Tre anni di guerra in Siria: a Roma sfilano in migliaia per rompere il silenzio

 

Foto di Monica Ranieri

di Monica Ranieri

Silenzio. Quel silenzio che si fa profondo, denso, che non placa la rabbia, la frustrazione, il dolore ma che accoglie commosso il ricordo delle vittime della guerra in Siria e della tragedia umanitaria che dilania da ormai tre anni il paese ed il suo popolo. Sessanta secondi sono quelli che si concedono in Piazza Santi Apostoli le circa 2000 persone che hanno seguito il corteo organizzato in occasione del terzo anniversario della rivoluzione: un minuto che non può umanamente contenere il ricordo dei 150.000 morti (secondo alcune stime forse anche 200.000) dei 2 milioni e mezzo di rifugiati (il 40% della popolazione siriana è stato costretto ad abbandonare il proprio paese), delle centinaia di migliaia di persone che sopravvivono in stato di assedio, rischiando la morte per i bombardamenti o per fame. Ma è un minuto necessario, in cui il silenzio si ammanta di un valore inestimabile, di amore e rispetto per la vita.

Al di fuori di quel momento, non è più lecito accettarlo, il silenzio. Ed infatti la piazza lo infrange, con le sue bandiere, i suoi cori, i discorsi lucidi e appassionati di chi da anni lavora a fianco del popolo siriano per sostenerlo nella rivendicazione della sua libertà e nell’affermazione della sua dignità, e le canzoni, le stesse canzoni che hanno accompagnato la rivoluzione siriana fin dai suoi primi otto mesi di manifestazioni pacifiche. Con i suoi bambini, che in testa al corteo, riecheggiano lo slogan che fu dei 14 bambini di Dara’a, che il 15 marzo 2011 vennero arrestati per aver scritto su un muro “il popolo vuole la caduta del regime”. Bambini che, come ricorda la giornalista siriana Asmae Dachan “hanno ascoltato quelle parole dalle loro mamme, dalle loro famiglie, da quelle stesse mamme che oggi nelle città bombardate, nelle città assediate, nelle tendopoli, stanno continuando con grande coraggio a trasmettere loro amore, a procurare loro del cibo anche quando il cibo manca, a consolarli anche quando la morte e la desolazione dilaga”.

E infatti la resistenza di fronte alla repressione attuata dal regime di Bashar al Assad non si arresta, e mentre l’alba del quarto anno appare ancora macchiata del sangue di migliaia di persone, la voce del popolo siriano ancora non è soffocata, ma sostenuta e accompagnata da numerose manifestazioni in diverse città del mondo che invitano la comunità internazionale ad uscire dal suo imbarazzante e colpevole silenzio. Così a Roma, dove il Comitato promotore è riuscito a far convergere in Piazza della Repubblica una nutrita coalizione di associazioni di volontariato, comitati di solidarietà provenienti da diverse regioni (un ruolo significativo è stato svolto dal Comitato di Solidarietà romano), associazioni di siriani in Italia e  realtà del pacifismo e della sinistra di base come La Comune Umanista o il Partito Comunista dei Lavoratori.

Insieme per chiedere la fine del regime di Assad e dell’assedio delle città, la liberazione dei prigionieri, protezione umanitaria ed accoglienza per i profughi siriani e tutti i migranti, manifestare contro le bande terroristiche che colpiscono la popolazione ed i rivoluzionari, ed esprimere solidarietà ai profughi palestinesi in Siria. Uno sforzo che ha dato vita ad un risultato encomiabile e che ha dovuto in parte farsi strada attraverso le reticenze, ascrivibili a varie e dubbie motivazioni, che contraddistinguono la posizione di larghi settori dell’opinione pubblica, della politica (in particolare delle formazioni di estrema destra filo-Assad) e di alcuni settori dello stesso associazionismo.

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Mentre la Rete per la Pace, che riunisce le organizzazioni pacifiste italiane, e alcuni scrittori, hanno rivolto appelli alla mobilitazione, i maggiori schieramenti politici restano inspiegabilmente indifferenti e assenti, e realtà che si ispirano al pensiero politico di sinistra e che sono normalmente attente ai movimenti di liberazione e resistenza a livello globale rimangono arroccate su posizioni antagoniste. Per quanto l’intreccio di interessi e forze in campo possa ostacolare la comprensione della realtà, ed il gioco delle parti che si gioca a livello geopolitico possa confondere (ma non corrompere, si spera), non si può continuare ad ignorare che all’origine e alla base di tutto c’era e c’è ancora la volontà di un popolo di liberarsi dalla tirannia di un regime decennale, che da Hafez al-Hasad in poi ha costruito un complesso sistema di potere e di controllo basato su una fitta rete clientelare e sulla concentrazione del potere economico nelle mani di un’elite imprenditoriale complice e connivente, come ricorda Fouad Rouehia, giornalista italo-siriano: “Vivere in Siria è qualcosa di difficile da descrivere per chi ha sempre vissuto in Europa o nel cosiddetto mondo libero. Lo stato per quanto non sia al servizio del cittadino quanto dovrebbe non è una minaccia così grande, noi, invece, siamo sudditi. Lo siamo stati fino a tre anni fa, fino a quando qualcuno si è alzato in piedi e ha detto “ora basta”. Il popolo siriano ha detto questo “noi vogliamo poter scegliere”, siamo un popolo solo, vogliamo l’autodeterminazione, la dignità, costruire la nostra democrazia, non abbiamo chiamato gli americani ad insegnarci la democrazia, non abbiamo chiesto ai sauditi di sostenerci, non abbiamo chiesto l’aiuto di nessuno, avremmo magari voluto che dall’altra parte nessuno aiutasse il regime. Perché quando si parla di intervento esterno è impossibile dimenticare le armi che arrivano ogni giorno dall’Iran, dalla Russia, le decine di migliaia di uomini che combattono con il regime di Assad. Il settarismo è frutto di una politica scientificamente studiata dal regime così come l’integralismo islamico. Quando nel 2011 Assad ha emanato i suoi provvedimenti di benevolenza ha tirato fuori dalle prigioni non gli attivisti, ma i terroristi che prima usava in Iraq, in Libano e ogni volta che ha avuto interesse e destabilizzare la zona e avere un maggior ruolo geopolitico. Allora basta con la geopolitica, con i pensieri di complottismo basati su supposizioni o su dati che non abbiamo, cominciamo a parlare della realtà: la realtà è che c’è un popolo che chiede la democrazia e l’autodeterminazione, la realtà è che c’è un criminale che uccide questo popolo. Dobbiamo fare qualcosa per dire basta, e non possiamo stare in silenzio”.

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Foto di Monica Ranieri

E il silenzio ha cominciato ad essere riempito anche per le strade di Roma ieri, con forti e chiare parole che il corteo ha scandito per ore, cantate, urlate, impresse su striscioni e cartelli: “libertà, autodeterminazione, dignità”. Parole che non si prestano ad essere ancora oscurate e messe da parte a favore di espressioni che invece veicolano ambiguamente concetti utili a farci rimuovere dalla coscienza l’emergenza che la crisi siriana rappresenta, chinando il capo di fronte all’efficacia della propaganda di regime. Lo stesso Fouad ricorda che “durante i primi otto mesi il popolo scendeva a mani nude ad affrontare i proiettili della repressione di Assad. Ci dicevano che era un complotto, un’aggressione imperialista alla Siria orchestrata dagli Stati Uniti. Non c’erano ancora gli integralisti islamici, i salafiti, al-Qaeda, ma si diceva “guardate che dietro c’è al-Qaeda”. Poi è arrivata davvero, portata dal regime in buona parte e ora ci dicono “guardate c’è al –Qaeda, quindi è meglio il regime di Assad che è laico”. Ma ha poco di laico un regime che trasforma la famiglia reale in icone da raffigurare su ogni muro, un regime che insegna la propria dottrina a scuola come faceva il fascismo qui”.

E se persino il concetto di laicità non appare chiaro a chi ancora sostiene la possibilità di una continuità del potere di Assad, la mistificazione investe la stessa concezione che si ha della religione musulmana o del terrorismo o di ciò che realmente accade in Siria, come sostiene Shadi, attivista italo-siriano di Informare per davvero: “In Siria non c’è una guerra civile in senso stretto, è in atto la distruzione totale di un popolo, un popolo che da millenni accoglie altra gente, un popolo che fino a tre anni fa accoglieva il numero massimo di profughi di tutto il mondo e oggi è diventato il popolo profugo numero uno. E’ una vergogna perché quando arrivano qui in Italia dopo un viaggio della speranza si trovano a camminare per le strade senza un aiuto da parte delle istituzioni”. L’incapacità dell’Unione Europea in particolare di predisporre strumenti legislativi e operativi adeguati per far fronte alla situazione è stata tra l’altro più volte sottolineata durante il corteo, ma le stesse politiche di contenimento, respingimento, criminalizzazione e sfruttamento, sono state oggetto degli interventi dell’Associazione “3 Febbraio”, aderente alla manifestazione, che ha consentito di riunire alla voce del popolo siriano quelle dei popoli della cosiddetta Emergenza Nord Africa e lavoratori del Bangladesh che protestano per le loro inique condizioni di lavoro.

Foaud Rouehia ha ricordato la Dichiarazione di Damasco del 2005 in cui le opposizioni denunciavano già il totalitarismo del regime, testimonianza di un pensiero politico alternativo elaborato dagli intellettuali siriani. Cercare di comprendere ciò che sta accadendo in Siria, ascoltare le storie di chi ha vissuto sulla propria pelle il regime prima del 2011 e che continua ancora a subire è un dovere. Ma che questo popolo debba essere costretto in qualche modo a “giustificarsi” o dare ancora prove e testimonianze per convincerci della validità delle ragioni che muovono la rivoluzione, per poter reclamare il proprio diritto all’autodeterminazione agli occhi del mondo, questa rappresenta l’ennesima ingiustizia.

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Yassine El-HajjSaleh, marito dell’ attivista Samira Al-Khalil, rapita a Douma insieme a Razan Zaitouneh, scriveva su “L’Express”, il 14 marzo a proposito del clima intellettuale e culturale che in Siria sostiene (giustificando agli occhi di parte della comunità internazionale) la macchina della morte del regime. Secondo l’attivista di tratta di un clima legato ad una visione “culturalista” che riduce le società a “culture” e queste a ” mentalità ” permanente e in base al quale il razzismo lungi dall’essere un’ “ideologia di identità” è connesso con il mantenimento di privilegi sociali più che con le differenze culturali: “la religione, in particolare l’Islam nella sua versione sunnita sarebbe, nella nostra società, l’espressione privilegiata di questa “mentalità”.. Pertanto , il regime siriano si troverebbe ad affrontare una società islamica siriana senza tempo e non può quindi essere ritenuto responsabile per ciò che accade. Sarebbe anche la vittima della struttura mentale dei suoi sudditi e perfino un’avanguardia “liberale” , “laica” e “modernista” che dobbiamo difendere contro i suoi nemici in questa società “oscurantista” , “settaria” e “tradizionale” . Non solo è sbagliato , è in realtà una struttura politica sviluppata nello stesso ambiente che ha prodotto questa industria della morte”. Una visione che Yassine individua nel regime siriano così come nella coscienza “civilizzatrice” di molta destra occidentale, e nelle forze di ispirazione marxista-leninista, concludendo con un appello agli intellettuali di tutto il mondo ad impegnarsi con le loro forze per combattere questo sistema di pensiero (quello di Assad come altri simili) e a lavorare per ripristinare le cornici simboliche, culturali e giuridiche che proteggono la vita dei più umili e deboli. Una riflessione interessante sulla quale soffermarsi all’indomani dell’anniversario della rivoluzione e dopo la rottura del silenzio che la manifestazione di Roma ha significato e che non può più tollerare esitazioni.


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