Beresheet LaShalom, ovvero l’arte che unisce i popoli

Angelica Edna Livne è una donna ebrea, nata a Roma, che si definisce “un’educatrice alla pace attraverso l’arte”. La sua vita è incentrata nell’offrire ai bambini un’alternativa alla cultura della violenza e dell’odio. Ma la sua storia preferiamo lasciarla raccontare a lei stessa.

Sei fondatrice di Beresheet LaShalom. Parlaci di questo progetto, la cui missione si intuisce già dallo stesso nome.
Beresheet LaShalom significa “Un inizio per la pace”. Nel periodo dei grandi attentati ho deciso di portare una cinquantina di ragazzi israeliani in Toscana, per dare loro un’opportunità per riacquistare la tranquillità perduta. Li ho visti disegnare un sorriso sul volto, nonostante avessero un fratello in coma, i genitori morti o fossero loro stessi senza un arto o senza un occhio. Dopo due settimane a Castiglioncello la loro vita era cambiata, nonostante il dolore. E in quel momento ho capito che c’era bisogno di creare qualcosa che mettesse in contatto ragazzi di cultura diversa. Da lì l’idea del teatro che, da ormai 12 anni, unisce arabi, ebrei, cristiani e drusi. Nonostante l’iniziale diffidenza e il dolore che ognuno porta inevitabilmente dentro, questi ragazzi diventano come fratelli. E il “metodo Beresheet LaShalom” inizia a diffondersi e a unire persone diverse anche nell’età. Abbiamo partecipato a diversi progetti organizzati dal Parlamento Europeo; nel 2009 abbiamo eseguito delle performance davanti al Papa, eravamo 40 giordani e 40 israeliani. Ricordo con piacere anche un’esibizione a Napoli – dove hanno partecipato ragazzi da Marocco, Malta, Italia e Israele – conclusosi con un flashmob all’orientale. Nel 2012 ho condotto anche la settima edizione de “Una cultura in tante culture”, un corso di formazione per docenti di ogni ordine e grado promosso dall’Adei Wizo e patrocinato anche dal Miur. Questo progetto è nato per portare dialogo nelle scuole attraverso laboratori di danza e musica.

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Lavorare in una situazione di tensione non dev’essere facile. Qual è la chiave per impedire che un attentato o un raid aereo spazzino via, in un secondo, quanto costruito fino a quel momento?
Vivo a Sasa, un kibbutz al confine con il Libano. Affacciandomi vedo Ezbollah; a 5 km c’è un villaggio musulmano, a 5 km verso l’altra direzione c’è un villaggio druso. Durante la guerra del Libano nel 2006 noi eravamo sotto e vicino i missili. La cosa particolare – rispondendo alla tua domanda – è che i nostri ragazzi comunicavano su Facebook scrivendo dai rispettivi rifugi. Ed esprimevano i propri valori di umanità e di condanna alla guerra. Sanno distinguere benissimo tra terrorismo e arabi, tra guerra e realtà.

Credi che potrà essere proprio l’arte a liberare i popoli dal giogo di violenza strutturale e a ripristinare il riconoscimento della reciproca umanità?
Le sinergie nate attraverso la cultura e l’arte uniscono le persone, che non si sentono minacciate se le si dà l’occasione di far uscire ciò che hanno dentro. Non è affatto facile. Ma la sfida – e questo è il mio lavoro – è nel mettere insieme persone diverse e permettere loro di visualizzare il positivo nell’altra persona. A quel punto il prossimo non è più il nemico, il disabile, il diverso: ma è una luce. E, credimi, due luci che si incontrano producono qualcosa di incredibile.

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Valerio Evangelista


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