di Alessandro Pagano Dritto
(Twitter: @paganodritto Facebook: Cronache libiche)
Non si è ritenuto corretto che il lettore leggesse quanto segue rimanendo all’oscuro del fatto che il Dialogo Nazionale di cui tante volte si fa menzione qui sotto è alla fine stato fissato per il 14 gennaio 2015 e che il 14 gennaio 2015 è iniziato senza subire i precedenti rinvii. Tuttavia si è ritenuto che fosse fondamentale mantenere la periodizzazione avuta fin qui e che il lettore, saputo questo, potesse conoscere anche cosa fosse successo prima della data fatidica.
Perciò si è ritenuto anche scorretto cambiare quanto – cioè tutto al di fuori delle Conclusioni – fosse già stato scritto prima di quella data: per non cadere nell’errore, sempre possibile, di scrivere col senno di poi.
Grazie della comprensione.
Nazioni Unite: un Dialogo Nazionale continuamente rimandato.
La questione delle Nazioni Unite impegnate nello scenario libico, divenuta critica già a novembre, ha continuato a tenere banco anche nell’ultimo mese del
2014: si possono osservare alcune evoluzioni, anche se permane il problema principale costituito dall’impossibilità di realizzare la tanto attesa seconda tappa del Dialogo Nazionale, che dovrebbe seguire quella di Ghadames del 29 settembre e la presentazione di Tripoli dell’11 ottobre.
A inizio mese sembrava che «Ghadames II», com’era stato provvisoriamente chiamata questa seconda tappa in attesa di conoscere l’ubicazione reale del vertice, dovesse avere luogo il 9 dicembre, ma poi anche questa data è stata annullata e fino ad ora non si è avuto nessun ulteriore riscontro. Il 23 dicembre un articolo della Reuters che citava fonti interne alle Nazioni Unite – il cui Consiglio di Sicurezza proprio in quella data era stato aggiornato a porte chiuse dallo spagnolo Bernardino Leon, presidente della United Nations Supporting Mission in Libya (Missione di Supporto delle Nazioni Unite in Libia, UNSMIL) – aveva dato quasi per certa la data del 5 gennaio; ma il 4 arrivava secca, via Twitter, la smentita che ribadiva il 9 dicembre come ultima data ufficiale fornita.
Se quindi la realizzazione del Dialogo Nazionale da parte delle Nazioni Unite sembra essersi per il momento arenata – e un altro articolo della Reuters assegnava proprio quest’espressione all’Inviato Speciale per il Sahel Hiroute Guebre Selassie: «had stalled» – bisogna anche specificare che la prima parte, quella riunione e mezza effettivamente tenuta, sembra ormai richiedere un aggiornamento: a dirlo è lo stesso Bernardino Leon, che non fa mistero di come la decisione della Corte Suprema che lo scorso 6 novembre di fatto delegittimava il parlamento della Libia orientale e il suo governo abbia mutato il panorama politico richiedendo la presenza di nuovi interlocutori assenti nella prima sessione.
Rimangono chiari invece, a detta di Leon, gli obiettivi del Dialogo, così riassunti durante una conferenza stampa a Tripoli l’8 dicembre: «l’accordo su un governo di unità nazionale, l’accordo sui passi per stabilizzare la situazione nel paese, che dovrebbero includere un cessate il fuoco, il controllo delle armi e l’abbandono da parte delle milizie delle città, degli aeroporti e dei più importanti spazi pubblici per contribuire alla normalizzazione del paese».
E, nella stessa occasione, aggiunge lo spagnolo: «Le Nazioni Unite non sono qui per giudicare: sono qui per aiutare a falicitare questi colloqui, e nella speranza di raggiungere una situazione nella quale i libici possano concordare su alcuni principi base per tornare alla transizione democratica e ritrovarsi su queste componenti base della vita politica libica: istituzioni, separazione dei poteri, decisioni giuridiche, democrazia, tutto questo. Ma ancora non ci siamo. Occorrerà del tempo».
17 dicembre, l’Inviato Ibrahim Dabbashi: le Nazioni Unite si schierino con Tobruk contro il terrorismo.
La posizione delle Nazioni Unite e della comunità internazionale verso questo verdetto e l’istituzione che l’ha pronunciato
non sembra in realtà priva di ambiguità: se il verdetto ha ottenuto l’effetto di dare una qualche legittimità alle istituzioni di Tripoli, Libia occidentale, come interlocutrici legittime nel processo di pacificazione, è altrettanto vero che a livello politico nessuno riconosce ancora il General National Council (Consiglio Nazionale Generale, GNC) e l’esecutivo al Hassi, che così continuano a rimanere privi di rappresentanza estera ufficializzata a vantaggio, invece, del governo orientale di Tobruk.
L’unica voce ufficiale in seno alle istituzioni internazionali è ad oggi quella di Tobruk, incarnata alle Nazioni Unite dal Rappresentante Permanente Ibrahim Dabbashi.
Molto significativo sembra il suo intervento al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nella riunione del 17 dicembre 2014.
Dabbashi ha riconosciuto l’indiscutibile alleanza esistente tra il governo di Tobruk e le Nazioni Unite – e quindi tra il governo di Tobruk e l’UNSMIL di Bernardino Leon – ma proprio in virtù di questa alleanza e della comune lotta al terrorismo ha chiesto di riconsiderare la politica dell’eguaglianza tra quasi tutti i gruppi che si oppongono in Libia a favore, invece, di uno schieramento netto e privo di ambiguità per il governo orientale: «Il Consiglio – ha detto Dabbashi – non potrà fermare con efficienza i combattimenti in Libia o incoraggiare il dialogo se non eviterà di rapportarsi con i gruppi armati su un piano di parità con il Governo legittimo e se con franchezza e chiarezza non inviterà i gruppi armati a smettere di combattere l’Esercito, a deporre le loro armi, a lasciare le città e a rinunciare al controllo delle istituzioni dello Stato. Il Consiglio dovrebbe chiamare tutti gli Stati ad assistere l’Esercito libico nella sua lotta al terrorismo. I membri del Consiglio, comunque ben intenzionati, devono promettere di rinunciare ai loro tentativi di valutare le risoluzioni e le decisioni della HOR e del Governo basato su questa, incluse quelle riguardanti l’Esercito libico e la sua leadership e l’identità di quei gruppi armati che in Libia possono essere chiamati terroristi».
Nel lessico di Dabbashi i «gruppi armati» sono tutte quelle formazioni che si oppongono alle forze di Tobruk e queste ultime costituiscono l’«Esercito libico». Dabbashi dipinge una Libia divisa in due: pro e contro Tobruk. Pare di capire che chiunque si opponga a Tobruk costituisca un gruppo terrorista, visto che, come si è appena letto, l’Esercito libico conduce senza mezzi termini una «lotta al terrorismo». Dabbashi considera poi che questi gruppi siano mossi sia da alcuni, non meglio specificati, Stati esteri, sia da un movimento politico che si rivale così della sua debolezza nel campo della politica elettorale: «i gruppi armati che hanno conquistato la Capitale, Tripoli, e la città di Derna e che sono stati espulsi da Bengasi dall’esercito credono di avere armi e supporto a sufficienza da certi Stati da imporre la loro volontà sulla gente di Libia. Sfortunatamente questi [gruppi armati] hanno trovato supporto in una organizzazione politica che ha perso le elezioni per la HOR e che vuole sfruttare le attività criminali dei gruppi armati e la conquista delle istituzioni dello Stato così da raggiungere guadagni politici che possano compensare le loro sconfitte elettorali». Difficile non riconoscere in questa entità non meglio precisata quanto meno l’islamismo politico libico uscito pesantemente ridimensionato dai risultati delle elezioni del 25 giugno. Come si vede, Tripoli, Bengasi e Derna sembrano essere per Dabbashi quasi un unico scenario e nel discorso l’inviato sostiene che la Libya Dawn conterrebbe tra le sue fila gruppi appartenenti all’ISIL e ad al Qaeda a Bengasi, Derna, Sirte e al Zawiya. Naturalmente secondo Dabbashi i libici sono tutti con Tobruk: «Ciò che è stato ottenuto a Bengasi – dice – con il supporto della popolazione della città e con risorse molto modeste, è motivo d’orgoglio per tutti i libici e una lezione importante per gli altri eserciti e per la loro lotta contro il terrorismo».
Concretamente Dabbashi chiede al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di facilitare, per prima cosa, l’arrivo di armi e di equipaggiamenti all’esercito libico e poi un piano speciale di assistenza per ricostruire le istituzioni e ristabilire la stabilità, da attuare non appena l’esercito sarà tornato in controllo delle istituzioni della Capitale Tripoli: il piano dovrebbe riguardare i campi della sicurezza, della magistratura e delle istituzioni politiche locali, il cui organismo dovrebbe essere quindi specificamente addestrato.
Per completare il quadro dell’attuale rapporto tra la Libia e le istituzioni della comunità internazionale va detto che il 10 dicembre la Corte Penale Internazionale si è definitivamente espressa sul caso di Saif Islam Gheddafi, detenuto dalle milizie di Zintan dalla fine del 2011, giudicando la Libia incapace di assolvere al proprio obbligo di consegnare il figlio del Colonnello.
Come cambia il panorama internazionale: nuovi posizionamenti nei confronti della Libia?
Priva com’è di questa ufficialità estera, è ovvio pensare che Tripoli abbia un certo interesse a impedire un’intervento internazionale in Libia, che pure compare come minaccia – in varie forme, ma ovviamente la più temuta è quella militare – da più parti. Se infatti Tobruk può vantare come alleati più o meno ufficiosi l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e forse anche la Giordania, insomma tutto il fronte internazionale arabo che si oppone all’islamismo politico della Fratellanza Musulmana, bisogna registrare anche che in questo mese di dicembre sembrano essere in qualche modo rientrati o quanto meno essersi appianati i dissidi politici tra l’Egitto e il più grande sponsor tradizionale della Fratellanza stessa, il Qatar. E potrebbe esserci la possibilità che anche la Turchia renda più tiepido il suo appoggio per la fazione islamista libica. Lasciando ad altri di approfondire nel dettaglio questo possibile ricongiungimento, dal punto di vista libico sembra che la situazione possa non essersi messa nel migliore dei modi per la fazione che è sempre stata sospettata di trovare nella Turchia e nel Qatar degli alleati tanto fedeli quanto discreti. Le ultime voci in merito arrivano proprio dagli Stati Uniti, dove a inizio mese alcune anonime fonti ufficiali lamentavano, sempre con la Reuters, l’ingerenza nello scenario libico dei paesi sopra menzionati, sia di parte islamista che di parte antiislamista, ingerenza che a loro modo di vedere alimentava la guerra piuttosto che il dialogo tra le parti.
In dicembre ci sono state diverse minacce innalzate a livello internazionale contro la Libia, delle quali solo una però si è verificata: il bando dei voli libici deciso dall’Unione Europea sul proprio territorio. Per il resto minacce di sanzioni erano state avanzate già in ottobre dagli Stati Uniti e da alcuni paesi alleati; infine dall’Unione Europea, che secondo fonti anonime interne sarebbe disposta a discutere di non meglio specificate sanzioni nel momento in cui le ritenesse necessarie l’inviato delle Nazioni Unite Bernardino Leon. Gli Stati Uniti paiono essere interessati soprattuto a monitorare l’area della città orientale di Derna, dove alcune milizie hanno giurato fedeltà all’Islamic State: al momento il Pentagono ha dichiarato di ritenere la loro struttura ancora di carattere embrionale.
Richiamando l’intervento internazionale: alcuni Stati africani, l’Italia.
Una richiesta esplicita di intervento militare è pervenuta invece da alcuni Stati africani: Mauritania, Niger, Ciad, Mali e
Burkina Faso, riunitisi il 19 dicembre a Nouakchott in Mauritania come G5 del Sahel, si sono espressi in questo senso, chiedendo per voce del locale presidente Mohamed Ould Abdel Aziz l’intervento di una forza internazionale che «avrà il compito di sostenere il parlamento libico, che è stato democraticamente eletto, ma che non è riuscito a esercitare le proprie prerogative o imporre la propria autorità a causa dell’instabile situazione militare e della sicurezza, che sono totalmente fuori controllo»; e ricevendo forse anche alcune risposte indirette.
Il Primo Ministro italiano Matteo Renzi, per esempio, intervistato dal quotidiano Il Foglio il 20 dicembre, ha detto che l’Italia sarebbe pronta ad assumere un ruolo guida nel caso in cui le Nazioni Unite decidessero di intervenire attivamente in Libia, qualsiasi fossero le modalità decise: «la Libia è lì accanto a noi – riporta Claudio Cerasa -, e tocca anche a noi, nelle forme che l’ONU deciderà, essere la guida di un processo di pace».
In questo mese di dicembre il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni è stato poi particolarmente prodigo di interviste e un pezzo di cui si è persino fatto autore sulla Stampa del 7 dicembre sembra importante per capire le possibili direttive di un intervento italiano in terra libica. Un eventuale «attività di monitoraggio o di peacekeeping sotto le bandiere delle Nazioni Unite» dipenderebbe in primo luogo da un fallimento della via diplomatica attualmente condotta da Bernardino Leon e comunque sarebbe successivo a un’organizzazione politica non più duplice all’interno dello stesso scenario libico: come lo stesso Gentiloni si esprime al giornalista del Messaggero Marco Ventura il 2 dicembre, «serve un governo provvisorio, un percorso istituzionale verso un nuovo assetto che tenga assieme i moderati delle diverse parti in conflitto. Solo a quel punto sarà ipotizzabile una presenza di monitoraggio o peacekeeping».
Nel suo articolo Gentiloni non fa mistero del fatto che sia la Tripolitania la zona che più interessa l’Italia, per la presenza in quella parte di Libia dei suoi maggiori coinvolgimenti economici. Ma l’Italia, sostiene, è particolarmente interessata a scongiurare la divisione territoriale del paese nordafricano. Quando, il 31 del mese, lo stesso quotidiano lo porta a proporre una sua interpretazione dell’intervento del 2011, il Ministro dice attraverso la penna del giornalista Andrea Malaguti: «Io dico che quella operazione è stata fatta in un momento di debolezza forse unico del nostro paese. E che quindi non abbiamo avuto sufficiente voce in capitolo per porre il problema centrale, cioè cosa sarebbe successo con la caduta del regime».
Il tutto era già stato preceduto a fine novembre da un’intervista molto esplicita resa a Gad Lerner per Repubblica, dove tutti questi temi venivano passati in rassegna: abbattere Gheddafi è stata «una causa sacrosanta – dice il Ministro – Ma poi?» «Non dobbiamo ripetere l`errore di mettere gli stivali sul terreno prima di avere una soluzione politica da sostenere. Ma certo un intervento di peacekeeping, rigorosamente sotto l`egida ONU, vedrebbe l`Italia impegnata in prima fila. Purché preceduto dall`avvio di un percorso negoziale verso nuove elezioni garantito da un governo di saggi. In assenza del quale mostrare le divise rischia solo di peggiorare la situazione. Ci stiamo lavorando, con i paesi dell`area e con le Nazioni Unite».
Francia e alleati africani dopo il Mali: l’Operazione Barkhane cinge il deserto libico.
Potenzialmente attiva parrebbe poi la Francia, la cui preoccupazione rimane la situazione in Fezzan, cioè il Sud desertico
della Libia: si pensa che queste terre ospitino gruppi armati islamisti sbandati in particolare dal Mali proprio dopo l’offensiva francese del 2013. Proprio dall’esperienza maliana è partita nell’agosto 2014, in cooperazione con sei Stati dell’area – Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad – l’operazione militare Barkhane, che, secondo i dati forniti l’11 dicembre dall’ambasciatore alle Nazioni Unite Franҫois Delattre, ha spiegato nel territorio di competenza «più di 3000 soldati, un notevole assetto aereo e centinaia di veicoli». In campi che non coprirebbero esclusivamente il settore militare, la Francia spenderebbe nel Sahel circa 500 milioni di dollari l’anno e metterebbe a disposizione dei paesi coinvolti 160 esperti. Fino ad ora la Francia ha negato ogni attraversamento della frontiera libica, anche quando è stata esplicitamente accusata di averlo fatto, ma possiede postazioni in Ciad e Niger a non molta distanza dal confine. Il 31 dicembre una visita del Ministro della Difesa Jean Yves Le-Drian ai suoi soldati di stanza alla base di N’Djamena, Ciad, aveva riproposto all’attenzione dei media la questione: la Agence France Presse citava queste parole: «Sarebbe un grosso errore per la comunità internazionale rimanere passiva di fronte alla crescita di un tale focolaio di terrorismo nel cuore del Mediterraneo». A rigore, in questa e in altre citazioni di uguale tenore presenti nel pezzo d’agenzia non si parla mai di un esplicito intervento militare, ma in ogni caso più recenti dichiarazioni di Franҫois Hollande sembrano chiudere a ogni ambiguità: la Francia, ha detto il massimo vertice della politica parigina ai primi di gennaio, non ha intenzione di intervenire unilateralmente in Libia e lo farebbe solo in caso di un chiaro ed esplicito mandato internazionale.
La posizione britannica: la querelle tra l’Ambasciatore Michael Aron e l’Ashraq al Awsat.
Un’interessante querelle si è avuta poi, sempre a dicembre, tra il giornale Ashraq al Awsat e l’ambasciatore britannico
Michael Aron. Il giornale aveva sostenuto il 14 dicembre che il Regno Unito facesse pressione su Tobruk perchè appianasse le divergenze con la Fratellanza Musulmana libica, vista come il principale elemento politico della compagine tripolina. Un anonimo ministro del gabinetto al Thanni, l’esecutivo orientale, dichiarava: «Gli inglesi stanno facendo quanto in loro potere per salvare la Fratellanza e assicurarsi un coinvolgimento nella scena politica libica» e proseguiva indicando proprio in Aron il fautore di una proposta di governo allargato. Anche in questo caso il Generale Khalifa Hafter, volto noto della antiislamista Operation Dignity, sarebbe diventato il nome attorno a cui disporsi nei confronti della Libia: sempre l’Ashraq al Awasat aveva citato l’11 dicembre, giorno di una già nominata riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, un’altra fonte ministeriale anonima che chiariva come sul Generale si fossero contrapposte proprio Regno Unito e Francia, con quest’ultima che bloccava i tentativi messi in atto dalla prima di inserire il Generale tra i nomi da sanzionare secondo le norme dettate dalla Risoluzione 2174 del 27 agosto 2014: parlava di «una battaglia invisibile» in corso tra Parigi e Londra e precisava che «secondo le informazioni che abbiamo ricevuto, la Gran Bretagna sta spingendo con forza perché Hafter venga incluso nella lista delle sanzioni, ma la Francia si è opposta». «Ad oggi l’Ovest è nei guai. I successi che il Generale Hafter sta ottenendo contro gli estremisti sul terreno nella città di Bengasi, nella Libia dell’Est, fanno sì che imporre sanzioni su di lui o metterlo nella lista accanto ai signori della guerra sia una soluzione poco gradita, se assunta pubblicamente e ufficialmente». Il giornale riportava anche una voce non specificata del Ministero degli Esteri britannico che confermava le trattative in corso per la composizione della lista di nomi ma si diceva impossibilitata a fornire ulteriori dettagli in merito.
La risposta dell’ambasciatore Michael Aron, direttamente chiamato in causa in uno dei pezzi, non si faceva attendere e su
Twitter l’uomo del governo britannico dichiarava il 14 dicembre che dire che il Regno Unito sostenesse la Fratellanza Musulmana fosse «un non senso». Il 20 dicembre l’Ashraq al Awasat pubblicava un’intervista nella quale l’Ambasciatore rassicurava sul rapporto tra il suo governo e le autorità di Tripoli: «Noi non riconosciamo il governo di Omar al Hassi e non c’è stata alcuna comunicazione con noi». E poco oltre continuava: «Noi riconosciamo il parlamento [di Tobruk] e il governo di Abdallah al Thanni come i legittimi rappresentanti del popolo libico». Confermando l’ipotesi del governo di unità nazionale già espressa da Bernardino Leon come uno dei punti cardine da raggiungere tramite il Dialogo, l’Ambasciatore non mancava però di condannare l’operato del Generale Khalifa Hafter e del suo esercito, seppur nella più ampia e biparte condanna verso chiunque ostacoli con la forza i tentativi di Dialogo: «Se c’è una qualsiasi parte o un qualsiasi individuo che rifiuta il dialogo e continua a combattere, allora queste entità verranno poste nella lista delle sanzioni».
Bisogna notare che in tutta questa querelle di sicura c’è solo la risposta britannica che rispecchia a pieno quella politica dell’eguaglianza delle parti condotta da Leon e criticata dall’Inviato libico alle Nazioni Unite Ibrahim Dabbashi. Nulla di certo si può invece dedurre dagli altri articoli che si basano, alla fine, su fonti anonime e che chiedono quindi di concedere fiducia al giornale – per altro di una certa autorevolezza – che le pubblica. Eppure il lettore attento di questa rubrica ricorderà che ai primi di novembre un giornale vicino alle Nazioni Unite, What’s in Blue, riportava di una situazione molto simile a quella riferita dalla testata araba, dove però al posto della Francia si presentava la Russia a bloccare gli sforzi della Gran Bretagna contro Hafter. L’intervista di Aron non mette minimamente in dubbio la condanna britannica nei confronti del Generale e quindi lascia supporre che qualcosa di vero, nel dipingere questo scenario internazionale di un Regno Unito ostile ad Hafter, possa pur esserci: rimane da chiarire quanto essere «ostile ad Hafter» possa significare come netta conseguenza anche essere «vicino alla Fratellanza Musulmana».
Narrazioni a confronto: l’intervista a Mohammed al Dairi, Ministro degli Esteri di Tobruk.
Proprio l’Ashraq al Awsat, citando ancora una volta un non meglio specificato ministro di Tobruk, dava praticamente per
scontata la nomina di Khalifa Hafter a comandante in capo delle forze armate orientali: «La decisione è stata presa – diceva questi il 7 dicembre -; la questione è vedere quando sarà annunciata. Il portavoce del parlamento Aqeela Saleh annuncerà la decisione in qualità di comandante in capo effettivo».
Intervistato invece il 24 dicembre dall’Atlantic Council, think thank statunitense, il Ministro degli Esteri di Tobruk Mohammed al Dairi dava alla questione Hafter e al suo protagonista una dimensione diversa: «È vero – diceva – l’esercito libico include Hafter, ma ci sono altri che stanno combattendo il terrorismo giorno e notte nella Libia orientale. Questi comandanti e combattenti appartengono a diverse unità militari e brigate, a diversi contingenti come l’aviazione, la fanteria, la marina ecc… e sono tutti parte dell’esercito nazionale libico comandato ora dal Generale Abdelzak al Nadouri. Ma posso dire che la questione del Generale Hafter è stata gonfiata oltre misura. Il suo ruolo nella Libia orientale è stato enfatizzato al di là del dovuto ed è stato ritratto in modo troppo negativo. Non ci si può dissociare o non prestare fiducia a quanto qualcuno come il Generale Hafter, che si è dato da fare molto presto, ha cominciato prima che la House of Representatives (Casa dei Rappresentanti, HOR) venisse eletta».
Appare chiara l’intenzione di al Dairi di contestualizzare la presenza di Hafter in un quadro più ampio e di depersonalizzare, se così si può dire, la guerra che nell’Est si combatte a viso aperto nella città di Bengasi oltre che ormai, come il lettore avrà modo di vedere tra poco, nella zona della sirtica. Per il resto il Ministro dipinge le autorità orientali come strettamente vicine e all’unisono con le scelte e il programma delle Nazioni Unite e quando l’intervistatore accusa quelle stesse autorità di utilizzare un linguaggio «parecchio bellicoso», al Dairi ricorda alcune dichiarazioni ufficiali pro dialogo e pro Nazioni Unite e conclude: «Così il linguaggio bellicoso di cui lei parla, non lo vedo da parte della HOR». I punti in comune tra Tobruk e il programma di Bernardino Leon sono così spiegati: «Ciò che importa ai libici, come ho detto, è un processo che possa portare a un governo di unità nazionale con un progetto politico. Un progetto significa che bisognerebbe cercare di ricostruire uno Stato fondato sul ruolo della legge, inclusa [quella sui] diritti umani, il rispetto dell’indipendenza della magistratura e la ricostruzione dell’esercito nazionale e della polizia. Inoltre l’agenda politica dovrebbe in tutti i modi includere il bisogno di combattere il terrorismo. Ci dovrebbe essere in parallelo un percorso militare che porti alla fine al disarmo e allo smantellamento delle milizie armate. Tutto questo dovrebbe essere facilitato dalla comunità internazionale che dovrebbe esercitare la pressione necessaria su queste potenze regionali perché cessino le loro interferenze in Libia, non benvenute e negative. Lo sforzo della comunità internazionale di sostenere i tentativi di Leon e di aiutare la Libia a tornare a reggersi sulle sue gambe è necessario non in ultimo per le crescenti minacce del terrorismo nel paese».
Conclude il Ministro: «[I gruppi radicali in Libia] costituiscono prima una minaccia ai libici, ma anche, poi, ai paesi vicini». E in questo il Ministro potrebbe riecheggiare quanto detto dall’Inviato Speciale per il Sahel Hiroute Guebre Selassie al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite l’11 dicembre, quando proprio la Libia, con l’esportazione illegale di armi proveniente dai suoi territori, veniva indicata come uno dei principali fattori di destabilizzazione dell’intera regione: 20.000 armi contrabbandante, secondo l’Inviato, nel periodo preso in esame.
Narrazioni a confronto: l’intervista a Salah Badi, leader della Libya Dawn.
L’intervista della giornalista italiana Nancy Porsia per Al Jazeera permette di osservare la Libya Dawn, l’operazione
militare che ha ottenuto il controllo di Tripoli nell’agosto 2014, con gli occhi del suo leader della prima ora: Salah Badi. L’introduzione al pezzo lo descrive come un’ex pilota di Mirage dell’esercito gheddafiano, esercito che abbandonò poi ai tempi della guerra in Ciad; dopo le elezioni del luglio 2012 lo troviamo nel primo GNC, dal quale si dimetterà – dice lui stesso – nel gennaio 2014 per l’eccessiva presenza di parlamentari islamisti e di parlamentari espressione di aree ritenute filogheddafiane.
La Libya Dawn e le sue derivazioni politiche sono spesso presentate come istituzioni islamiste. Salah Badi smentisce questa narrazione, anche se non nega la presenza, in queste strutture e nella sua stessa Libya Dawn, di elementi islamisti anche radicali: ma, dice, rimangono una minoranza. Esempio di questa tendenza non islamista sarebbe lui stesso, che non nutre simpatie per l’islamismo politico: non solo per quello radicale rappresentato dal Libyan Islamic Fighting Group (Gruppo Libico Islamico Combattente, LIFG, ora Libyan Islamic Movement for Change, Movimento Libico Islamico per il Cambiamento, LIMC) ma anche per quello più moderato della Fratellanza Musulmana, di cui non vede il bisogno in un paese quasi completamente musulmano qual è la Libia.
Alla domanda cos’é la Libya Dawn?, Badi risponde: «Fajr Libya [nome arabo della Libya Dawn] è un’operazione militare finalizzata a combattere la montante corruzione all’interno delle istituzioni. Dopo la rivoluzione del 2011 i ribelli hanno riposto la loro fiducia nei politici, ma i nuovi governanti sono stati tentati dal potere. Due mesi dopo che Hafter aveva lanciato la sua operazione controrivoluzionaria a Bengasi [la Operation Dignity è iniziata nel maggio 2014], i ribelli sono ritornati alle loro posizioni per fermare il colpo militare contro le istituzioni nazionali. I combattenti della Fajr Libya non hanno alcuna agenda politica se non proteggere la 17 febbraio [nome confidenziale dato all’insurrezione contro Gheddafi del 2011]».
Subito dopo Badi spiega quindi che anche identificare tutta l’opposizione bengasina ad Hafter come islamista è sbagliato: è vero, dice, che nel Benghazi Revolutionaries’ Shura Council (Consiglio della Shura dei Rivoluzionari di Bengasi, BRSC) ci sono dei gruppi che rispondono a un’ideologia politica islamista, ma sono comunque, anche lì, una minoranza. Secondo il miliziano, la maggior parte del BRSC sarebbe riconducibile piuttosto a un’ideologia nazionalista.
A un livello più politico Badi sostiene che il governo di Tripoli, l’esecutivo retto cioè da Omar al Hassi, non è il massimo e non è certo composto da membri impeccabili – l’espressione usata è addirittura quella di «persone non patriottiche» -; è persino debole. «Comunque questo è un corpo d’emergenza e dovremmo tenercelo. Il GNC oggi è l’unica istituzione capace di assicurare l’applicazione della futura Costituzione».
Sulle Nazioni Unite e Bernardino Leon, che Badi dice di aver incontrato in settembre, la risposta è che il tempo del dialogo è finito: le Nazioni Unite non hanno applicato alcuna sanzione contro gli ex gheddafiani ora residenti all’estero che si sono macchiati di crimini nel 2011 e quindi, se ne deduce, non sono più una soluzione credibile. «Oggi – specifica – la soluzione sono quelle operazioni militari con le quali i libici possono sbarazzarsi dell’intervento straniero. Allora l’Italia, che ancora si muove in Libia, dovrebbe uscire dalla sua ambiguità e riferire la verità senza parzialità».
Quando si arriva a parlare della reazione a un possibile intervento militare internazionale, Badi risponde che la Libya Dawn non ha alcuna intenzione di impugnare le armi contro l’occidente e che è pronta a ritirarsi: e qui rimane da chiarire, allora, il valore da dare all’aggettivo «ready», «pronta» che qualificherebbe la stessa struttura militare dopo l’esito del prossimo referendum costituzionale. Ma a quel punto rimarrebbero armati e attivi i gruppi radicali: meglio allora, sottolinea sempre Badi, che l’Occidente «sia assolutamente neutrale. Deve solo assicurarsi che non ci sia alcun appoggio esterno per le parti coinvolte nel conflitto».
Lo scenario militare interno: il conflitto si allarga in nuove zone della Tripolitania.
Pare giusto concludere con un breve focus sulla situazione militare dello scontro tra Tripoli e Tobruk. Allo scenario ormai
abituale di Bengasi, nell’Est, dove per la verità le autorità di Tripoli non sono ufficialmente implicate, il dicembre 2014 ha visto aggiungersi almeno altri tre importanti centri di scontro e, tra questi tre, due non si sono risolti entro la fine del mese. Sono evoluzioni importanti, queste, perché dopo i precedenti bombardamenti di Tripoli, segnano il definitivo spostamento della guerra nella regione occidentale della Tripolitania – già comunque interessata con le zone dei Wershefana e il fronte della città di Kikla – e, all’interno di questa, sia nella sua zona occidentale vicina al confine con la Tunisia, sia quella orientale.
Sono numerosissimi gli articoli del Libya Herald che riportano di questi scontri, solitamente – ma non unicamente – dal punto di vista delle autorità della Libia orientale. Il Libya Herald rimane quindi forse, da questo punto di vista, la fonte più precisa e interessante per il lettore non arabofono, perché riporta anche di numerosi scenari cosiddetti minori non ripresi dalle grandi agenzie internazionali. Proprio in virtù del loro gran numero, sembra inutile riportare qui i link a tutti gli articoli, che oltretutto cessano di essere visibili ai lettori non abbonati alla testata dopo appena due giorni dalla loro pubblicazione. Né è possibile qui rendere conto di ogni singola evoluzione, dal momento che quelli trattati sono per lo più scenari molto volubili, la cui volubilità è per altro notevolmente veloce nel tempo.
Sì è ritenuto quindi opportuno semplificare il tutto con la cartina geografica qui esposta, dove non si farà differenza tra scontri di terra tra milizie e bombardamenti aerei: sono avvenuti entrambi, e secondo il quotidiano nazionale libico i bombardamenti sono partiti dalla base aerea di al Wattiya, per la prima volta esplicitamente utilizzata intorno alla metà del mese dalle forze antitripoline di Zintan: la base si troverebbe pochi chilometri a sud di al Jumayl, a sua volta teatro di scontri. Nella Tripolitania occidentale, però, lo scontro più importante, riportato anche a livello internazionale, si è avuto a Ras Ajedir, il valico con la frontiera tunisina: questo scontro pare essersi risolto – per il momento, ma con una certa stabilità – a favore della Libya Dawn. Tutti i centri interessati a questi scontri, si noterà, collegano Tripoli al valico e sono nelle immediate vicinanze della strada costiera.
Più duraturo, e forse anche più importante visto il coinvolgimento degli impianti petroliferi della zona, lo scontro che invece ha interessato dal 13 dicembre l’area di El Sidra, vicino alla città di Sirte. Alle forze di Tobruk si sono contrapposte le truppe di una nuova operazione filooccidentale, la Operation Sunrise, una sorta di costola della Libya Dawn guidata dall’ex Capo di Stato Maggiore Abdel Salam Obeidi. Nell’intervista resa a Nancy Porsia, Salah Badi conferma che l’intervento tripolino – ma soprattutto misuratino, vista la vicinanza geografica della città di Misurata – nella zona è mirato a sottrarre i terminali petroliferi al controllo delle milizie federaliste di Ibrahim Jathran, vicine queste ultime al governo di Tobruk. Durante uno di questi scontri, che hanno interessato la città di Sirte, più volte bombardata, e il centro di Ban Jawad che costituisce una sorta di postazione di retroguardia occidentale, ha preso fuoco uno dei terminali petroliferi: dopo alcuni appelli caduti a vuoto verso paesi terzi come l’Italia, i vigili del fuoco libici sono riusciti a domare l’incendio. Un articolo del Libya Herald raccoglieva la voce di un abitante di Sirte che sosteneva che la città fosse stata bombardata, sul finire del mese, quasi ogni giorno e che la vita lì fosse diventata «davvero miserabile». La voce lamentava poi la crescita, sul posto, dei gruppi radicali.
Voci provenienti dalle autorità di Tobruk, raccolte sempre dal Libya Herald e confermate in parte dal Ministro degli Esteri al Dairi nella sua intervista all’Atlantic Council, sostenevano che alle forze militari orientali si opponessero nella zona di Sirte alcune brigate della Libya Dawn, tra cui la misuratina al Farouq basata a Sirte dal 2011, e la locale fazione di Ansar al Sharia.
La Operation Sunrise potrebbe inoltre indicare una riformulazione all’interno delle forze militari occidentali, annunciata come imminente: sarebbe la Joint Operation Room, una sorta di consiglio di tutti i più importanti capi militari della Libia occidentale. Naturalmente il consiglio è stato presentato come neutrale tra le parti, ma le possibilità che lo sia davvero non paiono alte.
Il 28 dicembre, invece, per la prima volta dal suo inizio nella primavera – estate 2014 il conflitto raggiungeva direttamente la città feudo della Libya Dawn: Misurata. Venivano colpiti, in modo non grave, il porto, l’aeroporto, una fabbrica e l’accademia militare. Quasi contemporaneamente un’esplosione colpiva a Tripoli la stazione della polizia: procurava solo leggeri danni materiali, ma per la prima volta si diffondeva il nome del Tripoli Islamic State. Una sigla che naturalmente lascia perplessi ma sulla cui effettiva capacità è ancora troppo presto per dire qualcosa.
Il polso della situazione: i numeri delle morti violente in Libia nel 2014.
Il sito Libya Body Count, che tiene il conto delle vittime morte di morte violenta in Libia e non rappresenta alcuna autorità ufficiale, conta per il 2014 2825 vittime.
Da un punto di vista cronologico, il mese dove sono state registrate meno vittime è stato febbraio, con 7, quello invece più luttuoso è stato agosto, con 488 casi.
Dal punto di vista geografico, invece, la realtà più difficile è stata Bengasi, dove sono state contate 1471 morti violente; a notevole distanza, probabilmente soprattutto in virtù degli scontri estivi conclusisi con la vittoria della Libya Dawn, si trova come seconda Tripoli con 512 casi e poi gli altri fronti del conflitto dopo la presa della città: Kikla, con 181 casi e Wershefana con 147. Segue il maggiore centro del Fezzan, Sebha, con 134 casi, e Derna, la città sede delle milizie islamiste più radicali e in alcuni casi vicine all’Islamic State, con 63 casi. Le città simbolo delle differenti posizioni politiche e militari in Libia, Misurata e Tobruk, vengono dopo alcune posizioni, rispettivamente con 8 e 7 casi. Le città teatro di almeno un caso di morte violenta in Libia sono state in totale 32.
Infine sembra giusto inserire anche il numero dei migranti morti lasciando la Libia nel tentativo di raggiungere l’Europa: il sito ne conta, per tutto il 2014, 3187, cioè più di quante persone siano morte nel principale scenario di guerra cittadino. Il 18 dicembre le Nazioni Unite contavano circa 400.000 rifugiati interni.
Conclusioni. Attendendo, sulla Libia la comunità internazionale è già schierata.
Il 2014 è stato per la Libia un anno difficile. Problemi quali le troppe armi incontrollate, l’instabilità politica e militare, i
gruppi estremisti, una violenza difficile da contenere, non sono certo nati in questi dodici mesi, ma hanno invece caratterizzato tutto il paese dall’inizio del dopoguerra. Certo, il 2014 ha portato una seconda guerra dopo quella conclusasi nel 2011, l’ha resa esplicita con la creazione di due compagini militari e politiche ben distinte: due fronti politici e militari che le Nazioni Unite e la comunità internazionale di cui le Nazioni Unite sono espressione dichiarano di voler compattare attraverso un Dialogo Nazionale iniziato ma subito, come scritto, arenatosi per l’impossibilità di mettere d’accordo le varie parti.
Sembra sciocco recitare, meglio anticipare: si scrivono queste righe – ma non quelle dei capitoli precedenti, che hanno già alcuni giorni di vita – a poche ore dall’inizio di quello che nelle intenzioni di molti dovrebbe essere la tappa fondamentale del Dialogo finalmente realizzata a Ginevra, in Svizzera. Leon ha dichiarato che la Libia non ha più tempo da perdere, l’Europa ha definito l’iniziativa come un’ultima possibilità.
Ultima possibilità prima di cosa? Non è chiaro e questa poca chiarezza secondo chi scrive non giova al ruolo dell’arbitro neutrale. A sentire gli italiani, che promettono un ruolo di primo piano se il Dialogo di Leon dovesse fallire e che sono gli unici occidentali ancora presenti nel paese con la propria ambasciata, potrebbe seguire un’attività di peacekeeping e di monitoraggio, ma questo solo dopo la ritrovata unità politica del paese. Bisognerà allora chiarire bene cosa vorrà dire che il peacekeeping avverrà a dialogo tra le parti fallito ma a unità avvenuta: il Dialogo Nazionale di Leon ha come fine proprio l’unità e non si capisce come potrebbe fallire raggiungendola. Forse gli italiani paventano la possibilità di un paese con un solo governo e un solo parlamento ma ancora ben poco gestibile?
Quella che è chiara è la disposizione di alcuni paesi nei confronti della Libia, pacificata e unita o no che sia. L’Italia potrebbe, come appena detto, guidare un intervento dalle modalità ancora tutte da chiarire ma comandato dalle Nazioni Unite; l’operazione Barkhane ha portato la Francia e i suoi alleati africani ai confini della Libia; la Francia è ufficialmente ferma ma alcuni paesi africani – di area francese – hanno chiesto nero su bianco che questo intervento si faccia a fianco del governo eletto, quindi di Tobruk. Tobruk stessa chiede il pieno appoggio delle Nazioni Unite, che invece tentano ancora di mantenere un’immagine neutrale: anzi, al loro interno potrebbe giocarsi un braccio di ferro tra chi, dietro una neutralità di facciata che accomuna tutti, appoggia più Tripoli o più Tobruk. Il sospetto – che rimane tale in mancanza di prove certe, ricordiamolo – è che i due campi vedano almeno il Regno Unito da una parte, la Russia e la Francia dall’altra.
Alla luce del riavvicinamento che pare aver interessato Egitto e Qatar, non c’è nemmeno troppa sorpresa nel vedere Tripoli chiedere la neutralità e la non ingerenza: il fronte più compatto a livello internazionale sembra essere quello antiislamista – che contiene anche una buona parte di paesi arabi – e infatti Tobruk l’ingerenza la chiede eccome: certo, scongiurando una nuova operazione militare esplicita che forse non gioverebbe alla sua immagine e rischierebbe invece di qualificarlo come un governo debole, ma gli aiuti sono bene accetti e lo ha chiarito una volta per tutte l’Inviato alle Nazioni Unite Ibrahim Dabbashi. Non parole, ma armi e equipaggiamenti.
Le posizioni sembrano prese, il futuro però rimane ancora incerto: dipenderà in buona parte da quello che si dirà a Ginevra, Svizzera, il 14 gennaio 2015.
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.