Tito Boeri: “La clandestinità si vince rispettando i diritti degli stranieri”

Che il rispetto debba essere alla base di ogni rapporto interculturale è un principio semplice, ma profondamente radicato nelle sfide e nelle opportunità che la società italiana e l’Europa affrontano oggi nel campo dell’immigrazione. In questa conversazione, Boeri non solo riflette sulle condizioni attuali del welfare per gli stranieri in Italia, ma esplora anche le complesse dinamiche fiscali ed economiche che gli immigrati portano nel tessuto socio-economico del paese, svelando una realtà spesso misconosciuta o ignorata.

Nel 2000 lei ha scritto un libro sull’inefficacia dello stato sociale in Italia (Uno Stato asociale. Perché è fallito il Welfare in Italia, Laterza). Com’è cambiato il welfare degli stranieri negli ultimi dieci anni? Ravvisa miglioramenti?
Purtroppo non ci sono stati miglioramenti. Nel 2000 mancavano le protezioni sociali di base per i migranti e ancora oggi ci sono problemi. Se anche negli ultimi dieci anni ci fossero stati eventuali progressi minimi, come trend generale, le persone che non hanno la cittadinanza sono state escluso a priori. Posso citare ad esempio i contributi regionali per il mutuo della casa: tra i requisiti spesso c’è la cittadinanza.
Un recente dossier statistico della Caritas ha stimato che l’Italia incassa dagli immigrati 11 miliardi l’anno e ne spende 10. Un miliardo l’anno di differenza in positivo. Alla luce di questo dato, qual è il ruolo delle seconde generazioni nella società italiana?
Devono essere considerati due aspetti. Il primo è fiscale: i dati della Caritas sono corretti, gli immigrati danno un netto contributo alle casse dello Stato. È importante considerare che in molti vengono da noi, lavorano e versano i contributi per poi tornare nel paese d’origine senza aver maturato la condizione di poter richiedere assistenza previdenziale; addirittura diversi di loro, anche se idonei a richiedere servizi previdenziali, ne sono all’oscuro e quindi non  presentano domanda.
Il secondo aspetto è economico: il lavoro degli immigrati è fonte del 10% del Pil. In proporzione tra gli immigrati c’è una maggior partecipazione al mercato del lavoro; soprattutto tra le donne immigrate, che lavorano di più di quanto non facciano le donne italiane.
La crisi ha aumentato il dislivello sociale tra immigrati e italiani?
Non ci sono ancora dei dati precisi, ci stiamo lavorando e presenteremo il frutto delle nostre ricerche in un convegno a settembre a Palermo. Un dato certo riguarda l’occupazione: soprattutto nel campo delle costruzioni, non pochi immigrati sono tornati nei paesi di origine. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i flussi migratori verso il nostro Paese si sono ridotti, in quanto il mercato del lavoro è diventato meno allettante per gli stranieri.
Alla luce di quanto ha recentemente scritto su Repubblica, quali potrebbero essere, in tema di politiche d’asilo, le riforme necessarie per affrontare la difficile gestione dell’immigrazione clandestina?
La lotta all’immigrazione clandestina deve essere affrontata su base europea e sicuramente il controllo di frontiera ne rappresenta un aspetto notevole. È giusto che l’Europa collabori con gli stati di frontiera. Un altro aspetto fondamentale per scoraggiare l’immigrazione clandestina si basa sul rispetto delle normative sul lavoro: buona parte dell’immigrazione clandestina è causata dalla alta possibilità, in paesi come l’Italia, di accedere facilmente al lavoro nero. Una applicazione delle regole sul pagamento dei contributi sociali e sulle condizioni di lavoro potrà sicuramente rappresentare una valida strategia. Le politiche sull’immigrazione vanno coordinate a livello europeo, potendo avere così una maggiore efficacia, tenendo comunque a mente le situazioni di emergenza umanitaria, diversi infatti lasciano i propri paesi per sfuggire a guerre e dittature.
In che modo le varie comunità contribuiscono al rallentamento di questo processo? Riguardo alla costruzione di moschee in Italia, spesso osteggiata e strumentalizzata, quale potrebbe essere l’approccio più equilibrato?
Partiamo da un dato concreto. Secondo le stime del Dossier Statistico 2010 Caritas/Migrantes, gli islamici in Italia sono più di un milione, poco meno del 2% della popolazione italiana. Sarebbe assolutamente contro ogni logica e contro il buon senso escludere una parte considerevole della popolazione dai processi sociali e antropologici della nostra nazione. Detto questo, è evidente che ci sia una parte politica che utilizza le paure infondate per scopi propagandistici. Sicuramente alcune religioni presentano maggiori difficoltà di integrazione e richiedono uno sforzo maggiore ma questo non può e non deve essere un motivo per troncare sul nascere ogni tentativo di inserimento. C’è una forte strumentalizzazione riguardo alla costruzione di moschee; io reputo che non solo non ci sia nessun problema ma che sia anzi necessaria. Se offriamo un luogo di culto ai fedeli ed evitiamo quindi la proliferazione incontrollata di gruppi sotterranei abbiamo solo da guadagnarne.
Mathew Myladoor e Valerio Evangelista

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