Statale 106: la strada delle bellezze devastate

Foto di Filippo Romano e Eva Frapiccini

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Intervista a Filippo Romano

Come nasce il lavoro sulla 106?
Nasce dalla confluenza di due esperienze: una di carattere più strettamente familiare, l’altra indotta dalla volontà di raccontare come il sublime e lo sfregio possano coesistere nella stessa narrazione regalandoci momenti di lirismo alternato a denuncia.
Mio nonno, magistrato, ricevette il suo primo incarico in Calabria. In questa terra nacque mio padre ed è proprio a questa stessa regione che sono legati i ricordi delle mie vacanze estive. Ogni anno con tutta la famiglia trascorrevamo l’estate nel crotonese. Il viaggio verso sud prevedeva sempre lo stesso itinerario: il tirreno all’andata e lo jonio e l’adriatico al ritorno. Osservavo i luoghi dal finestrino e quei paesaggi dalla bellezza intensa mi affascinavano. Anni dopo, era il 2007, ebbi l’occasione di ripercorrere la statale in compagnia di mio cugino, commissario prefettizio a Platì, che mi raccontò i retroscena e le contraddizioni di quei territori. Fu proprio allora che decisi di voler dedicare loro del tempo. Per conoscerli a fondo.

Quali sono state le tue impressioni da adulto?
La bellezza del paesaggio è sempre molto forte. La 106 è un racconto fatto di episodi eclatanti, di denuncia ma anche di “tenerezze”. Tante incoerenze messe assieme fanno intuire come la realtà dei fatti non sia univoca e monocorde ma paradossale.

La Calabria, soprattutto quella lambita dalla statale 106 è stata sempre considerata come una sorta di “terra di conquista”. A lungo si è creduto che i cosiddetti poli di sviluppo potessero risolvere i problemi della regione. Tuttavia i vari reperti di archeologia industriale seminati sul territorio sembrano dimostrare il contrario. E in più è proprio di questi mesi il dibattito su una possibile centrale a carbone: quella di Saline Joniche. Qual è la tua opinione in merito?
Sarebbe l’ennesimo buco nell’acqua o forse è il caso di dirlo una botta di cancro che aleggerebbe sulle teste dei calabresi. Non credo alle finalità di progetti simili e poi il trascorso di Saline è già di per sé una grossa truffa, a partire dal terreno su cui si è costruito. La storia del sud è piena di villaggi mai abitati e industrie mai funzionanti. Si potrebbe fare una sorta di inventario delle promesse mai mantenute.

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Da calabrese ritengo che la mia regione sia una terra ingovernabile. Almeno così è stato fino ad oggi. Tu che la conosci bene, pur non vivendoci, che idea ti sei fatto?
Non ho molta fiducia in chi governa la Calabria. Questo però non significa che bisogna abbandonare la barca ma piuttosto mettersi in salvo. In Calabria è stata fatta fuori la società civile; anche se presente è stata relegata in un angolo e costretta a stare muta. Pensiamo per esempio alla storia di Platì: all’inizio era popolata da tutte le classi sociali, poi con l’avvento della ‘ndrangheta chi disponeva di denaro e non si riconosceva con il sistema che si stava insediando, è emigrato.

Come si costruisce una “storia per immagini”?
Non esistono delle regole fisse. Dipende dalla storia e da cosa si vuole documentare. Nel caso della statale ho cercato di mantenermi sempre ad una certa distanza e di rappresentare raramente l’azione. Era come far confluire la narrazione in un grande racconto che non era semplicemente mio ma di un certo tipo di fotografia che a mio avviso interpreta bene il racconto sui luoghi. Quindi la parte più soggettiva, autobiografica non è mai particolarmente enunciata. Avevo bisogno di ricostruire luoghi confusi nella mia memoria, visti sempre di sfuggita con la differenza che ora potevo esplorarli, soffermarmi, indagare. Le storie devono avere una costruzione quasi musicale. Le immagini, una dopo l’altra, devono avere un ritmo. È difficile spiegare perché alcune incongruenze alla volte funzionano e altre no. Pensa alla costruzione di un film: all’inizio c’è il titolo e alla fine i titoli di coda, e sappiamo anche che c’è la colonna sonora. Però poi nel mezzo ci sono infinite variabili e sensibilità talmente diverse che a priori è impossibile individuarle.

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Quanto conta l’etica nel tuo lavoro?
È difficile spiegare che cos’è l’etica per un fotografo. Di sicuro non mi piace la spettacolarizzazione e tutto ciò che è moralismo. La crudezza della realtà va raccontata facendo attenzione a non strumentalizzarla.
Quando fotografo gli slums mi viene in mente Viaggio al termine della notte di Céline. Pagine intense nelle quali l’autore racconta la sua professione di medico in un quartiere povero di Parigi. Mi sono chiesto quale potesse essere il punto di vista di uno come lui, cinico e dissacrante. E la risposta è stata che lui si trovava lì perché era lì. E lo stesso succede a me. Io mi trovo lì perché sono lì. Questa è l’unica cosa che so. Forse solo il tempo darà delle risposte più chiare.

Di recente sei stato invitato a Perugia in occasione di FESTARCH per raccontare la tua esperienza all’interno di LIVESLUMS. Di cosa si tratta?
Liveslums è una ong che sviluppa progetti per la valorizzazione delle risorse locali negli insediamenti informali. Il punto di forza dell’organizzazione è l’estensione dei progetti a diversi piani narrativi. Per cui dall’intervento di ricostruzione di una scuola di strada nasce un racconto sullo slum. Gli interventi non sono mai fine a se stessi ma rappresentano un momento di socializzazione e di coinvolgimento dell’intera comunità. L’intento è preservare la cultura locale incanalandola in processi trasformativi che producano uno sviluppo umano e sostenibile.

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*Filippo Romano (Messina, Italia, 1968) ha studiato all’International Center of Photography di New York. Risiede a Milano, dove sta seguendo un progetto in collaborazione con l’ONG LiveInSlums sull’identità delle culture giovanili nello slum di Mathare a Nairobi. Lavora da diversi anni con la casa editrice Skira nel settore editoriale dell’architettura e nel 2007 ha curato il libro Soleritown sull’opera dell’architetto Paolo Soleri. Ha pubblicato il suo lavoro su diverse testate, tra cui Abitare, Io donna, Courrier International. Ha fatto parte del collettivo francese Tangophoto dal 2003 al 2008. Il suo lavoro è stato esposto al Festival di Guangzhou nel 2005, al Festival di Lianzhou in Cina e al Festival di Roma nel 2009. Nel 2010 ha esposto il progetto 106 statale Jonica alla Biennale di Architettura di Venezia nel Padiglione Italia.
È rappresentato dall’agenzia LUZphoto.
www.filipporomano.eu

Rubrica a cura di Teodora Malavenda


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