Al Festival Internazionale di giornalismo a Perugia capita di incontrare persone di spicco e firme importanti ma, a volte, a lasciare il segno sono proprio quei panel meno “inflazionati”, quelli che non hanno nomi altisonanti perché sconosciuti ai più.
Un esempio di quanto ci sia di bello – e di nicchia – lo si è visto all’incontro La battaglia per la libertà: testimonianze a confronto dove alcuni personaggi di fama internazionale hanno raccontato quanto sia difficile dare voce alle ingiustizie presenti nel loro paese.
Farida Nekzad: co-fondatrice Wakht News Agency
Essere una giornalista donna in Afghanistan è decisamente difficile. Il ritiro delle truppe ISAF in Afghanistan significa meno protezione, meno diritti soprattutto per noi. È triste da dire ma l’Occidente si è dimenticato di noi, di quanto sia importante per noi la loro protezione… La vita delle giornaliste donne nel mio paese è difficile: non solo godiamo di meno libertà ma il nostro lavoro spesso non è riconosciuto. Siamo costrette a scontrarci con problemi quotidiani, dalla redazione alle famiglie, che non credono nelle nostre capacità solo perché siamo donne e quindi sempre al secondo posto. Non solo… Molte giornaliste donne vengono uccise e nessuno indaga sui loro omicidi. Sono voci spezzate per la seconda volta…
Anabel Hernandez: giornalista e scrittrice
Libertà di espressione significa responsabilità. Questo ancora di più quando si è giornalisti. La libertà di espressione deve riguardare problemi reali, come gli omicidi, i rapimenti… Ma soprattutto, i giornalisti devono imparare ad essere tolleranti. Questo è davvero importante. Come giornalista so che il problema principale in Messico non sono i cartelli della droga ma il governo. Negli ultimi otto anni oltre centomila persone sono state uccise, rapite e torturate. 25mila persone sono scomparse negli ultimi sei anni e 100 giornalisti sono stati uccisi. Non solamente uccisi, torturati e tagliati a pezzi e gettati per strada dentro sacchi neri. Ho lavorato vent’anni come giornalista investigativa e mi sono dedicata ai cartelli della droga per 10 anni. I cartelli sono potenti solo perché sono collegati con il governo. Ed è proprio dal governo che mi sono arrivate le minacce, non dai cartelli… Nel 2010 hanno tentato di uccidermi ingaggiando due poliziotti ma sono riuscita a scappare. Le mie fonti sono state uccise o scomparse… Nel dicembre del 2013 la mia famiglia è stata attaccata, sono entrati a casa mia, hanno cercato documenti e hanno minacciato di morte i miei vicini. Sono una mamma single di due bambini e ho deciso di lasciare il Messico per gli Stati Uniti ma questo non vuol dire che mi sono arresa. Se il governo messicano pensa di avermi fermato si sbaglia: io non mi fermerò mai.
Khalid Albaih: vignettista
Ognuno di noi rischia la vita tutti i giorni perché vogliamo mandare un messaggio… Credo che quello che è successo a Charlie Hebdo sia da condannare ma no, io non sto con Charlie. Li ho sempre trovati infantili e ho sempre pensato che non facessero informazione ma si limitassero a fare satira. Il mio lavoro è diverso, io racconto storie vere, di gente che muore davvero. A volte ai media occidentali sfugge il fatto che le vere vittime dei terroristi sono proprio i mussulmani. Charlie Hebdo ha aumentato i pregiudizi e gli stereotipi mentre noi dobbiamo imparare a parlare con le persone intelligenti…
La mia vita è stata sempre collegata con la politica. Mio padre era un diplomatico, mio zio un politico… Quando venticinque anni fa dalla Romania siamo tornati in Sudan mio padre è stato arrestato e così, io e la mia famiglia, siamo andati a vivere a Doha, in Qatar. Ho scoperto le vignette attraverso i giornali. Mentre in Medio Oriente le prime pagine dei giornali non cambiano dagli anni Sessanta le vignette hanno da sempre un ruolo importante. Così mi sono innamorato di questo modo di comunicare e ho deciso di studiarlo… Una volta diplomato non ho trovato subito lavoro e così ho iniziato a condividere le mie opere su Facebook. Poi, all’improvviso, qualcosa è cambiato. Quando ho sentito la notizia del ragazzo che si era arso vivo in Tunisia ho disegnato di getto e la mia opera è finita ovunque. Ho capito che quello che potevo fare aveva senso e che non dovevo finire. Ed è questo che dico a voi giovani: non smettete di credere in quello che fate, non scoraggiatevi… Siamo tutti nella stessa situazione ed è proprio per questo che nascono le “primavere”, le rivolte. Non mollate.
Ali Abdulemam: fondatore di Bahrein Online
Prima di raccontare la mia storia è bene spiegarvi cosa vuol dire vivere in Bahrein e posso farlo con qualche semplice dato. Dal 2011 più del 50 per cento dei giornalisti sono stati esiliati, braccati, licenziati… Oltre 15 di loro sono in esilio, più di 20 è stato in carcere e torturato. Questo è successo anche a me. Nel 1998 quando ho lanciato il mio sito ero rimasto anonimo: vivevamo in uno stato di polizia e nessuno voleva correre rischi inutili. Quando nel 1999 salì al trono il nuovo re ci fidammo delle sue promesse riguardo alla maggiore libertà di stampa e di espressione e molti di noi uscirono dall’anonimato. Nel 2002, però, venne varata una legge ben peggiore della precedente… Prima mi censurarono – facevo circa 200mila click in un giorno – poi scrissero minacce attraverso i media nazionali e infine mi arrestarono. Sono stato rilasciato solo grazie all’inesistenza di alcune Ong internazionali ma mentre ero detenuto sono stato torturato, abusato sessualmente, costretto all’isolamento per due mesi in una cella sotto terra e costretto a firmare una confessione senza nemmeno poterla leggere. In tribunale ho denunciato i miei aguzzini: davanti al giudice ho raccontato la verità e ho indicato chi aveva abusato di me. Ovviamente non è cambiato nulla loro sono rimasti impuniti. Sono stato rilasciato il 23 febbraio 2011. A metà marzo hanno fatto irruzione a casa mia per uccidermi. Io non ero lì, ero a trovare mia zia. Lì ho deciso di nascondermi, di non dire a nessuno dov’ero e di aspettare il momento propizio per andarmene. Due anni dopo sono riuscito a scappare e a lasciare per sempre il Bahrein. A gennaio ho scoperto che mi è stata revocata la cittadinanza insieme ad altri 72 giornalisti.
Quando mi chiedono perché ho fatto tutto questo, perché continuo a raccontare la mia storia e il mio paese rispondo che non voglio che i miei figli vivano la loro vita condizionati dalla paura, come è successo a me o ai miei genitori. Voglio che possano sognare di diventare tutto quello che vogliono.
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- Dal 2011 raccontiamo il mondo dal punto di vista degli ultimi.
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