ROMA – “C’è una collina sulla quale si dice che Caino abbia ucciso Abele e in cui, al momento del delitto, la terra si aprì in una voragine che si chiuderà solo quando la pace scenderà nuovamente sulla città…”. Così si apre la performance di David Ambrose nella serata conclusiva del Festival di Storytelling di Roma, il 23 giugno scorso. La collina è in realtà il monte Qasiun, vetta che domina Damasco, una delle più antiche città del mondo: da qui le parole di David cominciano il loro viaggio alla scoperta della Siria, portando per mano un pubblico stregato dalla sua sapiente presenza scenica.
David Ambrose, scrittore, attore e storyteller gallese, ha deciso di intrecciare i ricordi del suo viaggio in Siria a quelli di Paola Balbi, la direttrice artistica del Festival e fondatrice della compagnia “Raccontami una storia”. E’ lei, che con lui condivide l’esperienza del viaggio in Siria, ad affiancarlo sulla scena per la traduzione in italiano del testo. I ricordi incorniciano così la narrazione di un tradizionale racconto siriano per abbracciare poi la conclusione con una storia su una guerra scatenata dalla caduta di una goccia di miele.
Prima della sua performance nell’ambito del Festival romano ambientato nella suggestiva cornice del Parco dell’Appia Antica, David Ambrose ci ha raccontato qualcosa sullo spettacolo e sul suo lavoro. In Siria l’arte del cantastorie, l’ Hakawati (Hikaya=storia), ha profonde ed antiche radici ed è generalmente incentrata su lunghi racconti epici con al centro le peripezie di un eroe in guerra. David ne ha un esperienza personale ed omaggia infatti ‘l’ultimo storyteller di Damasco’: “In quella città c’è un caffè speciale, dove puoi sederti a bere the alla menta e fumare la shisha, in cui ho incontrato l’ultimo storyteller di Damasco”, rivela l’artista, “fa il suo spettacolo ogni giovedì, giorno prefestivo per i musulmani, seduto sulla sua altissima sedia, e in mano ha un libro e una spada e pronunciando il classico ‘c’era una volta’ comincia ad agitare la spada sul libro e a narrare. Mi ha rivelato che tutti gli altri storytellers hanno smesso perché il governo esercita un rigido controllo sulle storie che raccontano”.
Come nasce l’idea di questa performance dedicata alla Siria?
Nel 2007 ho attraversato la Siria in un mio lungo viaggio diretto in Israele per un festival di storytelling per la pace: ad ogni sosta spiegavamo alla gente dove eravamo diretti e perché e chiunque, ebrei, musulmani, o cristiani, tutti ci auguravano buon viaggio, contenti del nostro lavoro. Ora che in Siria la situazione è drammatica penso continuamente alla terra che ho attraversato e alle persone che ho incontrato. C’è un racconto tradizionale che è considerato generalmente di origine siriana e in ogni versione che ho rintracciato è ambientato a Damasco, “La sorella del taglialegna”: racconto questa storia non solo perché è ambientata in Siria ma anche perché parla di come la gente non riesca a rendersi conto di ciò che le accade intorno, non agendo per uscire da situazioni complicate e difficili, e di persone costrette a fuggire. La vera protagonista è una donna fortissima che ha affianco un uomo estremamente debole e avido , che si lascia irretire dalle illusioni, mentre tutto ciò che lei vuole assaporare è la libertà, lottando per questo.
Qual è il tuo bilancio di questi giorni di festival?
Si è creato un clima meraviglioso, i ragazzi di “Raccontami una storia” sono diventati la mia famiglia italiana, e io, come organizzatore del Festival Internazionale “Beyond the Borders”, in Galles, capisco bene come sia difficile destreggiarsi quando non ci sono finanziamenti. Quest’anno poi, prima del festival, abbiamo avuto anche la Conferenza degli storytellers europei, è stato un momento molto ricco, per pensare e parlare di storytelling con persone provenienti da paesi tanto diversi. Una delle cose più interessanti è l’emergere di differenti tipi di storytelling: paesi diversi, culture diverse hanno differenti stili e si può imparare da ciascuno di loro. Ma non solo nei festival, come storyteller io imparo costantemente dalle persone e da ciò che mi circonda, o almeno ci provo.
Come definiresti il tuo lavoro?
Da quando abbiamo l’abilità di parlare abbiamo cominciato a raccontare. Lo vedo nei workshop che organizzo, la gente adora raccontare storie, ognuno ha la propria storia da raccontare in modi diversi e momenti differenti e godiamo nell’ascoltare storie. Credo che il potere delle storie tradizionali è che ciascuno di noi può ritrovare , in qualche parte in esse, qualcosa di se stesso, magari anche qualcosa di cui prima non aveva piena comprensione. Racconto storie per questo e vedo che la gente ne è ancora affamata: lo storytelling è una forma di arte unica, non si tratta di leggere, perché se si leggesse si alzerebbe una barriera immediatamente fra te il tuo pubblico. Non conosco da prima le parole che utilizzerò esattamente e devo lavorare su una forte impressione fisica che non puoi ottenere mostrando semplicemente delle immagini. Con lo storytelling chiunque può strutturare l’immagine nella propria mente, è un cinema per la mente. Qualcuno lo chiama anche “cinema per i poveri”, perché è il primo, elementare modo di raccontare una storia, non ha bisogno di un edificio, di un proiettore, di uno schermo o di costumi e scenografi. C’è la storia, la nostra lingua, ed ecco l’arte. Non è facile darne una definizione chiara, ma è più semplice dire cosa non è, non è leggere, non è recitare. Riguarda la presenza ed il significato, deve avere uno scopo, un’idea forte: evocare comprensione, per ricordare alle persone che la magia può esistere.
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