Un fotografo tra gli afghani d’Iran. “Raccontate la dignità, non fame e miseria”

di Monica Ranieri

38 milioni. Provate a contare, e ad immaginare per ciascuno di quei 38 milioni un volto, una storia, in sostanza, una vita. Immaginateli in movimento, anzi no, in fuga, da conflitti armati, violenze di stampo etnico e discriminazioni, o disastri naturali. E se non ci riuscite provate di nuovo, perché quello a cui la vostra immaginazione arriverà sarà poi, inevitabilmente, solo una piccola parte della realtà che vede coinvolti i rifugiati in oltre sessanta paesi, secondo i dati elaborati dall’Internal Displacement Monitoring Centre (centro di ricerca del Norwegian Refugee Council), nel rapporto “Global Overview 2015 People internally displaced by conflict and violence”.

E forse, se non già schiacciata dalla valanga di immagini più o meno virali che inondano media tradizionali e social network, la vostra fantasia non dovrà sforzarsi troppo se vi chiedo di immaginare il volto di una bambina siriana. Se la vostra memoria non vi inganna sarà facile figurarvi nella mente il volto di Hudea. È la bambina siriana fotografata a dicembre 2014 da un giornalista turco, Omar Sagirli, nel campo profughi di Atmeh, nel nord della Siria. Nel marzo di quest’anno la foto che la ritrae nell’atto di alzare le mani, come per arrendersi davanti all’obiettivo del fotografo, è diventata improvvisamente un fenomeno virale, rimbalzando di condivisione in condivisione virtuale.

In quei giorni ero al confine tra Turchia e Siria, e, da fotografa, ho potuto notare il modo in cui la gestualità dei bambini, già di per sé accentuata, nei campi profughi appare ancora più marcata ed esasperata. Ho cominciato a riflettere quindi prima sulla foto di Sagirli in sé, sui motivi ed i modi che hanno portato quella foto, quella specialmente, a divenire icona di una situazione che riguarda 38 milioni di persone. E poi sono stata incuriosita dal comprendere cosa significa, e cosa comporta, raccontare la condizione del “rifugiato”. Ed ho quindi pensato di girare alcune delle mie domande a chi, di questo racconto, ha fatto la propria missione.

sharhiarShahriar Khonsari è un fotografo freelance iraniano che ha una lunga esperienza di formazione, studio ed insegnamento tra Tehran e Malmo (Svezia). Per dieci anni ha lavorato tra i rifugiati afghani: secondo le stime ufficiali in Iran hanno trovato rifugio tra i 2,5 e i 3 milioni di afghani, registrati regolarmente e non. Lo stesso Khonsari in occasione della presentazione del suo lavoro lo scorso dicembre a Loviisa, in Finlandia, ricorda che secondo il rapporto redatto da Human Rights Watch nel 2013 l’Iran avrebbe disatteso molti dei compiti prescritti tanto dalle direttive internazionali quanto dalle proprie leggi nell’accoglienza a migranti e rifugiati: “Non esiste un sistema di asilo funzionante. Le condizioni sono peggiorate e la pressione aumentata per quasi tutti gli afghani in Iran. Accedono con difficoltà ai servizi sociali e spesso sono vittime di abusi da parte di privati. In aggiunta alle difficoltà oggettive di ottenere l’asilo, i rifugiati e richiedenti asilo presenti in Iran si trovano davanti a rigorose restrizioni alla libertà di movimento, e a limiti arbitrari imposti all’accesso all’educazione, all’impiego, alla cittadinanza, e al matrimonio. Tutti gli afghani e gli altri non iraniani sono soggetti a restrizioni negli spostamenti in molte aree del paese e gli immigrati regolari sono costretti a lavorare a specifiche professioni, tutte molto pericolose. Infine tanto I regolari che gli irregolari vanno incontro a tutta una serie di abusi, e molti di quelli che vengono espulsi subiscono le violenze delle forze di polizia”. Secondo la legge iraniana la cittadinanza è determinata dalla nazionalità paterna. Dunque molti bambini pur avendo la mamma iraniana non vengono riconosciuti dal governo come cittadini e non hanno documenti che consentono loro di esercitare diritti. Molti di questi bambini vivono al di fuori dei campi profughi, non possono avere accesso all’educazione pubblica e a regolari condizioni di lavoro, e devono quindi lavorare in nero per sopravvivere. Per FrontiereNews Mr. Khonsari ha accettato di scrivere qualche riga a proposito del suo lavoro e dei nostri dubbi, partendo proprio dalla foto della piccola Hudea.

“Le nuove tecnologie di comunicazione diffondono gli eventi nel mondo. Filmati e fotografie di atti brutali vengono caricate in rete in tempo reale. Questo ha influenzato, in un certo senso, numerosi conflitti nel mondo. Nei paesi autocratici mentre i media tradizionali promuovono la politica del “non pensare” e “non porre domande”, nuovi media diventano una soluzione alternativa ed un impulso al cambiamento sociale.

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Ma il citizen journalism ha diversi lati oscuri. Non sono poche infatti le informazioni poco o non corrette che vengono così veicolate sul web, e una gran quantità di contenuti e di immagini non hanno qualità. Un’altra criticità è rappresentata dal fatto che molti mezzi di comunicazione nel mondo sfruttano questi filmati, fotografie ed altri materiali da fonti dirette senza pagare alcunché e si preferisce rivolgersi al lavoro di citizen journalists per tagliare sulle spese.

Nella crisi siriana i social media sono stati usati per diffondere informazioni presso la gente. L’uso di questi nuovi strumenti ha fornito alla gente uno spazio per esprimere le proprie opinioni in modo più sicuro. Ma alla fine si tratta solo di un mezzo, non di un fine e l’esperienza ha dimostrato che “condividere” o “mettere mi piace” ad un post non produce di per sé  cambiamento sociale. Può esprimere la resistenza ed aiutare a diffondere la verità , ma è necessario molto di più per giungere ad un reale cambiamento.

C’è una grande quantità di filmati e fotografie su ingiustizie, soprusi e su eventi orribili (tra cui immagini di lapidazioni e torture) che accadono continuamente in tutto il mondo.  La reazione alla rappresentazione di questi eventi in genere è principalmente di isolamento dal mondo esterno, di chiusura nella propria sfera personale. Ma chi può rimanere indifferente di fronte alla foto di un bambino?

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Certo, la bambina non ha identità (o comunque la perde). Lo sfondo della foto non ci fornisce alcun indizio specifico. La bambina che “si arrende” diventa di per sé un segno evidente e sufficiente. Magari si sta stiracchiando, e non ha nessuna intenzione di comunicare resa con quel gesto, ma questo per me è poco importante. La cosa più importante sono i suoi occhi. Attraverso i suoi occhi stai guardando la triste storia della sua vita. I suoi occhi sono aperti.

Magari lei non se ne è neanche accorta, ma la combinazione del movimento della fotocamera che si fissa sul suo volto e del suo rimanere in quella strana postura per qualche secondo guardando dritto davanti a sè fa credere che ci stia effettivamente guardando. È la differenza tra l’essere oggetto o soggetto dello sguardo e il pubblico sente in questo modo di essere guardato. Lei ti sta guardando. Ti sta giudicando. È chiaro che non sta realmente accadendo, ma rientra nella dinamica del sistema segnico delle immagini: ne percepiamo il senso, avvertiamo il sentimento. Viene così annullata la distanza tra il popolo siriano e il pubblico internazionale che viene infine giudicato dagli occhi di questa piccola bambina siriana.

Con le mie fotografie ho cercato di cambiare delle situazioni poco piacevoli e portare a galla regole e comportamenti ingiusti. In Iran ci sono molte pratiche sociali e legali che coinvolgono i rifugiati afghani ma devono essere valutate e cambiate. Ho lavorato su questo e il mio scopo è quello di dare a questi profughi afghani senza voce una possibilità di essere visti e ascoltati nell’arena pubblica.

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Tutti i cambiamenti sociali prendono avvio da una parola: “Perché”. Questo indica che i nuovi media devono essere esplorati per condividere le idee sul “perché”. Una certa stanchezza ha preso piede tra gli iraniani impegnati direttamente ad affrontare il cambiamento. La passione per il cambiamento e la speranza per una ridefinizione delle relazioni tra i cittadini, tra i cittadini e i profughi, e tra l’Iran e il resto del mondo rimangono sfuggenti. Per autodifesa ci piace far finta che niente stia accadendo. Io voglio mostrare al mio pubblico la verità, creare dibattito intorno al “perché” e creare discussione abbastanza perché le persone vogliano il cambiamento, e creare il dialogo per il cambiamento.

Nel pratico l’esperienza più impegnativa per me come fotografo è stata quella con gli afghani che non si fidavano di me. Una delle ragioni è che loro considerano gli iraniani come “altri” e con rammarico devo ammettere che la maggior parte degli iraniani pensa la stessa cosa di loro. Esiste una grande distanza tra iraniani e afghani. Scattare queste foto tra i rifugiati afghani in Iran mi ha insegnato molto sulla paura che loro hanno degli iraniani. Ho dovuto convincerli ad accettarmi come fotografo e che non volevo offenderli o danneggiarli in nessun modo. Per farlo a volte ho mostrato loro alcuni esempi di come gli attivisti nel mondo usano le fotografie per difendere i diritti dei rifugiati. Eticamente cerco di rispettare la cultura dei profughi afghani ma nello stesso tempo provo a mostrare la discriminazione di genere che esiste in quella cultura. Ho cercato di scegliere fotografie che mostrano la dignità del popolo afghano e non fotografie che esibissero solo miseria o fame”.

Le foto della gallery sono state scattate a Zabol, nel campo profughi di Dalakee, nella provincia di Bushehr, a Torbat-e-Jam nel nordest dell’Iran, e a Semnan.


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