“La Russia non è più un paese per internet”

di Alessandro Iacopini

Con l’approvazione della nuova legge antiterrorismo, alla lista dei paesi ‘nemici di Internet’ sarà necessario aggiungere la Russia di Vladimir Putin. Il decreto – proposto nel dicembre scorso dopo il doppio attentato di Volgograd – prevede una serie di restrizioni per le società informatiche straniere che operano nel Paese e una forte limitazione della libertà di espressione on line.

LA STRETTA SUL WEB – In primo luogo il nuovo provvedimento colpisce direttamente i colossi dell’informatica occidentali – come Google, Microsoft e Facebook – per il quale è fatto obbligo di possedere in territorio russo i server su cui operano. In questo modo le società sono da un lato obbligate a conservare i dati personali degli utenti per almeno sei mesi e dall’altro a renderli immediatamente disponibili ai servizi di sicurezza russi in caso di richiesta. L’obbligo, in realtà, è solo teorico: le aziende occidentali, non vincolate dalla giurisdizione russa e in assenza di una chiara legislazione internazionale in materia di internet, potrebbero rifiutarsi di installare i nuovi server, costringendo così il Cremlino a bloccare l’accesso degli utenti russi a servizi come Gmail, Skype o Facebook. Oltre al fastidio per milioni di utenti, in caso di chiusura dei servizi on line a pagarne le spese saranno soprattutto gli oppositori di Putin, che grazie alla rete riescono a mantenersi in contatto. Ma non solo, perché uno dei nodi chiave del nuovo decreto della Duma è l’equiparazione tra mass media ufficiali e blog con più di 3mila visite al giorno. In questo modo, i siti d’informazioni più seguiti saranno considerati “organi di informazione ufficiale” e i blogger saranno costretti sia ad uscire dall’anonimato, firmando gli articoli con il loro nome reale, e sia ad iscriversi ad un albo creato ad hoc per gli autori. Un cambiamento formale ma anche sostanziale, che molto probabilmente contribuirà a stemperare le critiche più accese nei confronti dell’establishment per paura di sanzioni e ritorsioni. Non a caso, infine, la nuova legge prevede l’inasprimento fino a 300mila rubli, circa 6mila euro, delle multe per chi commette il reato di violazione della privacy e diffamazione.

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IL CASO NAVALNY – Anche se giudicato con le vecchie disposizioni, il primo a fare idealmente le spese del cambio di rotta del Cremlino in tema di internet è stato l’attivista e politico Aleksei Navalny, condannato recentemente dal tribunale di Mosca per diffamazione dopo aver dato del “tossicodipendente” in un suo articolo ad un politico moscovita. Navalny, già candidato a sindaco di Mosca alle elezioni del settembre scorso, dove ha raccolto il 27% dei consensi, è uno degli storici avversari di Putin: due anni fa sul suo sito mise in luce gli interessi personali del presidente russo nelle società energetiche, mentre a febbraio di quest’anno è stato condannato a 5 anni con la condizionale per essersi intascato illecitamente – ma secondo molti siti russi sul giudizio del tribunale pesa l’ombra di Putin – del denaro di una società pubblica. In ogni caso, con la condanna della settimana scorsa i magistrati di Mosca hanno imposto a Navalny la chiusura del suo blog per un mese e il pagamento di una multa da 300mila rubli. Un altro piccolo mattone nel muro della censura della libertà di espressione on line in Russia, che si affianca all’ormai definitiva di uscita scena di Pavel Durov, il programmatore 29enne fondatore e Amministratore delegato di VKontakte (VK), il social network russo con più di 50 milioni di utenti.

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LA GUERRA DI PAVEL DUROV – Nell’ultimo mese la vicenda di Pavel Durov ha assunto tinte paradossali: il primo aprile il 29enne aveva annunciato le sue dimissioni da VK con un post sul social network, poi, il giorno dopo, l’improvviso ripensamento e la decisione di “rimanere alla guida della società”. Lunedì scorso, infine, l’epilogo: Durov non ha mai formalmente ritirato le dimissioni e così i suoi soci di VK hanno ratificato a sua insaputa la decisione iniziale, dando al giovane programmatore il ben servito. Ma era almeno un anno che lo Zuckerberg russo, come è stato ribattezzato dai media occidentali, era in completo disaccordo con i nuovi soci della società. Dall’inizio del 2013 più del 70% delle quote di VK sono state acquisite prima dalla United Capital Partners, fondo d’investimento di Ilya Sherbovich, uomo molto vicino a Putin, e poi dal ricchissimo Alisher Usmanov, il magnate russo-uzbeko proprietario della compagnia telefonica MegaFon e della squadra di calcio londinese dell’Arsenal, anch’egli vicino al presidente russo. Messo in minoranza dai suoi stessi soci e in aperto contrasto con anche il servizio segreto russo (FSB), che a quanto riportano alcuni siti russi ha fatto pressione su Durov per visualizzare i profili dei dissidenti ucraini all’inizio della crisi di Crimea, il giovane programmatore ha infine mollato la presa, accettando suo malgrado le dimissioni. In un’intervista a Repubblica, Durov ha affermato che la Russia ‘non è più un paese per Internet’.

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In ogni modo, forte dei 400 milioni di dollari incassati dalla cessione delle sue quote in VK, Durov promette battaglia. “Sto per lanciare un nuovo social network, stavolta mobile” – ha detto Pavel da Berlino, dove ha raggiunto il fratello Nikolai, programmatore anch’egli e fondatore del servizio di messaggistica istantanea Telegram. Ma per chi è rimasto in Russia non c’è molto per essere ottimisti, basti pensare che perfino il miliardario fondatore del motore di ricerca Yandex Arkady Volozh ha dovuto confessare che “siamo di fronte ad una durissima repressione”. I “criceti di internet”, il nomignolo che Putin ha affibbiato suoi oppositori on line, questa volta rischiano veramente di trovarsi in gabbia.


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