Israele, violazioni al confine: respingimenti, incarcerazioni e violenze

Erano stati intrappolati, il 28 agosto scorso, all’interno di un’area militare israeliana, sulla linea di confine tra Egitto e Israele: 21 persone di origine eritrea, tra cui due donne in gravidanza e un ragazzino di 14 anni. Chiedevano asilo, temevano di essere incarcerati e poi rimpatriati.

Avevamo raccontato la loro storia e quella degli attivisti del Phr (Physicians for Human Rights), intercettati a loro volta dai militari israeliani, mentre cercavano di superare la frontiera per portare assistenza al gruppo: gli eritrei erano stati privati di cibo e assistenza, quest’ultima garantita solo attraverso la concessione di poche dosi d’acqua al giorno. (LEGGI QUI L’ARTICOLO).

Nel frattempo, le temperature sono salite, il caldo è aumentato. E nella recinzione sul lato israeliano della cortina militare, la storia ha fatto il suo corso. Una delle due donne ha abortito. In poco meno di un mese, stando alle denunce degli operatori e degli organi di stampa, i militari avrebbero continuato a non fornire alcuna assistenza ai clandestini.

Nessun riparo, ad eccezione delle dosi d’acqua potabile (dosate al minimo, sufficienti appena a garantire la soglia dell’umana sopravvivenza) e pezzi di scarto di tessuti e stoffa per ripararsi dai raggi del sole. Nonostante l’intervento degli attivisti, intercettato dai militari, l’esercito ha continuato a non offrire cibo e nutrimento al gruppo eritreo.

L’aborto di una delle due donne gravide, la condizione disperata degli uomini e i triboli fisici patiti dal ragazzo sono stati la naturale conseguenza delle condizioni disperate imposti dai soldati agli “ospiti indesiderati”. Un problema irrisolvibile, come già lo stesso Governo israeliano aveva dichiarato interpretando a suo piacimento le fonti normative e comunitarie.

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Leggi disattese soltanto a seguito dell’aborto, con l’accoglienza concessa alle due donne e al 14enne entro i confini di Israele. Nulla di solidale, però, dal momento che, dopo aver lasciato l’area militare, i tre sono stati trasferiti in carcere e, in seguito, rimpatriati. La conferma puntuale del destino tanto temuto dagli stessi migranti, e per sfuggire al quale avevano riparato sulla via d’Israele.

I soldati, a detta dei rifugiati, hanno usato violenze fisiche durante il confino. Sparando gas lacrimogeni contro il gruppo e utilizzando spranghe di ferro per arrestarne la corsa dall’Egitto. Condizioni che configurerebbero il reato del ritorno forzato dei richiedenti asilo verso quei Paesi in cui la loro vita e la loro libertà potrebbero essere in pericolo.

Una violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati, ratificata nel 1951 dallo stesso Stato d’Israele che, oltre all’illecito respingimento, avrebbe anche creato condizioni di profonda ostilità all’interno dei suoi confini verso i profughi eritrei. Violenza strutturale e popolazione chiusa e diffidente: sono queste le accuse che gli osservatori internazionali avrebbero intenzione di muovere al Paese del Vicino Oriente.

Una situazione da tempo sotto monitoraggio. Quanti scappano dai conflitti in Sudan, o dalla guerra in Eritrea, giungono al confine con l’Egitto lasciandosi alle spalle feroci dittature e ordinamenti interni antidemocratici. Temono un respingimento che, puntualmente, Israele si ritrova invece a operare, talvolta anche in modo brutale.

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Dal confine lungo la valle del Sinai, arriva la storia di Domenica Dieng, a conferma delle atrocità legate al fenomeno delle migrazioni clandestine. Sudanese, 26 anni, orfana di entrambi i genitori (uccisi in patria dalle forze armate) ripara in Egitto. Certa di trovare lì un piccolo paradiso in cui ricominciare a vivere, presto si ritrova a fare i conti con un “girone infernale” : stupri, violenze di strada, vessazioni razziste.

Domenica decide di fuggire ancora. La sua nuova meta: Israele. Gli stessi sogni, infranti dallo stesso infelice destino. Le violenze, il tentativo di respingimento e, infine, un anno e due mesi di detenzione. Le sue parole sono pregne della sua sofferenza :”Vivere in carcere per un anno e due mesi per nessuna ragione è terribile, provoca danni mentali. Sei in carcere ma non hai fatto niente, è assurdo.”

Diverso sarebbe invece il destino di quanti sfuggono alla condanna della legge. Diverso, ma non meno infelice, visto che ne subiscono un’altra, inflitta dalla vita di tutti i giorni. Chi non finisce in prigione, infatti, ingrossa il commercio del mercato nero, diventa schiavo, senza la possibilità di avanzare richieste allo Stato. E questi sono, paradossalmente, i più fortunati.

C’è anche chi non riesce a trovare lavoro. Il loro destino? Tirano avanti ogni giorno, i senzatetto si abbandonano sul ciglio delle strade, i clandestini vivono in appartamenti sovraffollati. In alcuni casi, anche in dieci in una stanza singola. Mettono al mondo figli che lo Stato non riconoscerà mai.

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Figli di nessuno, perché nessuno garantirà loro assistenza, tutela, protezione, fondi, sostegno. In un’escalation di disperazione, si finisce per metter su una rete di “stoccaggio dei bambini”: i piccoli sono venduti, perché la compravendita, sulle terre al confine con lo Stato di Israele, è la loro sola possibilità di salvezza.

Emilio Garofalo

 


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