Perché non siamo in guerra

di Stefano Rota

L’estremista guerrafondaio Giuliano Ferrara ha urlato qualche sera fa dai microfoni di Santoro che “siamo in una guerra santa e chi non lo capisce è un coglione”.

Ecco, io appartengo a quei coglioni che non si sentono in guerra, né santa, né civile, né nazionale, né internazionale, pur condannando senza alcuna riserva e inorridendo di fronte alle azioni dei giorni scorsi, a Parigi, come a Kobane. Le ragioni sono diverse, ma, a mio modo di vedere, intrecciate tra loro. Provo ad analizzarle con un minimo di ordine.

In primo luogo, esistono due scenari: uno tutto europeo e uno internazionale. Anche questi due contesti non possono essere visti in modo distinto, perché hanno radici comuni.  Queste hanno nomi precisi e, senza neppure scendere troppo in profondità nel sottosuolo, raggiungono la stessa falda acquifera che li nutre. Sto parlando, specificamente per il contesto occidentale, ma forse estendibile anche oltre, della crisi del modello di cittadinanza, declinato nelle sue varianti nazionali, che prendono i nomi di integrazionismo, assimilazionismo, multiculturalismo. La crisi di questi concetti, messa bene in evidenza ormai da parecchi anni da molti studiosi internazionali del fenomeno migratorio, ha prodotto e continua a produrre le forme più disparate di conflitto sociale: basti pensare a Londra, le banlieueses parigine e, più recentemente, Ferguson e altre città americane. Si crea un corto circuito tra modelli identitari, percezione delle soggettività individuali e collettive e modelli di cittadinanza, basati, come dicono Mezzadra e Neilson, su pratiche di “inclusione differenziale”. Quote importanti di cittadini (non è importante a quale numero di “G” appartengano) avvertono un crescente senso di estraneità alle scelte, alle strategie, ai “trend” che sempre più si mantengono ben lontani dai quartieri periferici delle metropoli, disegnando confini topograficamente non marcati, ma molto ben visibili e percepiti da chi li abita.

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Ecco, qui entra in gioco lo scenario internazionale. Per la prima volta, si paventa la nascita non di uno stato-nazione islamico, come fu ad esempio al tempo di Khomeini, ma la trasformazione di una nazione in “stato islamico”. Una nazione, di per sé, non ha confini precisi: può attraversare le frontiere, i mari ed estendersi in ogni luogo, non necessariamente contiguo ad altri, dove vi sia chi sente di condividerne determinati valori. Lo “stato islamico” sta creando in più parti una sorta di abbaglio, mostrando la possibilità a molti abitanti dell’Europa, e non solo, di sentirsi “cittadini” di quella nazione-stato in senso pieno, indifferenziato, sia che si viva a Musul, Aleppo, Parigi o Roma. In nome di questo, vengono perpetrati crimini orrendi, si stabiliscono alleanze criminali (di cui le monarchie “moderate” del golfo sono sostenitrici), ma la posta in gioco è più alta di tutto ciò. La creazione di questo senso di cittadinanza, appartenenza e condivisione riempie, come si cercato di dire sopra, un vuoto, riempie gli spazi che si creano tra l’ambiente socio geografico in cui si vive e la percezione di sé come altro da questo, ricompone le fratture che i “confini” aprono all’interno delle comunità, delle singole persone, ponendone una parte da un lato e un’altra sul lato opposto.

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La guerra santa di cui parla il medievale Ferrara non tiene conto di tutto questo. Così come non tiene conto che andrebbe condotta all’interno delle scuole, dei quartieri, dei giardini pubblici. La sua visione, paragonabile a quella di Seseli al tempo della guerra della ex – Yugoslavia, ha unicamente come obiettivo quello di aggiungere odio all’odio, basato su letture ipocritamente e volutamente false.

L’unica azione che ha senso sostenere, dal mio punto di vista, deve mirare a sviluppare nuove forme di cittadinanza inclusiva, di relazione tra le diversità, di lotta a visioni essenzialistiche, fondate su divisioni e contrapposizioni date per certe una volta per tutte, da qualunque parte provengano. Da questo punto vista, una grande lezione ci viene proprio dal Kurdistan occidentale, o siriano, come ricorda Mezzadra in un articolo su “Euronomade”. Nella carta della Royava, si parla di libertà, giustizia, dignità e democrazia; di uguaglianza e di “ricerca di un equilibrio ecologico”, netto è il rifiuto non solo di ogni assolutismo etnico e di ogni fondamentalismo religioso, ma della stessa declinazione nazionalistica della lotta del popolo curdo.

Ripartire per non lasciare più spazio di quanto già non ne abbiano i fautori dell’odio (anche qui, di qualunque parte) significa porsi obiettivi di breve, medio e lungo periodo. Significa tessere legami forti che mettano in discussione le divisioni aprioristiche, per costruire nuove alleanze basate sulla proposizione di modelli di cittadinanza non stratificati (retaggio dell’epoca coloniale) e di sostegno attivo alle popolazioni che combattono contro la barbarie, dell’Isis o di qualunque altra forma di assolutismo. Significa, in una frase, contribuire a ridisegnare uno scenario globale di priorità, scelte e strategie, dove non ci sia posto, con buona pace dei vari Ferrara e al-Baghdadi, per nessuna guerra santa.

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