alla conclusione che costituisce una grossa tendenza nei movimenti antirazzisti in Europa fin dalla fine della seconda guerra mondiale, cioè che siccome la razza a livello scientifico non esiste, è bene evitare di rafforzarne gli effetti nocivi evitando di nominarla e di cercare altrove l’origine del “sentimento”. Egli identifica “la paura del diverso” come quello che fa scaturire le reazione violente e arriva alla conclusione che coniando il termine “diversofobia” si potrebbero evitare “quelle pigrizie” che presumibilmente ci inducono a utilizzare termini erronei come razzismo.
Il guaio è che pur mettendocela tutta per arrivare a una specie di cecità verso il colore (quella che negli Stati Uniti viene giustamente avversata da organizzazioni come Black Lives Matter come “color blindness” derivata da un imbarazzo nel riconoscere, da parte degli americani bianchi, i privilegi che scaturiscono dal non avere le pelle nera) come fare a ignorare che l’appellativo “scimmia africana” rivolta a Chinyery non è una paura del ‘diverso’ qualsiasi ma è fortemente connotata da un passato coloniale, che è esistito ben prima dei mass media e di paure innescate dalla crisi economica? La parentela di questa frase con i fasti del colonialismo italiano piuttosto che con i media contemporanei è più che evidente e continuiamo a ignorare queste origini a nostro rischio.
Razza: un termine che denota pigrizia mentale?
Nel suo articolo Gassid Mohammed argomenta che è un atto di pigrizia descrivere come “razzismo” le motivazioni dietro l’uccisione di Emmanuel Chidi Namdi, e suggerisce che “xenofobia” o forse anche “diversofobia” sono termini più appropriati. Il problema però non sta nel termine “razzismo”; abbiamo bisogno piuttosto di allargare la nostra definizione di razzismo, usando come base la storia dei nefasti meccanismi del razzismo. Il concetto di “razza” emerse in relazione al consolidamento del concetto di “Europa” o di “Occidente” alla fine del quindicesimo secolo, un progetto violento di creazione di mondo forgiato attraverso il colonialismo, l’imperialismo e lo schiavismo.
Nonostante che il concetto biologico di “razza” abbia raggiunto il suo culmine sotto i regimi fascisti del secolo scorso (sebbene studiosi come il sociologo Troy Duster sostengano che le moderne tecnologie genetiche stanno tentando di re-iscrivere la razza biologica tramite il DNA e il genoma) la razza è sempre stata una categoria polivalente che non si è mai potuto ridurre a sangue o colore della pelle. La “razza” è uno strumento che, attraverso l’essenzializzazione, calcifica la differenza e raggruppa in classifiche gerarchiche. Può essere considerato un significante “galleggiante,” carico di potere, che acquista significato attraverso la religione, la cultura, al geografia, la mobilità, le pratiche del corpo e le associazioni sociali allo scopo di produrre quello che la geografo Ruth Wilson Gilmore chiama “morte prematura”.
Tutto ciò non significa che utilizziamo razza “pigramente” come scorciatoia per altre forme di oppressione e violenza. Basta solo considerare i filosofi dell’Illuminismo i quali hanno consolidato le teorie di differenza razziale nel diciottesimo secolo, da Kant a Voltaire: tali pensatori frequentemente intrecciavano il culturale con il biologico (quello che Stuart Hall chiama i due registri del razzismo) insieme anche all’ambientale e al nazionale. Quindi anche lo stato nazione moderno si può essenzialmente considerare un progetto razziale, costruito sull’idea della nazione come “famiglia razziale” i cui confini proteggono il corpo della nazione da contaminazioni. Per esempio, il progetto risorgimentale includeva serie contestazioni sul carattere razziale della nascente nazione italiana, e diede alla luce la propria scuola italiana di teorici razzisti da Cesare Lombroso ad Alfredo Niceforo. Alla fine del diciannovesimo secolo, l’Italia iniziava a definirsi in termini razziali in relazione alla divisione Nord/Sud e all’impero che cercava di fondare nel Corno d’Africa.
La portata del colonialismo italiano è stato rimosso sia per quanto riguarda il passato che per quanto riguarda i rapporti neocoloniali del paese adesso. Per questo motivo mentre in altri paesi si rimuovono le statue di Rhodes o busti di schiavisti, ad Affile, in Italia si può procedere immunemente a costruire il mausoleo dedicato a un criminale di guerre neocoloniali italiane come il generale Graziani, iscritto dall’ONU nella lista di criminali di guerra. Partecipando in anni recenti a presentazioni di romanzi che riflettono sul passato coloniale italiano e le sue conseguenze, scritti da figlie e figli delle diaspore delle ex coloniale italiane mi colpisce molto che perfino per studenti universitari il capitolo “colonialismo italiano” è stato o ignorato o malamente affrontato e naturalmente questo non promette bene, anche se spesso queste stesse persone hanno aspirazioni anti-razziste.
Sparizione del termine razza dal lessico antirazzista dopo la seconda guerra mondiale e conseguenze
Al termine della seconda guerra mondiale, con il sostegno di antropologi liberali, la “razza” è stata rinnegata: nel mainstream dell’anti-razzismo europeo, è stata equiparata a una falsità biologica con collegamenti poco sgradevoli all’eugenetica fascista e alle leggi razziali. Tale “evaporazione razziale”, come la descrive David Theo Goldberg (e come è stata in seguito elaborata da nel caso italiano da Gaia Giuliani e Cristina Lombardi-Diop), funziona relegando convenientemente l’idea di “razza” al passato nel tentativo di sigillare metaforicamente il verdetto su fascismo e colonialismo e nascondere l’eredità di questa storia nel presente. Manifesti come La Dichiarazione sulla Razza stilata nel dopoguerra dall’UNESCO (o la sua controparte italiana, Il manifesto degli scienziati antirazzisti del 2008) suggeriscono che il termine “razza” contiene troppe connotazioni negative e che bisognerebbe evitarlo in favore di categorie più neutrali come “etnicità” o “cultura”.
Ma naturalmente il passato non è mai morto. L’antirazzismo senza la razza, secondo studiosi come Dace Dzenovska e Alana Lentin trasformano l’obiettivo dei progetti antirazzisti l’eliminazione del termine “razza” , piuttosto che la distruzione della struttura di potere storicamente sedimentata che è a fondamento della creazione di categorie razziali attraverso le quali si costruiscono i diversi soggetti dei gruppi. L’articolo di Gassid Mohammed costituisce un esempio di tale operazione, Per cui se si continua a utilizzare il termine ‘razzismo’ anche per condannarlo, vuol dire continuare a propagare l’errato concetto fondato sull’esistenza di diverse ‘razze’ umane. Come scrive l’etnologa femminista Kamala Viswewaran, questo antirazzismo liberale presenta dei grossi limiti perché trascura il fatto cruciale che il razzismo produrre la realtà sociale della razza. “Razza” non esiste senza “razzismo”; il nostro obiettivo in quanto antirazzisti deve essere quello di opporre le strutture che tengono in piedi il razzismo e a loro volta legittimano la “razza” come misura di espandibilità. Emmanuel Chidi Nnamdi è stato ucciso da un sistema razzista che a sua volta legittima le vili azioni di individui fascisti. E’ stato vittima non di una patologia individuale, o di una aberrante “diversofobia”, o della parola “razza”, ma piuttosto di un sistema globale razzista che si affida a una costruzione sociale di razza per rendere vite nere uccidibili.
Naturalmente, bandire la parola “razza” non fa sparire il razzismo, serve solo a indebolire l’attivismo antirazzista negando la legittimità dell’esperienza di razzismo vissuta dalle persone nere. Inoltre, cercando riparo in categorie come “etnicità” o “cultura” non si fa altro che sedimentare questi termini che occupano il vuoto lasciato da razza. Questa difficoltà si nota spesso nei termini utilizzati per aggirare il concetto di far lavorare insieme persone provenienti da differenti esperienze di razza: in Italia si parla spesso di intercultura o di meticciato e queste categorie sono così irte di tranelli e ambiguità da meritare una considerazione mirata (che cercheremo di fornire nel prossimo numero di ottobre della rivista Lamacchinasognante.com, concentrandoci appunto sul concetto di meticcio e meticciato che ultimamente si è molto diffuso in ambienti antirazzisti).
Siamo veramente tutti sulla stessa barca?
Purtroppo, l’appello di Gassid Mohammed per un umanesimo condiviso è insufficiente per il nostro momento storico. La filosofa giamaicana Sylvia Wynter contraddice tale pretesa di universalismo diffusa dall’Illuminismo, argomentando che la categoria dell’umano non sia mai stata in realtà universalista. Infatti questo è uno dei problemi dell’appello ad “essere umani” che spesso accompagna il movimento per i diritti dei rifugiati in Europa. La categoria di “umano” è stata utilizzata come linea di demarcazione o gerarchia per determinare chi è portatore di diritti, libero, e soggetto agente e chi non lo è. E’ quello che il grande intellettuale postcoloniale e poeta della Negritudine Aimé Césaire denunciava nello pseudo umanismo europeo il cui “Concetto di tali diritti è stato – e continua a essere- ristretto e frammentario, incompleto e parziale e , tutto considerato, sordidamente razzista.”
Per questa ragione, non si può iniziare dalla prospettiva che “siamo tutti umani” se alcuni gruppi non sono mai stati riconosciuti come completamente umani, cosa per cui Amedeo mancini si è sentito giustificato nel chiamare la moglie di Emamnuel Chidi Nnamdi, Chinyery “scimmia africana”. A una recente manifestazione antirazzista a Roma tenutosi dopo l’uccisione di Emmanuel ho visto un uomo che portava un cartello che diceva “Siamo tutti scimmie evolute” (la versione italiana di #AllLivesMatter). Questo tipo di pensiero nega l’esistenza di privilegi basati sulla razza. Non siamo tutti sulla stessa barca – alcune delle nostre barche sono bucate e fanno acqua da tutte le parti mentre altri se ne stanno comodamente sui propri yacht.
* E’ interessante notare che queste considerazioni e repliche su razzismo in Italia siano state scritte da un iracheno Gassid Mohammed, che studia e insegna in Italia da alcuni anni, da Camilla Hawthorne, italoamericana studiosa di geografia a Berkeley, figlia di madre bianca italiana e di padre afroamericano, e da Pina Piccolo, blogger e poeta calabro-californiana.
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Ho condiviso il vs interessante articolo, anche perchè con la crisi dei social forum le questioni antirazziste hanno ricevuto minori attenzioni nelle culture critiche.