Sfruttamento e permesso di soggiorno, il solito limbo all’italiana

 

di Monica Ranieri

“Non una battaglia di qualcuno, ma di chi pensa che sia una battaglia di civiltà di tutti”. Così l’on. Marco Miccoli, introduce il tema della conferenza con cui, insieme a Giovanna Cavallo, in rappresentanza di “Action  Diritti in Movimento”, si è voluto fare il punto sul quadro che l’applicazione del Dl 109/2012 ha delineato rispetto alla drammaticità dello sfruttamento lavorativo dei migranti privi di permesso di soggiorno. L’incontro ha rappresentato l’occasione per presentare alla stampa il testo di un’interrogazione parlamentare che, ponendosi quale punto di arrivo rispetto ad un lavoro di ricognizione sul territorio, auspica ad essere il primo atto formale per dare avvio ad un percorso di ripensamento della normativa vigente.

Il Dl 109/2012 viene infatti giudicato inefficace e inadempiente rispetto agli obiettivi della direttiva Ue 52/2009  che intendeva recepire e con la quale si prevede “nelle ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo” la possibilità di rilasciare il permesso di soggiorno “allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro”: in realtà, come spiega Cavallo, il decreto “non prevede un meccanismo di tutela per chi denuncia perché lascia ai procuratori l’onere o la responsabilità di concedere permessi di soggiorno, e non equipara il caporale a tutti i soggetti che contribuiscono allo sfruttamento”. L’interrogazione parlamentare rivolta al Ministro della Giustizia diventa quindi l’imprescindibile momento di valutazione critica del meccanismo legislativo, attraverso la conoscenza dei “dati a disposizione riguardanti le procedure attivate ai sensi dell’articolo 18 del testo Unico sull’immigrazione, del Dl 138/2011 e del Dl 109/2012 al fine di attestare una verifica costante di tutela dei migranti denuncianti” e del “numero di denunce e di interventi delle forze dell’ordine nonché di attivazione dei procedimenti giudiziari in merito agli episodi di sfruttamento dei lavoratori migranti su tutto il territorio nazionale”.

L’invito alle forze politiche e sociali, poi, è quello di lavorare insieme, in modo unitario e trasversale,  per unificare le istanze di chi lavora nel settore a vario titolo, promuovendo il confronto di esperienze e proposte che però sia basato su un percorso partecipato di indagine concreta sul territorio mirata a far emergere le reali contraddizioni e anomalie provocate dalla legge.

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Il ritardo e la parzialità con cui l’Italia ha recepito la direttiva Ue, come sottolinea nel suo intervento l’avv. Alessandro Ferrara, dipendono dalla volontà di concepire la materia esclusivamente attraverso la lente dell’ordine pubblico e della sicurezza nazionale. Ciò ha determinato la manipolazione, se non l’esclusione, di una serie di istituti previsti dalla normativa europea originaria, con l’obiettivo di combattere l’immigrazione clandestina e di pervenire all’allontanamento: ma non si arriva alle espulsioni “perché l’espulsione presupporrebbe un accordo  con il paese che dovrebbe collaborare al rimpatrio, e se questo non c’è il meccanismo si inceppa. Quello che ne risulta è un limbo giuridico per cui abbiamo persone che non hanno la possibilità di integrarsi, di sanare la loro posizione, che non hanno la possibilità per i meccanismi previsti dal trattato di Dublino di abbandonare lo stato e di presentare domanda in altri paesi, e diventano oggetto di uno sfruttamento. A questo si poteva porre rimedio con la direttiva 52/2009 che prevedeva una serie di misure di carattere sanzionatorio a carico del datore di lavoro, ma anche la possibilità di un rilascio di un permesso di soggiorno di natura temporanea accanto ad un percorso di integrazione che includeva istituti di assistenza, di carattere economico ma anche psicologico.

C’è poi un equivoco di fondo: anche se queste persone tecnicamente non rientrano nella nozione di rifugiato politico ai sensi della Convenzione di Ginevra comunque sono rifugiati di fatto, vengono via da situazioni di assurda violazione dei diritti umani fondamentali, e l’unica possibilità che avevano di giungere qui era l’utilizzazione della domanda di asilo. L’effetto di questo approccio trentennale che emerge sin dalla legge Martelli, in base al quale si chiudono tutte le possibilità che il migrante ha di venire in Italia, è che inevitabilmente si ha un intasamento delle domande di protezione internazionale”.  L’anomalia legislativa viene messa in luce anche da Salvatore Fachile, che rileva come il Dl 109 non sia scaturito da una volontà politica, ma forzatamente a seguito di una procedura di infrazione contro l’Italia per il mancato recepimento della direttiva europea, che prevedeva sia l’istituzione del reato di sfruttamento agevolandone l’applicazione, sostenendo chi subisce violazioni significative in merito alla paga e alla sicurezza attraverso la garanzia del rilascio del permesso di soggiorno, sia l’obbligo per lo Stato di informare il lavoratore di questa possibilità. Quindi un sistema organico di contrasto al lavoro irregolare delle persone straniere senza permesso di soggiorno che però il decreto accoglie in minima parte, vanificando il meccanismo del permesso di soggiorno, e ignorando l’obbligo di informazione.

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Il silenzio dello Stato non si limita a lasciare soli i migranti nel loro “limbo giuridico” a subire lo sfruttamento. Pietro Soldini (Cgil) denuncia infatti la assoluta mancanza di pubblicità dei dati sul fenomeno dell’immigrazione e delle risorse (mancano dati che rendano conto delle risorse pagate dagli immigrati, per la regolarizzazione e per i rinnovi del permesso di soggiorno, ad esempio) per poi rimarcare la totale assenza dall’agenda politica di una progetto di riforma in materia. Soldini definisce la disposizione legislativa doppiamente subdola, in quanto si è insistito sul provvedimento penale “salvo poi accorgersi che in quel modo si poteva rischiare di far incriminare le famiglie italiane responsabili dello sfruttamento e si è creato un ibrido che ha bloccato il meccanismo della 109. L’accezione di particolare sfruttamento mette la magistratura nella condizione di dover discernere fra uno sfruttamento compatibile ed uno sfruttamento non tollerabile, mentre il ruolo attivo delle organizzazioni sindacali e delle associazioni, previsto dalla 52, viene cancellato dalla 109. Il soggetto sfruttato è in una condizione di assoluta debolezza e non è in grado di assumere la posizione di parte civile, ha la necessità di tutelarsi attraverso organizzazioni di rappresentanza individuale e collettiva,  per cui la denuncia potrebbe anche non essere in capo al soggetto stesso, ma alle associazioni”.

Il problema dello sfruttamento dei migranti non è però vincolato solo alla garanzia o meno del permesso di soggiorno. Berardino Guarino, direttore dei progetti Centro Astalli, sottolinea la necessità di considerare globalmente il contesto, che prevede anche lo sfruttamento di persone che godono effettivamente di una protezione internazionale, e quindi di allargare la questione al problema più ampio di “dare dignità al lavoro in questo paese”. Alle sue parole fanno eco, vigorosamente, quelle di Daouda Sanogo, che è arrivato a Roma da Rosarno ed oggi è attivista per Action e fa notare che “nell’agricoltura è sempre la stessa cosa” perché anche chi è provvisto di regolari documenti non riesce a combattere il sistema dello sfruttamento. Non si tratta però solo della mancanza di una normativa adeguata, e dell’assenza di controlli (che non si è mancato di evidenziare). Il problema andrebbe considerato anche unitamente alle dinamiche di natura economica che regolano le politiche agricole sul territorio. Se da un lato Stefano Galieni (responsabile nazionale immigrazione per Rifondazione Comunista) pone l’accento sulle istanze dei proprietari agricoli del meridione che giustificano le proprie inadempienze rispetto ai lavoratori con uno spiazzante “la grande distribuzione paga i pomodori a 90 euro a tonnellata e noi non ce la facciamo neanche a pagare i costi di produzione”, dall’altro Antonello Mangano invita a ridimensionare il peso del piccolo produttore, puntando piuttosto l’attenzione sui veri invisibili della catena di produzione: “la catena dello sfruttamento parte dai campi, ma finisce nei supermercati e i veri invisibili sono quelle persone che si arricchiscono sfruttando, che nessuno nomina mai, i commercianti che poi vendono a gruppi come Nestlè, Coop, Esselunga, tutta una serie di soggetti che rimangono poi ancora più invisibili. Il problema del lavoro migrante, poi, non è separato in questo dal lavoro italiano: è una forma più grave dello sfruttamento che ci colpisce tutti”.


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