L’epopea degli italiani nei call center portoghesi

Daniele Coltrinari – Sosteniamo Pereira

Non si conosce il numero esatto, tuttavia dovrebbero essere circa 500 italiani e la cifra potrebbe in futuro aumentare. Raccontarvi la storia dei nostri connazionali che lavorano a Lisbona presso alcune multinazionali non è semplice, tutte le persone che ho conosciuto e intervistato a parte due, che però non svolgono più quel tipo di lavoro, vogliono rimanere anonime e mi hanno chiesto di non citare l’azienda dove sono stati assunte, hanno paura di avere ritorsioni sul posto di lavoro o addirittura di perderlo.

Roberto, nome di fantasia, è arrivato nella capitale portoghese circa due anni fa. “Non trovavo lavoro a Roma, dove vivevo prima di venire qui. Poi, cercando su internet, mi sono imbattuto in questa offerta lavorativa”. Roberto, quasi trentenne nel 2013, dopo aver inviato un curriculum all’azienda che offriva lavoro e un breve colloquio via Skype in lingua madre dall’Italia, ha fatto le valigie ed è arrivato a Lisbona. “Mi hanno subito dato un stanza in un appartamento dove vivo con altri colleghi, non pago l’affitto, la luce, il gas, l’acqua. Addirittura due volte a settimana abbiamo la donna della pulizie gratuitamente. È l’azienda che si occupa di pagare tutti questi servizi”.

Parlando con Roberto scopro che il suo stipendio mensile si aggira intorno agli 800 euro e a seconda dei turni e degli “extra”, può superare anche i mille euro, una cifra che gli consente di vivere dignitosamente a Lisbona, anche perché è sgravato da tante spese, come l’affitto di una casa per esempio. Dobbiamo inoltre considerare che lo stipendio medio di un portoghese supera di poco i 900 euro mensili (dati 2013) e che il costo della vita nella capitale portoghese, esclusi alcuni quartieri centrali, è relativamente basso rispetto a una grande città italiana.

Questo trentenne italiano lavora insieme ad altri italiani, circa una cinquantina, risponde al telefono e alle mail. La sua professione è quella di assistere e dare informazioni ai clienti che chiamano dall’Italia, spesso ignari che dall’altra parte della cornetta, chi risponde, come Roberto, si trova in un’altra nazione.

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Diverse multinazionali, si sono stabilite in Portogallo da alcuni anni, si occupano di outsourcing, ovvero di fornire servizi che vengono esternalizzati da altre imprese. Quest’ultime possono essere case automobilistiche, banche e altri tipi di aziende. “Il mio contratto è stato rinnovato più volte e credo lo sarà anche in futuro – spiega Roberto – almeno finché durerà la commessa dell’impresa che ha esternalizzato questi servizi alla multinazionale dove mi trovo attualmente”.

In realtà potrebbero mandarlo via alla prima lamentela, come spiega Massimo Arondello, stavolta nome e cognome reale: “Ho lavorato per diverse aziende internazionali e ho conosciuto persone con contratti mensili, in alcuni casi rinnovabili giorno per giorno”. Massimo, poco più che quarantenne, è arrivato a Lisbona nel 2009 dopo diverse esperienze lavorative in giro per il mondo. Mi racconta di persone precarie da anni in questo lavoro, senza la possibilità di potersi costruire un futuro. E poi la paura che si respira in questi uffici, quella di perdere il lavoro da un momento all’altro, anche se in possesso di un contratto semestrale o annuale. “Dipende anche da chi sono i tuoi diretti superiori, quelli che controllano che tu svolga al meglio il tuo lavoro – racconta ancora Massimo – ho visto persone che non hanno resistito allo stress, credo che si possa tranquillamente parlare di operai del XXI secolo”.

Solo che gli “operai” dei call center non fanno in tempo a unirsi e a reclamare migliori condizioni lavorative, spiega il quarantenne italiano: “C’è molto turn over, dopo sei mesi ti puoi ritrovare a lavorare con persone che prima non avevo mai visto. E poi, con chi te la prendi? Sei assunto da un’azienda, è vero, ma allo stesso tempo stai lavorando per un’altra impresa che ha esternalizzato alcuni servizi”.

Anche Luca, non ha problemi a fare il suo nome: 30 anni, nei call center di Lisbona ci ha lavorato diversi anni fa, quando era diversa la percezione rispetto alle prospettive che potevano seguire ad un’esperienza come l’Erasmus. “Come tanti mi era rimasta la voglia di tornare, avevo imparato la lingua e Lisbona mi era sembrata una città povera ma stimolante, anzi entusiasmante, molto di più delle città italiane che conoscevo”.

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Luca, dopo aver lavorato in due aziende, la Teleperformance e la Sitel, tra le maggiori multinazionali presenti con una sede a Lisbona, ha deciso di lasciare per provare a inventarsi un lavoro che mettesse a frutto i suoi studi.

“Questo tipo di aziende devono fornire un servizio altamente competitivo, in termini di qualità e di produttività, altrimenti rischiano di non rinnovare le commesse per il servizio telefonico e di gestione che offrono. Il lavoro era così intenso che una volta uscito non riuscivo a fare altro. Perciò ho deciso di non lasciare Lisbona provando però a portare avanti altre interessi, come l’editoria, campo nel quale mi ero specializzato alcuni anni fa”

A Lisbona è possibile realizzare le proprie aspirazioni?

“Solo a metà” ci ha risposto Luca. “Ho lasciato il lavoro al call center ma sono sempre a un passo dal tornarci, se le cose non dovessero migliorare nel mio lavoro. Spesso in Italia si parla di fuga dei cervelli, io di cervelli in fuga ne ho conosciuti tanti che hanno una borsa di studio nelle Università di Lisbona, ma ne ho conosciuti altrettanti, se non di più, nei call center di questa città”.

Se tanti italiani sono arrivati nella capitale portoghese negli ultimi anni, in cerca di lavoro, non vi è dubbio che vivono un paradosso: quello di ritrovarsi in un paese recentemente uscito dal piano di salvataggio della Troika, dopo tre anni di lacrime e sangue.

“Quando sono arrivata nel 2008, non eravamo così tanti, poi negli anni successivi c’è stato un aumento continuo”. Maria, altro nome di fantasia, è una ragazza di 28 anni che lavora nei call center da ormai sette anni, arrivata nella capitale portoghese per un breve vacanza, non se ne è andata più via. “Volevo rimanere, l’unica possibilità che ho trovato è stata un’occupazione di questo tipo”, spiega Maria, aggiungendo: “prima eravamo ragazzi e ragazze che si erano innamorate di Lisbona e del Portogallo o comunque avevamo dei legami sentimentali in questo paese. Da qualche anno la situazione è cambiata, arrivano italiani che fino a ieri non sapevano nemmeno dove fosse situata Lisbona, se in Portogallo o in Spagna per esempio. Poi ti trovi anche persone anche in possesso di lauree e a volte con master internazionali. E ti chiedi cosa fanno qui”.

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Anche a Lisbona si respira moltissima incertezza, come in Italia molti ragazzi vivono alla giornata, eppure, molti preferiscono stare qui.


Profilo dell'autore

Daniele Coltrinari
Daniele Coltrinari
Nato a Ciampino (Roma) nel 1976, è un giornalista freelance e ha realizzato reportage su Lisbona e sul Portogallo, pubblicate su diverse testate nazionali. È coautore di Lisbon Storie (2016), il primo documentario indipendente sugli italiani che da anni vivono e lavorano a Lisbona. Ha pubblicato nello stesso anno C'era una Volta in Portogallo (Tuga Edizioni), un libro di ciclismo, viaggi e avventure. Lisbona è un'assurda speranza (uscito recentemente per Scatole Parlanti) è un romanzo breve ambientato nella capitale portoghese poco dopo gli anni post Troika e prima dello scoppio della pandemia.

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