Il jazz, un’arma contro le derive reazionare e xenofobe dell’Ungheria

“Musei, fondazioni e teatri sono stati o chiusi o assegnati a servi del regime che li usano solo a fini propagandistici. Senza libertà non si può produrre cultura”.

di Riccardo Bottazzo

REAZIONE E XENOFOBIA, UN COCKTAIL ESPLOSIVO. E’ notte fonda a Budapest. E la premesse c’erano tutte. Gli scandali e il malgoverno che hanno travolto il partito socialista al potere da due legislature, la crisi economica che ha devastato soprattutto le categorie più deboli, il rafforzarsi di partiti di destra e di formazioni dichiaratamente naziste e xenofobe; il partito conservatore Fidesz ha vinto le elezioni con il 53% di voti e il suo leader Viktor Orbàn governa senza sottostare a mediazioni con partiti più moderati – come era avvenuto in passato – e avendo anche i numeri per mettere mano alla Costituzione. Il primo passo è stato il cambiamento del nome dello Stato, da “Repubblica Ungherese” a un più nazionalistico “Ungheria”, un termine da scandire in piedi e con la mano nel cuore; “repubblica” o “democrazia” sono aggettivi di secondaria importanza rispetto all’orgoglio nazionalistico, in nome del quale qualsiasi manifestazione di protesta viene etichettata, e di conseguenza duramente repressa, come antipatriottica.

Anche l’opposizione non scherza, nel parlamento di Budapest. Se si trascura il 7,5 per cento ottenuto dai Verdi, gli unici a tentare di difendere quel che rimane dei diritti civili – una disperata resistenza che pagano quotidianamente con arresti, botte e persecuzioni – va registrato il successo ottenuto dal partito Jobbik (salito dal 2% nel 2006 al 16,7% nelle ultime elezioni) che non fa mistero ma un vanto di richiamarsi direttamente all’ideologia nazista. Tanto è vero che il suo leader, il 31enne Gabor Vona, ha recentemente avanzato una proposta di legge volta a schedare tutti i cittadini di origine ebraica. Un provvedimento giustificato naturalmente con lo scopo di “garantire la loro sicurezza”. Discorsi già sentiti e che fanno correre brividi lungo la schiena. Impossibile non ripensare a quando scriveva Primo Levi: “Inutile chiederci perché. E’ successo. Succederà ancora”.

I neo nazisti di Jobbik, nei fatti, hanno la funzione di appoggiare dall’esterno il governo di Viktor Orbàn, spingendolo sempre più a destra. Gli effetti si sono già fatti sentire. Tutti i giornali di opposizione e anche quelli che semplicemente hanno rifiutato il ruolo di mere passaveline dei comunicati del regime hanno chiuso i battenti. Lo storico Nèpszava ha pubblicato la sua ultima edizione riportando una sola frase tradotta nelle 23 lingue europea: “La libertà di stampa in Ungheria è finita“. Una disperata richiesta di aiuto alla comunità internazionale che è stata deliberatamente ignorata.

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LA CULTURA, UNICA ANCORA DI SALVEZZA. Che aria tiri in quella che sino a poco tempo fa era la Repubblica Ungherese, ce lo hanno spiegato chiaramente i jazzisti dello splendido Szoke Szabolc Quartet che girano l’Europa per far conoscere tanto la loro musica quanto la situazione ungherese. Situazione che trova assai poco eco nei nostri media, tradizionalmente poco attenti a quando accade al di là delle Alpi, anche in Paesi come l’Ungheria che dista non più di tre ore d’auto dalla frontiera.

“Ed è una vergogna perché le formazioni di estrema destra mantengono contatti molto stretti tra di loro – ha spiegato in occasione di un incontro al laboratorio Morion di Venezia, domenica 20 gennaio, Gabor Juhàsz, chitarrista del gruppo -. Sappiamo che qualche tempo fa diversi autobus carichi di nazisti ungheresi si sono recati proprio nella vostra regione per partecipare ad un concerto organizzato dal Veneto Fronte Skinhead. La cosa che più mi sorprende è che è stato fatto tutto alla luce del giorno. La polizia si è limitata a controllare che i mezzi fossero parcheggiati nei posti assegnati mentre dal palco si urlavano inni alla violenza, all’odio etnico e a Hitler. Ma la vostra Costituzione non vieta forse la propaganda dell’ideologia fascista?

Juhasz, intervistato da Vilma Mazza dell’associazione Ya Basta, ha raccontato le persecuzioni cui sono sottoposti i musicisti e, più generalmente, gli scrittori, gli artisti e tutte le persone che fanno cultura in Ungheria. “Musei, fondazioni e teatri sono stati o chiusi o assegnati a servi del regime che li usano solo a fini propagandistici. La musica però non ha confini e un artista ama sempre la libertà perché sa che senza libertà non si può suonare né produrre cultura. Noi inoltre siamo musicisti jazz che è una forma musicale per sua natura meticcia e transnazionale. Questo è il motivo per cui dobbiamo suonare all’estero. Al regime piacciono più gli inni nazionali e detesta una musica come la nostra che essenzialmente vuol dire libertà e interculturalità”.

MANI SULLA MAGISTRATURA. Non è solo la cultura a fare le spese della deriva fascista ungherese. Con la nuova Costituzione la magistratura è stata mesa sotto il diretto controllo dell’esecutivo, alla faccia di quella divisione dei poteri che sta alla base delle repubbliche moderne (non è un caso quindi che, come abbiamo detto, il Governo abbia rinunciato al termine “repubblica” davanti ad “Ungheria”). La persecuzione razziale ha colpito soprattutto i rom che sono stati tutti schedati come appartenenti ad una etnia “non ungherese” e che, per lavorare, hanno come unica alternativa inserirsi in un programma di “lavori socialmente utili”. In cambio di uno stipendio da fame, vengono spostati e concentrati in campi di lavoro sorvegliati a vista da poliziotti armati. Le differenza con un lager di concentramento nazista non sono poi molte. Per adesso.

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POPULISMO IN SALSA NAZI, COL PLAUSO CINESE. Un altro punto forte del programma elettorale di Orbàn, era quello di pubblicizzare le banche sotto lo slogan che i soldi degli ungheresi sono degli ungheresi. Come immaginerete, si trattava solo di un patetico tentativo a fine populista. Fare le scarpe alle banche non è facile come ghettizzare i rom o schedare gli ebrei. E’ bastata un’alzata di ciglio della Banca Mondiale per far abortire ignominiosamente tutto il progetto. Anche in Ungheria, come in Italia e nel resto del mondo, si potranno anche randellare i diritti e i lavoratori, ma guai a toccare il capitale. Una scelta questa che ha ottenuto l’immediato e caloroso plauso del Governo Cinese. Il ministro dell’Industria di Pechino, il compagno Miao Wei, ha recentemente dichiarato che il suo Paese investirà forti somme nello “sviluppo economico” dell’Ungheria in quanto, ha affermato testualmente, in questo Paese, unico in Europa, la manodopera costa poco e i lavoratori – bontà loro – accampano pochi diritti. Evviva il comunismo e la libertà!

Ecco quanto accade in Ungheria. Un Paese che, come per la Bosnia, si trova ad un tiro di schioppo dall’Italia, ma che nell’opinione comune costruita dai nostri mass media, sembra situato in un altro e lontano continente. Eppure non dovrebbe essere difficile rendersi conto che, in questo mondo globalizzato, quanto accade dietro la porta di casa nostra è come se accadesse a casa nostra. E non solo per una pur imprescindibile questione di giustizia universale che, come ci ha spiegato un tipo chiamato Ernesto Guevara, ci dovrebbe spingere a sentire ogni prepotenza compiuta in un qualsiasi angolo del mondo come se fosse stata fatta contro di noi. Il problema è anche che ogni attacco ai diritti fondamentali che avviene in un qualsiasi paese del Mondo si traduce prima o poi in un attacco simile anche ai nostri diritti fondamentali. Non possiamo più illuderci di poter vivere liberi in un mondo di schiavi.

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“Se l’Ungheria perde libertà – ha concluso Vilma Mazza – anche l’Europa perde libertà”.


Profilo dell'autore

Riccardo Bottazzo
Giornalista professionista e veneziano doc. Quando non sono in giro per il mondo, mi trovate nella mia laguna a denunciare le sconsiderate politiche di “sviluppo” che la stanno trasformando in un braccio di mare aperto. Mi occupo soprattutto di battaglie per l’ambiente inteso come bene comune e di movimenti dal basso (che poi sono la stessa cosa). Ho lavorato nei Quotidiani dell’Espresso (Nuova Venezia e, in particolare, il Mattino di Padova). Ho fatto parte della redazione della rivista Carta e sono stato responsabile del supplemento Veneto del quotidiano Terra. Ho all’attivo alcuni libri come “Liberalaparola”, “Buongiorno Bosnia”, “Il porto dei destini sospesi”, “Caccia sporca”, “Il parco che verrà”. Ho anche curato e pubblicato alcuni ebook con reportage dal Brasile pre mondiale, dall’Iraq, dall’Algeria e dalla Tunisia dopo le rivoluzioni di Primavera, e dal Chiapas zapatista, dove ho accompagnato le brigate mediche e un bel po’ di carovane di Ya Basta. Ho anche pubblicato racconti e reportage in vari libri curati da altri come, ricordo solo, gli annuari della Fondazione Pace di Venezia, il Mio Mare e Ripartire di FrontiereNews.
Sono direttore di EcoMagazine, sito che si occupa di conflitti ambientali, e collaboro con Melting Pot, FrontiereNews, Global Project, Today, Desinformemonos, Young, Q Code Mag, il Manifesto e lo Straniero. Non riesco a stare fermo e ho sempre in progetto lunghi viaggi. Ho partecipato al Silk Road Race da Milano a Dushanbe, scrivendo reportage lungo la Via della seta e raccogliendo racconti e fotografia in un volume.
Non ho dimenticato la formazione scientifica che ho alle spalle e, quando ho tempo, vado a caccia di supposti fantasmi, case infestate o altri "mysteri" assieme agli amici del Cicap, con il quale collaboro per siti e riviste.

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