di Alessandro Pagano Dritto
Twitter: @paganodritto
Tra la seconda metà di agosto e la prima metà di settembre lo scenario libico ha subito dei mutamenti e delle evoluzioni delle quali è necessario rendere conto perché il lettore interessato non perda il contatto con la realtà delle cose sul terreno. Anzi, si può dire che in questo pur breve lasso di tempo la scena politica libica abbia subito un’improvvisa evoluzione che ha proiettato la crisi del paese nordafricano in una dimensione più internazionale.
I bombardamenti di Tripoli e la conquista della capitale: rinasce il parlamento islamista.
Innanzi tutto bisogna registrare la conclusione di uno degli scenari di guerra precedentemente illustrati: quello della capitale Tripoli, dove il
23 agosto, dopo cinque settimane di scontri, le milizie islamiste dell’operazione Libya Dawn conquistavano finalmente l’aeroporto internazionale e costringevano al ritiro la controparte armata e antiislamista di Zintan. Secondo quanto le stesse strutture rappresentative di Zintan denunciavano al quotidiano Libya Herald – che il lettore attento non tarderà a intuire schierato sulle stesse posizioni di principio – presa la capitale gli avversari operavano azioni arbitrarie e illegali nei confronti di quanti ritenessero loro oppositori.
Il 23 agosto, però, era lo stesso giorno del secondo bombardamento aereo su Tripoli eseguito ai danni degli uomini di Misurata – buona parte dei miliziani della Libya Dawn – e dei loro soci. Il primo era avvenuto appena pochi giorni prima, il 18, ma di nessuno dei due era chiara la paternità. Non lo era e non lo è nemmeno adesso a distanza di quasi un mese: rimane, come accusa più dettagliata, quella rivolta da alcuni anonimi ufficiali dell’esercito statunitense per mezzo della penna di due giornalisti, David Kirkpatrick e Erich Schmitt del New York Times. Nella serata del 25 agosto il quotidiano titolava infatti, secondo il titolo dell’indirizzo web originale: «Egitto e Emirati Arabi Uniti avrebbero condotto in segreto gli attacchi aerei in Libia». Ma dopo la smentita dei due paesi interessati ad oggi gli stessi Stati Uniti, pur non senza assumere un atteggiamento incerto e ambiguo, hanno smentito la paternità di queste accuse.
Non che indiscrezioni di questo tipo non circolassero già prima dell’articolo, perché era chiaro che i bombardamenti dovessro essere stati eseguiti da una qualche potenza straniera ostile agli islamisti e la stessa Operation Dignity del Generale Khalifa Hafter, impegnata a combattere sul fronte orientale Ansar al Sharia e i suoi alleati, non era ritenuta abbastanza potente da compiere un’impresa simile su quello occidentale. L’articolo pareva però confermare e rimettere a posto, con una qualche ufficialità, i pezzi del puzzle: l’Egitto aveva prestato le basi e il supporto logistico, gli aerei che avevano bombardato Tripoli provenivano invece dagli Emirati Arabi Uniti (EAU). Gli islamisti ebbero gioco facile nell’accusare il parlamento di Tobruk e il governo di Abdallah al Thanni di silente complicità con il Generale antiislamista che subito si era preso una parte di responsabilità: di mezzo c’era la sovranità della nazione e, dal punto di vista islamista e misuratino, una rivoluzione da difendere coi denti da chi invece – Hafter e milizie di Zintan – andava accorpando tra i suoi ranghi ex gheddafiani pronti a imbracciare le armi a fianco degli ex ribelli antiislamisti.
Pochissimo tempo fa, parlando della nuova situazione di Tripoli e invitando tutte le parti a rispettare il cessate il fuoco, il nuovo capo della
United Nations Supporting Mission in Libya (UNSMIL) Bernardino Leon ha usato le parole «relativa calma». Dal 23 agosto, infatti, ad eccezione di qualche focolaio ancora acceso nel territorio dei Wershefana a nord ovest della città, la maggior parte della capitale sta vivendo un momento di relativa tranquillità, sufficiente a permettere agli islamisti usciti sconfitti dalle elezioni dello scorso 25 giugno di riorganizzarsi politicamente. È risorto il vecchio parlamento, il General National Council, (Consiglio Nazionale Generale, GNC) e un nuovo Primo Ministro, Omar al Hassi, il 6 settembre ha giurato con i suoi ministri formando un nuovo esecutivo.
Per dimostrare la propria volontà di darsi delle istituzioni regolari e democratiche e forse anche per tranquillizzare l’opinione occidentale sempre allarmata dai movimenti dei gruppi islamisti, la Libya Dawn non coglieva la richiesta di un fronte unitario contro gli antiislamisti lanciata a Est da Ansar al Sharia, ma anzi invitava Bernardino Leon a visitare la capitale. Cosa che lo spagnolo, succeduto lo scorso primo settembre al libanese Tarek Mitri, faceva subito ma senza intavolare discussioni con i rappresentanti dello stesso GNC. Il segnale è chiaro: le Nazioni Unite riconoscono un solo parlamento e referente legittimo, la House of Rapresentatives (Casa dei Rappresentanti, HOR) uscita dalle elezioni di giugno e al momento insediata a Tobruk sotto la difesa di fatto delle armate del Generale Khalifa Hafter. E di questo segnale, riporta la Reuters, il GNC si è lamentato.
L’esito di Tripoli e i riflessi su Tobruk.
La presa di Tripoli scuoteva l’esecutivo internazionalmente riconosciuto del Premier al Thanni, il quale il 29 agosto dava le dimissioni e per qualche giorno demandava alla HOR la guida del Paese. Ma veniva subito restituito dell’incarico e con leggerissime varianti l’1 settembre si ricostituiva mettendo nero su bianco che gli edifici governativi di Tripoli se li sarebbe ripresi.
Tobruk e Al Baida, le capitali attuali della politica libica riconosciuta all’estero, riprendevano quindi a tessere le relazioni internazionali che mai come oggi sembrano necessarie per un governo con una scarsissima presenza sul territorio, essendo ovunque la sicurezza in mano a gruppi più o meno autonomi di milizie: secondo un articolo del Libya Herald utile a capire questo aspetto della vicenda, a Sirte è stata una pattuglia di Ansar al Sharia a scovare alcuni sospetti falsari e a consegnarli alle autorità civili locali, mentre alla fine di agosto un uomo accusato di omicidio è stato processato da un gruppo islamista di Derna e poi ucciso in pubblico nello stadio locale.
Si definiscono le relazioni internazionali: Sudan, Emirati Arabi Uniti, Egitto.
Partecipando a una puntata del programma AJStream della rete Al Jazeera, l’analista italiana Claudia Gazzini ha voluto precisare una cosa sul rischio di guerra per procura in Libia. Una guerra per procura richiederebbe che degli attori esterni finanziassero a proprio vantaggio delle milizie interne, mentre per adesso nello scenario libico sembra valere più il processo contrario: sarebbero gli attori interni, piuttosto, a essere interessati a trascinare a sé quelli esterni. Benché – bisogna rimarcarlo – i dettagli di eventuali operazioni di questo tipo siano per il momento destinati a rimanere pressoché sconosciuti al pubblico, qualcosa di vero in questa affermazione parrebbe esserci. Le relazioni internazionali si stanno infatti definendo con un campo di attori in odore di filoislamismo – laddove per «islamismo» si intende Libya Dawn e non certo Ansar al Sharia – tra i quali bisogna annoverare almeno Turchia e Sudan, con i quali Tobruk ha messo in discussione i rapporti. Il caso più eclatante è forse quello del vicino Sudan, accusato di aver tentato di inviare un cargo di armi all’aeroporto tripolino di Mitiga a evidente vantaggio dei miliziani islamisti. Secondo Khartum, invece, il carico fermato all’aeroporto di Kufra era diretto alle guardie di frontiera che, in accordo col governo ufficiale monitorano insieme, libiche e sudanesi, l’area.
Gli Stati con cui invece Tobruk sembra stringere sempre più i rapporti sono proprio i due accusati dei raids aerei di agosto: l’Egitto e gli EAU,
la cui politica antiislamista è per altro nota. La meta dell’ultima visita di tutta la prima linea politica antiislamista libica – dal PM al Thanni al presidente della HOR Ageela Issa al Capo di Stato Maggiore Colonnello Abdul Razzaq Nazuri – è stata proprio Abu Dhabi, dove in conferenza stampa il Primo Ministro ha cercato di dissipare ogni ombra sui rapporti tra il suo Paese e gli Emirati: secondo il giornale emiro The National, infatti, Thanni a negato che i bombardamenti siano stati condotti da Egitto e EAU come diffuso dal New York Times e, sulla faccenda di alcuni cittadini libici imprigionati negli EAU, ha aggiunto che la Libia ha piena fiducia nella giustizia di Abu Dhabi e ne accetterà il verdetto, di innocenza o di colpevolezza che sia.
Dal canto suo la stampa nazionale locale prospetta la necessità di impedire che la Libia diventi «uno Stato fallito» e ricordando il caso afghano e quello somalo avanza la questione del terrorismo islamista: «Tutto questo spiega perché la comunità internazionale ha il suo chiaro interesse affinché la Libia emerga dall’incubo del dopo Gheddafi esprimendo il suo considerevole potenziale», si legge ancora sul The National. Che aggiunge: «L’Egitto in particolare ha molto in gioco nell’impedire che la Libia destabilizzi l’intero Nord Africa».
Ed è infatti proprio l’Egitto, anche per ovvi motivi geografici, a sembrare il primo referente di Tobruk e non solo. In Egitto o con l’Egitto si sono tenuti infatti una serie di incontri che sembrano aver pianificato la via della risoluzione della crisi libica. Il più importante di questi è avvenuto al Cairo il 25 agosto alla presenza del Ministro degli Esteri libico Mohammed Abdelaziz e dei Ministri degli Stati confinanti con la Libia: Egitto, ovviamente, Tunisia, Algeria, Niger, Sudan e Ciad. Rifiutata per il momento l’opzione militare, gli Stati si sono accordati per favorire il dialogo interno tra le fazioni in lotta e hanno rifiutato di appoggiare attivamente una delle parti: la via scelta, insomma, rimane quella diplomatica.
Secondo alcune indiscrezioni, però, ci sarebbero indizi ufficiosi di trattative sotterranee che prevedono più di qualche colloquio diplomatico. Citando come fonte un giornale in lingua araba, infatti, il Middle East Eye ha diffuso l’immagine di una richiesta di armi e munizioni inviata all’Egitto risalente al 12 agosto e questa richiesta sarebbe stata inoltrata da un ex ministro del governo Thanni. Il titolo del pezzo però potrebbe, secondo il parere di chi scrive, portare a dei fraintendimenti, in quanto una richiesta di invio senza alcuna testimonianza o notizia di un’avvenuta risposta – «[le mail divulgate] non includono alcuna risposta da parte dell’ufficiale egiziano» si legge – è un po’ poco per «suggerire» che l’Egitto abbia «da lungo tempo un ruolo nella crisi libica». Di certo, fosse confermata, la cosa testimonierebbe comunque della possibilità di canali ufficiosi disposti a contraddire la neutralità invocata nelle dichiarazioni ufficiali e potrebbe fare da contraltare all’invio di armi dal Sudan – anche quello tutto da verificare – agli islamisti di Tripoli.
Secondo quanto si legge sul libanese Daily Star un’anonima fonte di Ansar Bayt al Maqdis, formazione islamista che opera nel Sinai, ha confermato contatti avvenuti tra il suo gruppo e i miliziani di Ansar al Sharia che combattono nell’Est della Libia, così come tra il suo gruppo e l’Islamic State oggi al centro dell’agenda antiterroristica occidentale. L’Egitto ha quindi tutto l’interesse a monitorare da vicino la situazione libica e a impedire che il suo territorio non diventi zona di contatto tra gruppi considerati terroristi; in questo la porosità delle frontiere certo non aiuta, ma per il momento la soluzione militare non sarebbe presa in considerazione da nessuno degli Stati che hanno partecipato al vertice del Cairo e la neutralità tra le parti in conflitto rimane comunque la linea ufficiale.
La posizione occidentale: Libia, una crisi regionale.
Stesso motto, quello della neutralità e della soluzione diplomatica, fatto proprio dagli Stati occidentali e da tutte le loro organizzazioni: l’Unione Europea così come, ingrandendo il quadro, le Nazioni Unite e la NATO.
Se una risposta forte – anche dopo l’articolo del New York Times e i comunicati ufficiali che nella stessa tarda serata del 25 agosto condannavano ogni «interferenza esterna unilaterale in Libia» – pare essere venuta dalle Nazioni Unite con la risoluzione 2174 del 27 agosto, la grande delusione per quanto riguarda la Libia è stato il vertice NATO di Newport, Galles, del 4-5 settembre. Non perché una soluzione militare alla questione fosse per forza auspicabile o scontata, ma perché di tutti gli argomenti politici trattati la Libia è stato probabilmente quello più confinato: basta guardare il comunicato riassuntivo del vertice per vedere come il sostantivo Libia compaia di fatto in due soli capitoli su 113 – il 38 e l’89 – a netto vantaggio di altri scenari come l’Ucraina e l’Iraq ritenuti forse più urgenti. Insomma, questo vertice non sarà certo ricordato per la questione libica.
Se non per l’Islamic State, – il piano contro il quale l’autore ha comunque definito altrove «nebuloso» e «ambiguo» – almeno per la Libia pare essersi realizzata con il vertice NATO la previsione avanzata pochi giorni prima dall’analista Carlo Jean, che così scriveva: «Anche per il Medio Oriente e l’Africa c’è poco da sperare. Il Summit concluderà che l’Alleanza, in quanto tale, non deve immischiarsi più di quel tanto. Si dirà anche che lo Stato Islamico non rappresenta una minaccia militare, nel senso proprio del termine, e che a quella terroristica devono pensarci i singoli Stati. Tutt’al più, si auspicherà che la Turchia blocchi sia l’afflusso di volontari che raggiungono l’ISIS sia il transito sul suo territorio del petrolio che il Califfato commercia». Le Nazioni Unite hanno invece rinforzato l’embargo di armi per la Libia e previsto sanzioni penali per chiunque perseveri nel contrasto armato e leda in qualche modo i civili.
L’Italia, tra i referenti principali.
In questa regionalizzazione degli interessi di politica internazionale, la stessa NATO ha affidato la questione libica ai Paesi del Dialogo
Mediterraneo, tra i quali una posizione di frontiera sembra averla l’Italia. La motivazione di questo speciale rapporto è un po’ storica e un po’ geografica, ma potrebbe anche essere accentuata dal doppio ruolo che l’Italia è chiamata a giocare in questa seconda metà del 2014: da luglio a dicembre l’Italia è infatti alla guida dell’Unione Europea e si ritrova con almeno una personalità importante nell’organico dell’esecutivo continentale: la sua Ministra degli Esteri, Federica Mogherini, è stata scelta per succedere all’inglese Catherine Ashton nel ruolo di Alto Rappresentante dell’Unione e quindi, semplificando un po’ le cose, come Ministra degli Esteri europea. Lo scorso 2 agosto era stato proprio il Primo Ministro italiano Matteo Renzi, in visita ufficiale al Cairo, a promettere pubblicamente la discussione della questione libica al vertice NATO di settembre e, anche se poi non ha ottenuto gran che, pare essere stata proprio l’Italia uno dei paesi più interessati a questa discussione.
Più che dalla Ministra degli Esteri, che pure ha citato la Libia in numerosi comunicati e ha incontrato a Roma la controparte egiziana in visita in vari paesi d’Europa, Sameh Shoukry, le dichiarazioni più interessanti sullo stato nordafricano sono arrivate a settembre dalla Ministra della Difesa Roberta Pinotti, che insieme a Mogherini e Renzi ha fatto parte dell’ambasciata italiana al vertice NATO in Galles. Due interventi si devono registrare sulla questione da parte della Ministra: uno in una riunione congiunta delle Commissioni di Difesa di Camera e Senato il 3 settembre e uno in apertura della riunione informale dei Ministri della Difesa europei tenutasi a Milano il 9 e il 10 settembre: qui più che nei documenti internazionali vanno ricercati forse i segni di una politica nei confronti della Libia e della sua crisi.
Il 3 settembre la Ministra Pinotti ha chiarito che, pur rigettando l’Italia qualsiasi ipotesi di intervento militare, la Libia potrebbe riservare, in caso di peggioramenti, «eventi imprevisti» ai quali il paese europeo deve saper comunque far fronte. Sulla natura di questi eventi la Ministra si è tenuta sul vago. Alle Commissioni di Camera e Senato Pinotti ha poi fatto il punto delle relazioni militari tra i due Paesi, chiarendo che l’Italia ha finora addestrato 1345 soldati libici: un battaglione di 254 elementi era pronto a formarsi dopo l’addestramento, ma la situazione sul terreno in Libia – si legge nel discorso – sembra non avere ancora permesso questo passaggio. L’audizione ha invece gettato un’ombra sul controllo delle frontiere – necessario per l’embargo previsto dalle Nazioni Unite – dichiarando l’impossibilità di operare dell’ente europeo creato ad hoc per questo scopo: l’European Union Border Assistance Mission in Libya (Missione di Assistenza dell’Unione Europea per le Frontiere, EUBAM). Anche in questo caso pare dunque che il controllo delle frontiere libiche sia demandato più che agli organismi internazionali alla cooperazione tra miliziani locali libici e eserciti dei paesi confinanti.
Il 9 settembre, invece, alla presenza delle controparti europee, la Ministra ha voluto ribadire la necessità di un intervento di mediazione politica tra le parti in conflitto, ma allo stesso tempo deprecare un eventuale moltiplicarsi delle iniziative singole e unilaterali a danno invece di un fronte più ampio e condiviso che deve fare riferimento all’iniziativa dell’UNSMIL e di Bernardino Leon; questi proprio nelle prime settimane di settembre ha ripreso a intavolare trattative con i vari attori sul campo. Pinotti ha inoltre espresso delle significative riserve sull’azione militare del Generale Khalifa Hafter e della sua Operation Dignity: a suo dire questa non ha infatti raggiunto l’obiettivo dichiarato, ma ha anzi portato Ansar al Sharia a proclamare un emirato islamico sulla città di Bengasi. Ad oggi la città è ancora teatro di combattimenti mirati soprattutto al controllo dell’aeroporto ancora in mano antiislamista, mentre Hafter ha minacciato una dura risposta [28] contro gli islamisti di Tripoli.
Conclusioni: un quadro d’insieme.
Gli eventi di agosto – e in particolare i bombardamenti del 18 e del 23, poi l’articolo del 25 – sembrano aver dato alla Libia una dimensione internazionale che però le varie coalizioni e in particolare la NATO hanno ridimensionato a favore di altri scenari. Ad occuparsene in prima persona rimangono i paesi del Mediterraneo e tra questi Italia ed Egitto sembrano tra i più schierati. La soluzione ufficiale rimane per tutti quella diplomatica, mentre all’interno i conflitti armati permangono: in stallo per ora quello di Tripoli, continua quello di Bengasi. La Libia ha al momento due esecutivi e due parlamenti che basano la propria legittimità interna su due «eserciti» e due operazioni militari di segno opposto, mentre solo uno – quello antiislamista di Tobruk – gode di un pressoché unanime consenso internazionale. Le Nazioni Unite sembrano essere l’avanguardia di questa attività diplomatica e le ultime parole di Bernardino Leon sembrano lasciar intendere che vi siano dei punti utili e condivisi sui quali fare leva. Dice Leon, consapevole che «ovviamente c’è ancora qualche distanza tra alcuni attori» e che «c’è ancora altro lavoro da fare»: «[…] abbiamo anche visto che c’è un accordo sui principi basilari che dovrebbero condurre questi colloqui e che dovrebbero condurre il futuro processo politico. Legittimità, rispetto per la dichiarazione costituzionale e per le procedure stabilite nella dichiarazione, impegno verso i principi democratici, un rifiuto molto chiaro del terrorismo». Rimane da capire come questa iniziativa collettiva potrà sposarsi con quella individuale dei paesi più interessati per vicinanza geografica ad arginare il conflitto libico.
Rimane anche il nodo Ansar al Sharia, gruppo che non ha mai creduto nella democrazia parlamentare e che non ha alcun dialogo con la comunità internazionale essendo riconosciuto da vari paesi, gli Stati Uniti per primi, come gruppo terrorista. Per ora il confronto militare di Ansar al Sharia è con l’Operation Dignity del Generale Khalifa Hafter, protettore di fatto del parlamento di Tobruk e del governo al Thanni. Questi d’altronde si stanno muovendo a livello internazionale proprio verso le nazioni di più vivo orientamento antiislamista: Egitto e EAU.
È difficile al momento dire quanto durerà questo equilibrio che sta aprendo comunque alcuni spazi per il dialogo. È evidente che uno dei due parlamenti e uno dei due esecutivi dovrà soccombere e ad oggi la neutralità bellica internazionale non è anche una neutralità politica, visto che dal punto di vista politico lo schieramento è invece – pur con qualche possibile eccezione ufficiosa – sostanzialmente compatto e antiislamista. Al di là della retorica pacifista e di disarmo è altrettanto evidente che il non intervento permette ad Hafter e ad Ansar al Sharia di continuare il confronto armato e alla comunità internazionale di considerare il terrorismo in terra libica un problema di secondaria importanza, se paragonato a quello in terra irachena. Il fatto che gli islamisti di Tripoli abbiano poi condannato a loro volta il terrorismo e negato la possibilità di un fronte unico con Ansar al Sharia fa sì che questo aspetto della questione rimanga a maggior ragione confinato ad alcune città orientali, delle quali Bengasi è il punto di frontiera. Rimane, a dir la verità, la questione di supposte cellule dormienti a sud, Fezzan, scalzate dalla guerra in Mali e per le quali almeno la Francia sembra avere una certa apprensione. Francia e Stati Uniti – ma la fonte cui si rifarebbe l’agenzia citata in questo caso è anonima – avrebbero fatto richiesta all’Algeria e a non meglio identificati paesi vicini alla Libia di concedere il proprio territorio e il proprio spazio aereo per operazioni di sorveglianza.
Una risposta militare a Tripoli come quella annunciata da Hafter potrebbe distruggere questo equilibrio precario, ma un altro punto di svolta potrebbe essere la nuova Costituzione, che si andrebbe a sostituire a quella temporanea dell’agosto 2011 e che potrebbe essere pubblicata come bozza a dicembre per poi essere sottoposta a referendum – scrive il Libya Herald – nel febbraio 2015. Bisognerà allora vedere se e come la situazione reggerà fino a quel momento.
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.
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